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Seminario sull’Amore:
Virginiana Miller,
Il primo lunedì del mondo


di Simone Marchesi

Quae cum difficultate quaeruntur suavius inveniuntur

Esterno. Giorno. In Italia, oggi, da qualche parte tra rock e pop. C’è un album, un mazzetto di canzoni che non parlano d’amore, che si rifiutano recisamente di chiacchierarne e provano, invece, a dirlo. A dirci cos’è. Sì, perché c’è una bella differenza. Non è, voglio dire, la stessa cosa dire che si è innamorati e provarsi a dire l’amore. Il primo è vezzo, se non ragione d’essere, di buona parte della musica leggera italiana, che si fa (e qui uso il si in accezione e con valore essenzialmente passivanti, senza però escluderne a priori valore ed accezione impersonali, dato che è fenomeno per cui si può tranquillamente dar per scontato un dominio di maggioranza), che si fa, dicevo, perché qualcuno è innamorato. Che poi si tratti di chi canta, di chi sta nella canzone, di chi ascolta o di chi, destinatario privilegiato delle rare canzoni in seconda singolare, quelle parole le riceve, in fondo poco importa. Qualcuno che è affetto da questa patologia, o che (almeno) ne esibisce i sintomi, si può star certi che non manca mai. Il secondo compito è ben altro esercizio. Provarsi a dire l’amore, senza (a questo punto si può anche aggiungere) dover necessariamente essere innamorati, senza che istituzionalmente vi sia qualcuno nella sfera della comunicazione che sia caduto preda del sentimento che si far rimare con «cuore», è un esercizio che ha un più vasto campo di manovra – mica ne esiste solo uno di tipi d’amore – e che viene affidato a strumenti analitici più raffinati – meno, se vogliamo, fenomenologici – dato che si chiede che cosa voglia dire, veramente, amare. È proprio questo l’esercizio che si provano a eseguire, compatti, i testi dell’album Il primo lunedì del mondo, le dieci canzoni che si presentano qui di seguito nel tentativo di valutarne d’insieme le varie sfaccettature e, al tempo stesso, di isolarne analiticamente i punti di forza, i momenti in cui più marcatamente l’ultimo lavoro dei Virginiana Miller si fa – oltre che insieme di canzoni – anche saggio sulla natura dell’affezione umana, attenta ed articolata risposta a uno dei più cruciali quid est? della nostra cultura.

Che cosa significa, dunque, dire l’amore? È un compito che passa, per prima cosa, per una ricognizione delle sue molte varietà. Perché d’amore ci sono vari tipi; e Il primo lunedì del mondo ne esplora molti. Nella nostra coscienza di esseri pensanti nell’Occidente post-moderno si riconoscono almeno, in ordine sparso e senza pretese di esaustività, l’amore per se stessi (amor proprio e narcisismo), quello paterno e filiale, quello reciproco di chi lega la propria esistenza all’esistenza di un’altra persona, quello che chi sta per venire al mondo si suppone provi per tutto ciò che il mondo sarà per lui, quello di ciascuno per gli infiniti e parziali oggetti del desiderio, quello dei poeti per le invitanti e inaccessibili creature la cui distanza essi cercano incessantemente di colmare di parole e quello, infine, che spinge la mente via dal corpo verso Dio, il motore affettivo del raptus mistico e il sostegno costante di ogni pratica ascetica. Le stesse categorie d’amore, in una tipologia né esaustiva né ordinata, si trovano anche nel disco, associate ciascuna a una precisa canzone (con minimi intrecci e alcune non insignificanti contaminazioni). Interpellati in questa prospettiva, ascoltati attraverso il filtro di questa tassonomia caotica e stratificata, i testi danno risposte interessanti, tanto ciascuno in isolamento quanto presi insieme – sospesi, come sono, nella necessaria ambivalenza di frammenti in un discorso sull’amore che resistano alla tentazione di sfociare in un totalizzante ‘discorso amoroso’. Nel commento si darà conto in maniera più puntuale degli agganci semiologici e lessicali tra le canzoni e il macro-codice dell’amore, il ‘sentimento’ (e l’icona culturale) intorno a cui si addensano temi e situazioni cruciali per la nostra tradizione di pensiero, quella classica, medievale e romantica dell’Occidente. Fin da ora non è forse inutile, però, vedere qualcosa di quanto queste canzoni abbiano da dire sulla questione.

