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Quattro chiacchiere con Leonard Cohen

 

di Timothy Basi

L’articolo che segue è ricavato da un’intervista realizzata il pomeriggio del 22 novembre 2007 a Montréal nella casa di Leonard Cohen. Filo conduttore della nostra conversazione è la singolare affinità fra il percorso artistico di Leonard Cohen e quello di Fabrizio De André.

Fabrizio De André

Nel sito ondarock Claudio Fabretti e Valerio Bispuri affermano che Nick Cave e Fabrizio De André sono i migliori discepoli di Leonard Cohen. Gli chiedo cosa pensi di questa dichiarazione. «Se uno deve avere discepoli», dice lui, «entrambi i cantanti potrebbero essere considerati discepoli. Ma loro sono bravi indipendentemente da me, sono ottimi artisti». Cohen ammette però di non conoscere bene i loro lavori: «La mia conoscenza di questi due artisti è superficiale: ho incontrato Nick Cave ma lo conosco appena. Ho sentito molte sue canzoni ma la mia sete di diligenza non è soddisfatta, non ho approfondito sul serio i suoi lavori né quelli di De André. Ho ascoltato però le loro canzoni e ne riconosco l’eccellenza». Cohen aggiunge di aver molto apprezzato i suoi pezzi Suzanne, It Seems So Long Ago e Joan Of Arc, tradotti in italiano e cantati da De André. Gli chiedo, a proposito della sua canzone Joan Of Arc, come sia possibile esprimere così tanta passione verso una donna non conosciuta personalmente: «A me sembra di aver conosciuto personalmente Giovanna D’Arco», afferma con una punta d’ironia, «sono cresciuto con questa storia, questa figura è vicina al mio cuore. Non considero Giovanna D’Arco un’estranea».

C’è un’interessante coincidenza fra la vita di Cohen e quella di De André all’inizio della loro carriera di cantautori. In un’intervista De André parla di come la cantante italiana Mina lo abbia aiutato a diventare famoso cantando un suo pezzo, La canzone di Marinella, che sarebbe poi diventato il suo primo grande successo. Dichiara De André: «Se una voce miracolosa non avesse interpretato nel 1968 La canzone di Marinella, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all’avvocatura». Analogamente, la cantante Judy Collins, nella sua autobiografia, parla di quando, dopo le sue cover dei pezzi Suzanne e Dress Rehearsal Rag nell’album In My Life (1966), disco d’oro nel 1967, Leonard Cohen iniziò ad essere conosciuto come cantautore. Il contributo di una donna è stato indispensabile, quindi, per entrambe le carriere di questi due artisti. «Esattamente», dichiara Cohen senza esitazioni, «Judy Collins è stata estremamente generosa, il suo aiuto è stato cruciale. Senza di lei avrei probabilmente continuato a scrivere, ma mia madre mi aveva fatto iscrivere a giurisprudenza [...]». Proprio come De André, gli faccio presente. «Sì, è un’altra somiglianza, anch’io sarei tornato a studiare giurisprudenza».

Nel 1997 De André ha scritto, in collaborazione con lo psicologo Alessandro Gennari, il romanzo Un destino ridicolo. Uno dei personaggi principali del romanzo è Bernard, che viene descritto come una persona con «l’aura di grandezza che circonda a volte chi è caduto e non fa mistero di quella svolta che ad altri appare come un fallimento [ ]». Leggo a Cohen questo passaggio, dicendogli che tale descrizione mi sembra la definizione personale di De André di un ‘beautiful loser’. Gli chiedo quindi quale sia la sua definizione di un ‘beautiful loser’. «Accetto questa definizione, è ottima», risponde con convinzione, «c’è una tradizione che abbraccia quella descrizione nel Giudaismo che è chiamata “il santo peccatore”». Anche questo è un ossimoro, rifletto. «Sì», dice, «nel senso che qualcuno ha fatto un tipo di vita che lo rende inadatto ad una vita funzionale ma questa esperienza produce anche una generosità di spirito - e questo è l’aspetto bello. Però tale esperienza lo ha reso inadatto alle funzioni ordinarie in quanto l’esperienza è quella del male che è dentro di lui».