Così, se è d’amore che si tratta, è d’amore che tratta la canzone che dà il titolo all’album Lunedì. Un amore di sé, che è anche alba della creazione del sé, a sua volta un’auto-creazione finalmente innescata e poi auspicabilmente sostenuta da questo amore, che accosta fin quasi a fonderli io e testo e che, nella piccola genesi di una «bella canzone» (altrui e già potenzialmente propria) si sveglia e trova le ragioni della propria ‘sussistenza’, termine che si usa qui non a indicare solamente esistenza in tono minore, ma anche – a norma del lessico teologico di Dante (Paradiso XXIX) – il movente ultimo del Dio Creatore della Cristianità. A fare da specchio a questo amore di sé che si apre in altri amori, altri non solo perché più numerosi dell’io-uno, suoi semplici multipli, ma specificamente diversi e distinti da sé, viene nell’album il rispecchiamento coatto della comunità multiforme e tutta intenta a misurarsi con e su se stessa che viene proiettato sui nomadi del surf. Un insieme di individui scarsamente individualizzati, narcisisticamente in bilico «su queste superfici», che cerca nella riflessione reciproca la conferma momentanea e incessante della coesione, se non della coerenza, del proprio ego. La superficie dell’acqua di cui si temono in quella canzone le profondità – i gorghi dell’autoconoscenza narcisistica – è archetipo che si può anche inflettere, pur rispettando lo stesso paradigma di consolatoria diffrazione di sé negli altri, e presentarsi nella versione teconologica di L’inferno sono gli altri. Qui la superficie è lo schermo del computer, luogo di alienazione in un’alterità travestita da filìa, che diviene porta, o portale, verso un vuoto di senso, sentimenti e identità, verso uno spazio riempito ossessivamente di immagini e parole.

Se si vogliono, di nuovo e forse un po’ artificialmente, riunire in una diade ancora altri due testi, a questo esercizio si presta bene il dittico ossessivamente intra- ed extra-coniugale di Presidente e L’angelo necessario, due canzoni allineate alle altre, in una complanare ricognizione nel territorio dell’amore, stavolta di coppia. Sono ancora due tipi d’amore – opposti o complementari, a seconda delle inclinazioni e delle personali vicende di ciascuno di noi – ad essere analizzati nei testi. Da una parte, lo scontro di potere, congenito alle democrazie occidentali ed endemico all’istituto del matrimonio, li rivela entrambi sistemi di relazione legati nell’immaginario lessicale della prima canzone da quel sintagma «Stati Uniti», che indica tanto l’agglomerato politico degli stati che si estendono per una buona metà del subcontinente Nordamericano quanto coloro che, alla lettera, ‘sono stati uniti’ nel sacro vincolo del matrimonio, quel legame sancito da Dio, di cui si vieta all’uomo lo scioglimento e di cui si minaccia qui la dissoluzione: «Dammi gli Stati Uniti e li divido per sempre». Il teatro quotidiano delle reciproche recriminazioni – o, più propriamente, nel caso in questione – delle unilaterali ammissioni di insufficienza adiaforica, su cui è giocata tutta Presidente, proietta, dall’altra parte, come alternativa esistenziale e di linguaggio, l’apparizione ‘necessaria’ di un incespicante e trasgressivo angelo d’annunciazione, un’icona di libertà che è anche indimenticabile musa ispiratrice, donna altra dalla vita, occasionale Beatrice che veste i panni della «ragazza triste» della canzone italiana, smemorata sirena che incespica e ‘diverte’ (cioè manda fuori rotta) e che in tutte queste forme non fa altro che spingere alla creazione di parole d’amore. Nascono da questo incontro necessario tra poli di un dialogo poetico molti dei testi della lirica erotica occidentale, così refrattaria per statuto alla coniugalità dell’esperienza d’amore e così esiziale, al tempo stesso, per questi irragiungibili e caduci messaggeri di una realtà più vera e reale, una sfera dell’Essere a cui ci si può avvicinare soltanto per invito, asintoticamente e con un profluvio di parole. Da Elena a Lesbia, da Beatrice a Laura, da Lotte a Margherita, da Volpe a Clizia, passando per Silvia e Aspasia e gli altri innumerevoli e provvisori contraltari di quell’altra «altra donna», la stabile madre del Verbo, da sempre collocata alla radice e non sulla soglia del dire un altro tipo d’amore.

Non mi sarei spinto fino a evocare il paradigma di Maria, di colei che, nella tradizione cristiana, nel punto esatto in cui si consuma lo strappo dai suoi antecedenti classico e giudaico, dà alla luce il Verbo – e con il Verbo largisce a ogni soggetto desiderante, a ogni essere umano a caccia di parole che dicano veramente la verità sulla vita, la finalmente compiuta promessa di stabilità e pienezza di linguaggio che Egli porta con sé – non sarei andato così avanti, preciso, se nell’album non ci fosse stata anche Cruciverba, una canzone che offre una serissima e, anzi, amara parodia proprio del Logos fatto carne e abitante in mezzo a noi, che muore ed è sepolto, che compie, parola risolutiva in una lingua imperfetta, ogni scrittura. È un controcanto dettato da una disperazione rassegnata e a occhi asciutti, una resa in via di principio che non dimentica di essere impietosa di fronte ai nostri compromessi quotidiani con la Parola. È la stessa crux desperationis che smaschera implacabilmente la facilità irriflessa con cui troppo spesso accettiamo di parlare approssimativamente, lontani dall’esigente esattezza dei poeti, che sono gente anche questa che ama le parole, ma di un amore altruisticamente amaro. La lettura cristologica del ricercare enigmistico del «povero Cristo senza Passione», del Verbo messo in Croce, è soluzione invitata dal testo, che si offre come enigma non lieve e destinato a solutori che sappiano percepire, nella propria irredenta abitudine alla ricerca di parole, il segno di un bisogno più profondo, il sintomo di un amore per il senso ultimo al di là di esse. È amore anche questo, a cui risponde l’amore che si dà (che si è dato, nella tradizione cristiana, una volta per tutte), al di là di ogni possibilità umana, un amore-limite che il testo invoca, di nuovo disperatamente, come amore-modello. A fare da somma a questo filone di scavo – l’amore per una parola che sappia dire la verità o dare gioiosa ragione di vita, che non sia semplice surrogato dell’esperienza di appagamento, totale e primaria, nella grande madre lacaniana da cui proviene ognuno di noi, animale divenuto «fante», essere vivente nel linguaggio – c’è la classificazione caotica e polimorfa di una varietà strategicamente indugiata di oggetti in cui si risolve praticamente per intero Oggetto piccolo (a). Il titolo, che fa anche da refrain meditativo per la canzone, rimanda al Lacan dei Seminari e alle osservazioni che vi svolge intorno alla formazione dell’Io attraverso la pratica vestigiale dei piccoli piaceri legati a oggetti disintegrati, molteplici e perciò ripetibili all’infinito, in sostituzione dolorosa dell’oggetto del totale piacere infantile – l’unità indistinta di sé e madre – da cui violenti strappi culturali, sempre più simbolici ma non per questo meno dolorosi, ci hanno poi separato. Sigarette, combinazioni vincenti alla slot machine, ma soprattutto corpi, i nostri corpi sottoposti a privazioni alimentari auto-inflitte, esibizionismi più o meno forzati, mutilazioni rituali, pratiche sado-masochiste, entrano a far parte di questo catalogo dei desiderabili, insieme ad oggetti meno scontatamente fisici o fisiologici, quali quelli che possono essere ‘bagnati di silenzio’, ‘asciugati dalle lacrime’ e, infine, compito ultimo di ogni poeta, ‘rivestiti di parole nuove’.