Solitudine e libertà

Bird on a Wire di Cohen e Il suonatore Jones di De André sono entrambe canzoni sulla libertà dell’artista. Chiedo a Cohen cosa significhi per un cantautore essere libero. «Il mio amico Layton», afferma, «ha un bel primo verso in una poesia che dice “Qualunque altra cosa sia, la poesia è libertà”. Non ho mai capito cosa volesse dire con questa espressione ma certamente risuona in me. Penso che la libertà di cui parla sia quell’attività che trascende i commenti, che non bisogna leggere, né capire, né apprezzare. È là per le sue ragioni, non ti prega né ti domanda niente, quindi, anche se, chi più chi meno, tutti dobbiamo partecipare al mercato, l’attività essenziale è nelle mani di coloro che abbracciano questo concetto di poesia come libertà o canzone come libertà. Queste persone partecipano al mercato ma non dipendono da esso».

Cohen, nella sua poesia Lungo il sentiero, sostiene di essere vecchio e non avere nemmeno un rimpianto. Similmente, il suonatore Jones, nella canzone di De André, dice: «Finii con i campi alle ortiche/ finii con un flauto spezzato/ e un ridere rauco/ e ricordi tanti/ e nemmeno un rimpianto». Chiedo a Cohen se anche lui, come il suonatore Jones, non ha rimpianti in quanto ha fatto sempre quello che gli piaceva e quindi sentiva di essere libero. «No», risponde deciso, «forse il traguardo è lo stesso, ma il percorso è opposto. Non sento di essere mai stato libero. Questo è un tipo di libertà, quando rinunci all’idea che sei tu l’artefice del tuo destino o che sei tu a determinare quello che succederà. Questa mia sensazione si basa sul fatto che non potevo comportarmi altrimenti, ecco perché non ho rimpianti. Non perché ho fatto scelte eccezionali ma perché le scelte fatte non erano mie. Perché allora dovrei assumerne la responsabilità, perché dovrei rimpiangerle o esserne orgoglioso? Non c’è bisogno di essere orgogliosi né di rimpiangere, orgoglio e vergogna sono inutili, perché non erano decisioni mie. Sono stato spinto, trascinato».

Un altro tema frequente nei testi di Cohen e in quelli di De André è quello della solitudine. Ad esempio, una strofa della coheniana Waiting for the Miracle dice: «Sposiamoci piccola / siamo stati soli per troppo tempo./ Stiamo soli insieme, vediamo se siamo così forti» (Trad. di Alessandro Achilli). Gli domando cosa significhi l’ossimoro Let’s be alone together, stiamo soli insieme, e se per una persona sia possibile non essere sola. «No, è un luogo comune, tuttavia è vero che siamo tutti soli», osserva Cohen, «ma ci sono momenti di grazia quando una solitudine si dissolve e due solitudini si uniscono come amebe per un attimo prima di separarsi di nuovo e questi momenti possono rinfrescarci, possono rinfrescare la solitudine. Una solitudine ininterrotta è un’altra cosa e non so chi può sopportarla. Comunque lo sfondo della nostra vita è un senso di solitudine fino a quando non abbiamo un tipo di esperienza che trascende la solitudine, per cui, dopo questo tipo di esperienza, ti senti sempre solo ma non ti importa, non ti identifichi così strettamente con la tua solitudine: la riconosci, la individui, non la eviti, ma come la maggior parte delle altre condizioni della vita l’accetti senza il bisogno di un commento interiore». Gli chiedo quando capitino questi momenti. «È un momento di grazia», risponde, «quando si assimila il concetto che non siamo noi i padroni delle nostre vite, questo concetto diventa una convinzione: riconosci come inevitabili le condizioni in cui ti trovi. Se sono inevitabili è inutile elaborare un commento, è inutile sezionare l’inevitabile ed è anche inutile il rimpianto».

Infine domando a Cohen se la solitudine sia, per lui, la sola condizione per la libertà di un artista. «Sa, io credo che queste siano domande di lusso», afferma serio, «Il mio amico Layton ha detto che la vita civile, la cultura è come smalto sugli artigli. Quindi, di tanto in tanto, se siamo davvero fortunati abbiamo l’opportunità di sederci e parlare di solitudine, dolore e sofferenza, ma ci sono persone che soffrono e provano dolore vero. Questa è una conversazione legittima, ma dobbiamo farla rientrare nella prospettiva per cui De André, Leonard Cohen e Irving Layton, ovviamente hanno sofferto le consuete vicissitudini, le avversità di una vita ordinaria, ma questa è una vita molto privilegiata, così privilegiata che oggi è quasi osceno discutere le traversie degli artisti occidentali, perché adesso lo smalto è stato scrostato e possiamo vedere i nudi artigli dell’umanità».