Rimangono, a questo punto, due canzoni che non possono essere escluse, né tantomeno eluse, da questa rassegna. Sebbene si sia loro lasciato qui uno spazio liminale, quasi di coda, non sono tra le più difficili da interpretare; anzi, sono forse tra le più trasparenti, due tra quei testi che richiedono, in fondo, un apparato critico di spessore relativamente modesto. Per La carezza del Papa e La risposta, ciò che è veramente difficile è costringersi a dare voce a quello che vogliono dire. Sono due canzoni unite da una profonda vena dialogica. La carezza si apre con un colloquio tra padre e figlio, con le due voci bilanciate nel testo: al minore spazio concesso alla manifestazione diretta di quella del padre corrisponde il maggior peso dato, almeno in superficie, alle ragioni di lui; per contro, alla voce del figlio, a cui viene lasciato il compito di giocare di rimessa, si dà più spazio, così tanto da far sfiorare a tutto il testo il livello di un esteso monologo vissuto del figlio. Se c’è una voce che parla più a lungo, tuttavia, lo fa solo a patto di prendere in prestito le parole altrui, riconoscendone, in via di principio, le ragioni esistenziali (senza, comunque, privarsi del piacere di farne scorgere – e forse a torto – l’egotismo di fondo). Dall’incontro doloroso tra le delusioni di cui si dice vittma il padre per un figlio che non ha avuto, biblicamente, «né figli, né gloria o potere, soltanto canzoni» e l’accettazione, dall’altra parte, della responsabilità anche solo formale di questo disappunto esce la richiesta della sospensione di ogni conflitto verbale, in favore di segni «di amore sicuro», che non si affidino allo strumento coercitivo (perché interiorizzabile) delle parole, e quindi il passaggio a una dinamica educativa in cui alla libertà di principio sia fatta poi anche corrispondere, di fatto, un’applicazione del principio di libertà. Accanto, comunque, alla diversa e migliore carezza che il testo raccomanda come occasionale strumento pedagogico, liberato finalmente dal carcere delle parole, una risposta più articolata e profonda alla necessità di conoscersi e amare non solo come figlio, ma anche come padre si ricava da La risposta. È un testo affidato alla voce gorgogliante e già in qualche misura amniotica di un’anima incarnata e sul punto di venire al mondo, un testo che stabilisce da subito i propri saldi paradigmi culturali in un universo linguistico e di pensiero rigororosamente pre- e post-moderno, saldamente medievale tanto quanto ironicamente pop. Sono questo le «mille e non più mille bolle blu» e l’idiomatica e intraducibile cup of tea, la «tazza di teologia» che non aiuta a dirimere la spinosa questione dell’esistenza dell’anima prima della sua incarnazione.

In un certo senso, è tra questi testi che si compie il percorso del disco. In ciò che corre tra la necessità di riprodurre la recriminante voce del padre, per rivendicare l’impossibile autonomia della propria, e l’aprirsi alla voce di un figlio che attende, aprirsi così tanto da accettare che da questo venga la risposta alla propria domanda (alla domanda sul sé), c’è tutto il cammino compiuto dalla ricerca di senso per un’esistenza che possa essere non meno, rispettosamente, altrui che, strumentalmente, propria. Chiedere a un figlio che ancora non è nato il perché della sua volontà di venire al mondo è onesta interrogazione di padre, prodotta dall’inspiegabile meraviglia di fronte alla scelta di esistere. Allo stesso tempo, tuttavia, è anche sofferto tentativo di conoscere la propria origine, di sapere quale possa essere stata la propria ragione per venire al mondo, un mondo in cui ci condanniamo immancabilmente al desiderio. Alle molteplici domande di senso poste dal padre in La Risposta la voce dl figlio risponde con chiarezza e gioia tutte sensoriali: «voglio l’abbraccio di mia madre, voglio le corse col mio cane, voglio un’ora d’aria e voglio anche il caffé», una serie di asserzioni concretissime, che culminano nel reciso «voglio te», finale e profonda definizione reciproca di due sé. È questa la risposta, nata dal fondo da cui sgorgano le parole, alle domande che Simone Lenzi aveva già posto anni fa, con la voce di Leon Battista Alberti: «A che, perché, per cosa nacqui io?».

 

Il primo lunedì del mondo

1. Frequent flyer

last to get the shuttle first to climb aboard
first to set the laptop last to fast the belt
c’mon angel play for me
your in-flight safety demonstration
how to find an exit how to mask me
in case of emergency
fly fly on the sunny side
dream on sleep light
mixin’ mini-bottles memory and desire
ice cubes and refreshments
dry mouth nico-addiction
c’mon angel play for me
your in-flight safety demonstration
monday / friday I am on my weekly alien abduction
I am a frequent flyer

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[...] Nella versione cantata il testo è preceduto, in recitativo, dai nomi di una lunga serie di compagnie aeree. Se è genesi quella che segue con Lunedì, qui siamo in quel non-spazio e non tempo, che è anche informe materiale sonoro, in cui si registra «il discorrer di Dio sopra quest’acque» di Paradiso XXIX.21. Nel misterioso prodromo alla creazione del primo giorno si aprono, come sapeva bene Agostino, gli spazi per il «delirante vagabondaggio dell’informe creatura spirituale» (gli «spiritalis informitatis vagabunda deliquia» di Confessioni XIII, 5).

Last ... first: non semplicemente un caso di «ultimi che saranno i primi», ma un rinvio ai novissimi, declinati qui in senso post-industriale.

Angel: assistente di volo, in senso perfettamente etimologico. Rimane da capire se, oltre che epiteto troppo familiare, il termine non indichi forse anche una direttrice ascensionale teologica.

Mask me: non completamente idiomatico in inglese e, perciò, probabilmente allegorico (Paradiso XXX, 91?).

Sunny side: of the plane, rather than “of the street” (come cantava Louis Armstrong), in opposizione all’ombra (alla valle delle ombre del Salmo 23) in cui si potrebbe sempre finir per camminare.

Mixing ... memory and desire: aprile è, di fatto, il mese più crudele. Stando alla Waste Land di T.S. Eliot, lo è proprio perché contamina ricordi e desideri.

Dry mouth: il corpo, in questi contesti, è oggetto tipico di interrogazione. Secondo la Seconda ai Corinzi, «sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium coelum». Gli risponde, da suo pari, Paradiso I, 73-5: «S’io era sol di me quel che creasti / novellamente, Amor che ’l ciel governi, / tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti».

Alien abduction: in italiano rapimento, dalla voce latina rapio, da cui raptus.

Monday/Friday: settimana tipicamente lavorativa. Poi viene il sabato del riposo. Qui, invece, segue un lunedì.

______________

2. Lunedì

suona la radio e mi sveglia la bella canzone
cerco qualcosa da fare
se doveva piovere e invece c’è il sole
comincia così oggi è il primo lunedì del mondo
e ho chiuso la porta alle spalle e ora scendo giù
girano al vento le foglie le buste di plastica bianche
i pensieri di ieri e le nostre parole
non fanno più male così
e sì oggi è il primo lunedì del mondo
ho chiuso la porta alle spalle ora scendo
cosa vuoi che faccia adesso?
vuoi che resti o vuoi che vada?
vuoi che resti in piedi o vuoi che cada giù?
giù nel primo lunedì del mondo
cammina cammina le scarpe non fanno più male
le nostre parole non saranno nuove
mai più mai più

______________

La bella canzone: situazione potenzialmente circolare. La canzone dalla radiosveglia è anche canzone del risveglio; la situazione che si apre così è anche una canzone che «comincia così», cioè come sta per recitare il verso che segue.