La scimmia del Quarto Reich

Le canzoni dei due artisti che più si somigliano sono senza dubbio La domenica delle salme e The Future. L’affinità fra queste due canzoni è davvero sorprendente. Cohen e De André esprimono, con toni apocalittici e riferimenti più o meno velati all’olocausto, una cupa e disperata visione del futuro del mondo dopo la caduta del muro di Berlino attraverso testi complessi che rappresentano, forse, il più felice punto d’incontro fra le loro sensibilità artistiche. «Sfortunatamente, è stata una predizione molto accurata», commenta Cohen. Gli chiedo quindi di parlarmi del testo di The Future. «Vi ho detto molte delle cose che volevo dire in quel periodo», risponde, «avevo molti versi di quella canzone, è una canzone davvero molto accurata. Inizialmente doveva chiamarsi: “Se potessi vedere ciò a cui andiamo incontro”: “Se potessi vedere ciò a cui andiamo incontro, se potessi leggere il testo nascosto [ ]”, forse è anche meglio di quella del disco, a volte butto via anche la roba buona. Quando è caduto il muro di Berlino, tutti festeggiavano tranne me. Ovviamente per la maggior parte degli abitanti della Germania dell’Est è una cosa meravigliosa. Non so perché avevo l’impressione che qualche ordine si fosse rovesciato e che l’intero incubo europeo iniziasse a manifestarsi nuovamente, perché c’era un perfetto equilibrio dal nostro punto di vista. Un mio verso in Democracy dice “Non sta arrivando nello stile europeo, il Conte Dracula avanza lungo la navata”. Avevo l’impressione che il conte Dracula stesse per arrivare nell’Europa dell’Est perché l’equilibrio di poteri era stato compromesso o meglio completamente distrutto, e che il rapporto dell’Ovest con l’Islam fosse completamente rovesciato. Ho scritto una canzone - mai finita - dal titolo Russian Honeymoon. L’idea era che si trattava solo di una luna di miele russa e che la luna di miele sarebbe finita e il Conte Dracula sarebbe avanzato lungo la navata».

In una strofa de La domenica delle salme sembra riemergere una minaccia nazista: «la scimmia del quarto Reich / ballava la polka sopra il muro / e mentre si arrampicava / le abbiamo visto tutti il culo». Anche Cohen nel testo di The Future aveva inizialmente incluso un riferimento al Nazismo – il verso «Dammi amore o dammi Adolph Hitler» – in seguito omesso dalla canzone registrata. Gli chiedo quale fosse il significato di quel verso. «Non lo so e non so neanche cosa volesse dire De André esattamente», esclama, «ma c’è come la sensazione che qualche spirito grottesco fosse stato fatto uscire dalla bottiglia, la sensazione che qualcosa di morboso, osceno, demoniaco fosse stato ristabilito nella psiche del mondo. In questo senso sì, c’è una vera somiglianza, entrambi abbiamo questa sensazione».

Molti critici hanno parlato dei frequenti riferimenti al Nazismo e all’olocausto nelle opere di Cohen. Quello più scioccante si trova senza dubbio nell’episodio di Beautiful Losers (1966) in cui i personaggi F. e Edith hanno un rapporto sessuale con Hitler in una vasca da bagno e poi si puliscono i corpi usando del sapone fatto di carne umana fusa. Gli chiedo di spiegarmi il significato di questa sconvolgente scena. «Penso sia solo l’intimità » dice Cohen, «l’intenzione era di trasmettere un’inevitabile intimità col male e di inserirla in una cornice in cui potesse essere accettata, nella sua assurdità e comicità. È stato scritto così tanto sull’olocausto: l’olocausto degli ebrei e anche il crollo generale dei valori occidentali che l’olocausto presenta sono stati citati così tanto che la gente è quasi assuefatta. Accade con ogni espressione di male colossale fissata in questi termini: si sviluppa un’assuefazione, c’è una parte della nostra psiche che ne rimuove l’effetto. Quindi stavo probabilmente provando a presentare quest’intimità col male attraverso termini che non potessero essere evitati e l’ho fatto prima di tutto per me stesso». Le persone si assuefanno con facilità anche alle tragedie del mondo contemporaneo, rifletto. «Beh, cosa si deve fare?», ribatte Cohen, «Non puoi svenire ogni volta, non puoi scoppiare in lacrime ogni volta o sentire il tuo cuore battere nel petto ogni volta. Alla fine dici: questo è lo stato delle cose, o ne verrò sopraffatto o sopravvivrò. Ne Il libro del Desiderio (2006) c’è una poesia che parla di questo. Si intitola Il modo migliore e dice: “È meglio trattenere la lingua, studiare la mia posizione, alzare il mio bicchiere di sangue, provare a dire la preghiera per il pasto”. Voglio dire che ci siamo dentro e siamo accondiscendenti e che forse è colpa nostra o forse no, ma in fondo la colpa sembra essere un elemento del tutto irrilevante, anche se ci sono persone che da entrambe le parti vogliono farci provare colpa e vergogna. Penso che l’artista che riesce a sopravvivere senza diventare ‘sloganizzato’, senza attaccare semplicemente l’America o l’Islam, o prendere qualche posizione, farà meglio a trovare un modo di personalizzare tutto ciò. Se dobbiamo sopravvivere, dobbiamo solo trovare il modo di venire a patti con questa realtà. E anche questo atteggiamento è codardo perché cosa risolviamo? Sei venuto a patti con questa realtà, che grossa conquista, congratulazioni!». Osservo che bisogna pur trovare un modo di sopravvivere. «È quello che voglio dire», continua Cohen, «Le persone che conosco stanno lottando per la sopravvivenza e questa è comunque una sopravvivenza di lusso perché non devono preoccuparsi di essere bombardate o torturate. Ma c’è pur sempre una seria minaccia di sopravvivenza psichica. Come venire a patti con tutto ciò?».

La banalità del male

Un altro tema riguardante l’olocausto frequente nelle poesie di Cohen è il concetto arendtiano di banalità del male. Giancarlo De Cataldo, nella sua introduzione al libro L’energia degli schiavi (2003), parla di come il testo di Hannah Arendt La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme (1963) abbia influenzato la scrittura di Fiori per Hitler (1964) e definisce questa raccolta di poesie «il contraltare poetico della banalità del male» . L’influenza del libro di Arendt è particolarmente evidente nella poesia All there is to know about Adolf Eichmann, specie di riassunto, in forma poetica, del libro della filosofa tedesca. Chiedo a Cohen se ritenga banale anche il male del mondo contemporaneo. Lui riflette per diversi secondi prima di rispondere. «Sa, mi sento in qualche modo a disagio a parlare di questi argomenti», afferma leggermente turbato, «queste domande sono davvero eccellenti e fanno riflettere [...] è vero che le affronto nelle mie opere ma le affronto con una facoltà intellettuale diversa da quelle a cui posso fare ricorso in questa conversazione. Posso rivangare un’opinione ma non sono molto interessato alle mie opinioni, le mie opinioni sono come slogan. Ne possiedo alcune ma da qualche tempo mi sento davvero indifferente nei loro riguardi. Ecco perché scrivo, perché con la scrittura puoi oltrepassare le tue opinioni. Non ho mai trovato molto interessante il tipo di scrittura che esprime opinio- ni. Non intendo dire che non occupa uno spazio legittimo, certo che sì, ma il tipo di lavoro che mi piace svolgere e a cui mi piace essere esposto e che mi piace leggere è qualcosa che non appartiene allo stesso campo dell’opinione, è un’esperienza diversa della propria realtà, esiste oltre l’opinione: in effetti, è una critica dell’intero meccanismo dell’opinione. L’opinione consiste nello scrivere su un certo tipo d’esperienza, le esperienze producono un’opinione, ma questa è un’identificazione molto superficiale del tutto, quindi al di sotto dell’opinione esiste ogni tipo di conflitto. Questo è il mondo che mi piace leggere in uno scrittore. È un mondo che mi piace cercare di raggiungere dentro di me, ecco perché devo scrivere molto e gettare molto via, perché mi accorgo se una strofa esprime un’opinione, anche se è scritta abilmente. Il mio amico Layton dice: “Dopo un po’ qualsiasi poeta conquista la padronanza di qualche trucco stilistico”, cioè sa come produrre qualcosa di dignitoso, anche d’interessante, ma sotto quel tipo di espressione c’è un altro tipo di espressione che è molto più ribelle, libera e vera. Potrebbe non suonare subito coerente, sa, come la canzone The Future, che alla gente non è piaciuta quando è uscita e che, qui specialmente, è stata ignorata. Adesso vedo che se ne parla molto perché, come la poesia di De André, stava toccando percezioni psichiche non ancora sviluppate. Quindi, il male è banale? È maestoso ed è banale, è unico e comune, puoi ritrovarne l’impulso nel tuo cuore. Questa è l’analisi che ho il lusso di intraprendere perché non sto morendo di fame».