Se doveva piovere: il primo segnale di una dominante intertestuale meteorologicamente carica, che scopriremo anche silvestre.

Il primo lunedì del mondo: non si può essere più incipitari di così. È dizione assoluta: l’inglese ha ‘first Monday ever’, ma non si ha quasi più il senso che si alluda così all’opera di costruzione del mondo che inizia proprio di lunedì. In Italiano si ha un, credo casuale, contatto con un testo di romanzo. (Carlo Cristiano Delforno, Descrizioni criminali, Rizzoli, 1988). Googlebooks è più impietoso di ogni critico, più demonico di ogni memoria d’autore.

Le buste di plastica: è immagine icona dell’immaginario filmico americano (American Beauty), ma viene coniugata qui a un sintagma forte della tradizione italiana. «I pensieri di ieri» appartengono a Franco Battiato (Il cammino interminabile), ma sono già quelli suggeriti dalla rima («leggeri / pensieri / ieri») che, in D’Annunzio «l’anima schiude novella» all’inizio de La pioggia nel pineto. Anche lì, la serie rimica viene a marcare l’inizio di qualcosa di nuovo. Il rimando a D’Annunzio è raffinata glossa, che si sottoscrive qui pienamente, di Costanza Barchiesi.

E cammina cammina: saggia abitudine alla vita, che chiarisce la nuova strada che pochi versi prima aveva preso il linguaggio, quando erano state le parole a cessare di far male.

Non saranno più nuove: se questo potrebbe, a prima vista, dispiacere, è solo perché non ci fermiamo a pensare quanto forte sia ciò che il «non» nega qui. Il fatto che le parole siano, di fatto, davvero nuove. Per la prima e ultima volta ne hanno qui la possibilità. D’altra parte, per lo stesso D’Annunzio della stessa Pioggia nel pineto si udivano «parole più nuove», non più «umane». Siamo ancora in margine, e ai margini, di quella pineta toscana.

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3. Acque sicure

scendi dallo scivolo sull’onda
segui il filo d’acqua e plana
lungo il fine settimana sulla tavola da surf
questa rabbia questa sabbia in bocca
questi amari lecca lecca
questa rogna questa misera California
questo sciocco vento di scirocco
questo non c’è fine al peggio
questo pomeriggio l’onda ci trascina giù
giù dove non si tocca giù oltre le acque sicure
giù nelle nostre paure
gli sguardi i frangenti i contrattempi
prendi aria respira siamo resti di un naufragio
ora e ancora riaffiora apri gli occhi resta a galla
giurami che resteremo giovani e felici
e sempre in bilico su queste superfici
senza scivolare giù
giù dove non si tocca giù oltre le acque sicure
giù nelle nostre paure
gli sguardi i frangenti i cambiamenti
prendi aria respira siamo resti di un naufragio
ora e ancora riaffiora apri gli occhi resta a galla

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Scivolo: termine non tecnico, come invece sarannoaltri più avanti, a fare da chiave lessicale per l’inseguito miracolo dell’eterna giovinezza, che è qui questione di fondo («giovani e felici»).

Lungo il fine settimana: segno che spazio e tempo tendono ad essere intercambiabili, che è fenomeno tutto sommato logico, quando ci si muova all’interno della logica del movimento.