Le guerre di ieri e di oggi

Le canzoni sulla guerra sono un altro punto in comune fra Cohen e De André. Nella canzone On that Day, ad esempio, Cohen, parla dell’undici settembre, un evento che ha portato alla guerra in Iraq. Gli chiedo cosa pensi di questo conflitto. «Sa, sarebbe bello poter vincere una di queste guerre che ci piace iniziare», risponde, «non ho niente da dire su questo argomento, è troppo [...] c’è una canzone su questo tema che sto per incidere. Fa così » Lo interrompo per chiedergli se nella sua canzone troverò una risposta alla mia domanda. «Non dico che è una risposta, è una reazione emotiva», taglia corto Cohen, «Mi piacerebbe che fosse una risposta ma è solo una reazione emotiva. Fa così:

Ero il tuo ubriaco preferito
Perfetto per una risata in più
Ma poi la fortuna si è esaurita per tutti e due
E fortuna era tutto ciò che avevamo

Hai indossato un’uniforme
Per combattere la guerra civile
Ho provato ad unirmi ma a nessuno piaceva
La parte per cui sto combattendo

Beviamo allora a quando tutto finirà
Beviamo a quando ci incontreremo
Mi troverai qui, in piedi in questo angolo
Dove c’era un giorno una strada

Ho pianto per te questa mattina
E piangerò per te ancora
Ma non controllo il dolore
Quindi non domandarmi quando

So che il tuo fardello è pesante
Mentre lo sostieni attraverso la notte
C’è gente che dice sia vuoto

Ma non per questo è leggero

Beviamo allora a quando tutto finirà
Beviamo a quando ci incontreremo
Mi troverai qui, in piedi in questo angolo
Dove c’era un giorno una strada

Mi hai lasciato con i piatti
Ed un bambino nella vasca da bagno
E sei vincolata alla milizia
E indossi il loro camuffamento

Beh, immagino che ciò ci renda uguali
Ma io voglio stare con te
Nient’altro che un’aggiunta alla sequenza
Dei vecchi rosso, bianco e blu

Beviamo allora a quando tutto finirà
Beviamo a quando ci incontreremo
Mi troverai qui, in piedi in questo angolo
Dove c’era un giorno una strada

Ora sta per essere Settembre
Per molti anni a venire
Ogni cuore si adatta
Al rigido tamburo di Settembre

Oh piccola non ignorarmi
Eravamo una famiglia, eravamo amici
Alla fine ci stanca quella storia
Di tradimento e vendetta

Vedo il fantasma della cultura
Con numeri sul polso
Omaggia una nuova conclusione
Che era sfuggita a tutti noi

Beviamo allora a quando tutto finirà
Beviamo a quando ci incontreremo
Mi troverai qui, in piedi in questo angolo
Dove c’era un giorno una strada (trad. mia)

Questa è la mia reazione emotiva. Non so esattamente nei confronti di cosa ma le canzoni che sto incidendo certo non possono ignorare. Penso che siamo in una posizione per cui ci è impossibile ignorare il mondo esterno, non possiamo ignorare gli effetti che la vita esteriore produce in quella interiore, questo è quello che voglio dire».