Questa ... questo etc.: l’immediatezza dell’hic et nunc impone anche un hoc, sul quale il testo insiste parossisticamente. Gli oggetti sono, una volta resi miriade dall’istantaneità del movimento, sempre e soltanto “questi” – l’attimo colto non sembra, però, avere un buon sapore. Colpiscono le serie rimiche: se rabbia/sabbia è forse innocentemente vetero-nomadica (Dio è morto) e sciocco/scirocco è in fondo non sorprendente, rogna/ California è coraggiosa e riuscita variante della triade invettivale vergogna/menzogna/rogna (da Paradiso XVII). Ci sono tanti motivi per aver l’amaro in bocca: là ne andava delle ragioni etiche del testo, qui sembra essere questione di qualunquismo di superficie. Minima immoralia.

Giù ... giù ... giù: paradigmatica ramificazione analitico-allegorica. Se la vita è scivolare etc., che cosa significa che «non si tocca»? Che cosa sono «le acque sicure»? Che cosa sono «le nostre paure»? A chi vive su (e per) la superficie, non è facile guardare giù.

Schiaffi, frangenti, contrattempi: termini tecnici del sapere connesso alle onde, forse. Come tali, qui, da prendere prevedibilmente con valenza metaforica. Da notare la sostituzione nel refrain di «contrattempi» (qualcosa, ad esempio un’onda, che ti prende controtempo) con il più chiaro «cambiamenti» (che è dichiarazione dell’angoscia esistenziale che si respira nella canzone). In filologia medievale si penserebbe all’intrufolarsi di una glossa nel testo, tanto il secondo termine è facilior ed esplicativo del primo; nel pop è invece marca di caritatevole coscienza autoriale. Non c’è quasi niente di nuovo: «Nihil enim fere de illis obscuritatibus eruitur, quod non planissime dictum alibi repperiatur» (Agostino, De doctrina Christiana II.6.8). Tra “sguardi” e ”schiaffi” corre la grammatologia.

Giurami: l’accordo è con almeno un’altra persona, ma si intuisce il gruppo più largo. Diversa, per direzione verso la profondità e non solo, è un’altra discesa ad inferos che si basa, però, almeno superficialmente, su di un’analo- ga invocazione del patto. Schiava del Politeama di Paolo Conte si apre così: «Giura che mai / rinnegherai il dio del tango, / dell’habanera e del fandango. / Giurami, giurami ...».

Superfici: restare in bilico sulla superficie è equilibrismo essenziale per ogni narcisista. Cadere, anzi scivolare, giù, nella conoscenza di sé, nell’esperienza delle profondità (una ‘riflessione’ non superficiale, ma profonda) è ciò che innesca la tragedia. In Ovidio, Tiresia aveva profetizzato a Narciso lunga vita, lunga almeno fino a quando non avesse conosciuto se stesso: «si se non noverit» (Metamorphoses III, 348). Per tutta risposta quello cadde giù: in fondo, al fondo.
___________
4. La risposta

in fondo in fondo resto sul fondo e mi nascondo
mille e non più mille bolle blu
ma l’immortalità dell’anima
non è la mia tazza di teologia
spero veramente la Resurrezione della Carne
e alle tue domande la risposta è che voglio te
voglio l’abbraccio di mia madre
voglio le corse col mio cane
voglio un’ora d’aria e voglio anche un caffè
le parole sono mani e le mie mani sono stanche
se anche uscissero dall’acqua credo non le aiuteresti
voglio te
e giù restando giù
grattando il fondo delle tue domande
oltre i tuoi perché io voglio te
le parole sono sassi e me li sono messi in tasca
come vuoi che riesca a dirti quanto pesano i silenzi
voglio te

__________

In fondo: il contrario della superficie. Si tratta, al tempo stesso, di un segnale sintattico di base («in fondo in fondo») e di una collocazione topografica precisa («sul fondo»).

Mille e non più mille: motto chiliastico, che rimanda alla temperie della fine del primo millennio dell’era cristiana, quando tutto doveva cambiare e niente cambiò. Le «bolle blu», invece, sono quelle della canzone italiana, trasferite però dall’aria, in cui le vedeva salire e scendere Mina, all’acqua dal cui fondo risalgono qui. È traslazione forse non priva di significato (cfr. infra).