Gli domando infine il significato delle strofe finali della canzone On that Day: «Sei impazzito / O ti sei presentato a rapporto / In quel giorno / In quel giorno /Che hanno ferito New York» (trad. mia). «Intendo dire», risponde Cohen, «è crollato il tuo senso della realtà civica della società occidentale? Sei impazzito? Non fai più parte della nazione? Ti sei dissociato completamente? Pensi che la risposta appropriata sia “è tutto un mucchio di merda, fatemi uscire”? C’è quel dipinto di Munch con l’uomo che corre lungo il ponte, urlando. Quella è la reazione di un certo tipo di psiche a questa catastrofe: l’impazzimento. Ti fanno uscire fuori di testa e tu rifiuti di accettare le implicazioni. Molte persone hanno capito che niente sarà uguale. C’è una parte di noi che vuole impazzire e dire: «il cielo è crollato e noi siamo in preda alla follia e il mondo intero è impazzito e non abbiamo altra scelta se non quella di abbracciare la posizione della vittima o del fuggiasco». Dunque io scelgo un tipo di complessità diversa che incarna la parola report, che ha un senso militare, un senso morale ed anche uno da boyscout. Queste sono le opzioni, o impazzisci o ti presenti a rapporto, ti presenti al dovere».

Il valore della musica

In un’intervista del 1972 Leonard Cohen ha detto: «Non mi interessa di essere frainteso. Non penso che si possa essere fraintesi. Penso che siamo tutti in contatto, ogni persona che ha occhi e cuore aperti è in contatto con la parte più profonda di ogni altra persona». Gli ricordo questa sua lontana affermazione e gli chiedo se, secondo lui, la musica può unire di più la gente. «Certo, c’è questa possibilità», risponde, «ma la concezione che avevo in quell’intervista ha subìto qualche revisione, perché credo che il cuore si stia chiudendo, penso che siamo in un periodo convulsivo in cui i cuori si stanno chiudendo. Non voglio abbozzare un ritratto troppo cupo ma credo che ci troviamo adesso in uno di quei periodi in cui la gente non si presenta a rapporto, in altre parole non abbraccia la responsabilità spirituale di non uscire pericolosamente dagli schemi. A volte mi trovo a guidare sull’autostrada e guardo alle altre macchine e mi sembra che ci sia una specie di crollo del contratto civile. Anche se ci sono moltissimi meravigliosi esempi di compassione, aiuti e carità, vedo la società di oggi in un momento convulsivo dove le persone pensano solo a se stesse e sono preoccupate per la propria sopravvivenza».

Cito alcuni artisti influenzati dal suo stile, Fabrizio De André, Nick Cave, Antony (della band Antony and the Johnsons), Kurt Cobain e sottolineo come tutti siano molto diversi fra loro. Tuttavia, probabilmente non sarebbero gli stessi se, ad un certo punto della loro vita, non si fossero imbattuti nelle sue canzoni. «Penso che da un po’ di tempo», dichiara Cohen, «siamo in una cultura in cui navighiamo ed avevamo un vasto paesaggio in cui navigare anche prima dell’avvento di Internet, sa, con la disponibilità di dati provenienti da così tante fonti. Penso che Internet non sia altro che un prodotto della nostra sete per questa attività, proprio perché stavamo già navigando. Leggiamo quello che ha scritto un africano, ascoltiamo quello che suonano in Islanda, l’argomento è vasto: essere esposti a così tante cose ci permette di trattare il mondo come un tavolo da buffet. Non voglio valorizzare una cosa al posto di un’altra, ma noi possiamo davvero scegliere e metter insieme cose che nessuno si era mai sognato di poter mettere insieme. È un collage: tutti noi agiamo in un mondo di collage dove mettiamo cose insieme che in qualche modo funzionano».

Chiedo a Cohen quale sia, per lui, il contributo di un poeta alla società contemporanea. «Non lo so», risponde, «a volte penso che non abbia nessun valore [...] ha un valore solo in una situazione di lusso, ma non sono sicuro del suo valore. Ho letto di persone che attraversando circostanze difficilissime hanno trovato conforto nelle scritture, nella preghiera, in una poesia [...] in una canzone. Ho anche sentito che alcune mie canzoni hanno offerto conforto a persone in situazioni estreme. Quindi forse c’è un valore. Da alcune persone del mio piccolo mondo ho saputo che le mie canzoni significano qualcosa per loro e devo ritenere vera questa cosa. Se hanno un significato per loro, allora hanno un significato».

Gli domando, infine, quale sia la ragione per cui scrive oggi. «Fortunatamente non mi pongo più questa domanda», conclude «ci sono molte ragioni, alcune sono economiche, ma io penso che una persona trovi il rispetto di se stessa nel proprio lavoro».


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