La mia tazza di teologia: callida contaminazione tra l’espressione idiomatica inglese «not my cup of tea», ad indicare qualcosa di cui non si è esperti, e la «teologia», il discorso che dovrebbe occuparsi, come specificato immediatamente, di «immortalità dell’anima» e di «Resurrezione della Carne». Il minimo ‘Credo’ che si imposta nel testo è risposta alle domande ‘di fondo’ sull’esistenza, bilanciato tra l’assenza di ogni certezza sull’anima (tranne la sua presenza) e la speranza per il corpo, luogo di articolazione di desideri essenzialmente innocenti. Teologicamente, dato che – a norma, appunto, di teologia – la speranza nella Resurrezione è la Speranza tout court, l’ultima ancora presente finanche nel paradiso (e in Paradiso XIV, 61-66), il discorso non fa una piega.

Voglio l’abbraccio di mia madre: «forse non pur per lor, ma per le mamme» è la soluzione dantesca al paradosso di quell’ultima speranza lasciata ai beati, il desiderio di un corpo che non si vuole possedere per se stessi, ma che si desidera soltanto per riempire il vuoto dell’abbraccio dei propri genitori. Un corpo che si accetta per farsi offerta, luogo di carezza affettuosa, strumento di piena carità.

E voglio anche un caffè: nella logica interna del testo ultimo, e più maturo, tra i desideri messi in serie ascendente: d’infanzia (l’abbraccio), giovinezza (le corse), adolescenza (un’ora d’aria) e maturità. Ma soprattutto chiave intertestuale, aggancio chiaro a – e brusca deviazione da – un altro testo cantautorale italiano, L’Animale di Franco Battiato e, con lui, da paradigmi di pensiero precisi. Se in Battiato, banalizzando un po’ (ma neppure troppo), il discorso si muoveva in chiave metempsicotica (antica), astrologica (rinascimentale) e in un dialogo erotizzato (di coppia), qui la filigrana di riferimento è quella della venuta al mondo una volta per tutte (in ambiente culturale post-cristiano), il discorso è di matrice teologica (medievale) e il testo si risolve in un monologo de-erotizzato (parentale). La Risposta è, insomma, anche una risposta: l’anima non è, come suggeriva Battiato, né animale astrologico né forza animale che riduca la vita al desiderio di qualcosa e all’infelicità («non mi fa vivere felice, mai»), l’acqua non è il luogo innaturale per «i segni di fuoco», i desideri che si susseguono non sono quel «tutto» che la parte meno umana dell’animale uomo «si prende». Infine, e soprattut- to, il «te» che si vuole qui non è lo stesso «te» che l’altro animale finiva per volere: qui la relazione con l’Io è tutt’altra e tutta un’altra cosa.

Le parole sono mani ... le parole sono sassi: praticamente, e in tutti i sensi, l’opposto de Le parole tra noi leggère di Lalla Romano (1969), ma forse non del suoretroterra montaliano (“Due nel crepuscolo”, in La bufera e altro). Se è sottile l’arte di porre domande, di formulare perché?, questo avviene perché la disciplina delle rispo- ste è già venata di stanchezza e di rinuncia. Il problema è il linguaggio, che del modo di desiderare del corpo ha conservato solo la traccia – modello per il proprio inestinguibile desiderio. Di qui la domanda, che resta onesta, ma che non è per questo meno destinata al silenzio.

Il fondo delle tue domande: lo status animarum non è, in fondo, la questione di fondo. È il loro motus verso la vita, piuttosto, ad essere inconcepibile a chi non riesca più a ricordare il proprio.

___________

5. L’angelo necessario

guardami guardami
sono uno scandalo un biondo di platino
un disco che sfuma e rimane la cenere
incespico un poco ma non riesco a cadere
e se vengo ad aprirti e ho in mano un bicchiere
tu guardami ora mi riconosci?
sono la tua statua della libertà
la tua ragazza triste
dimmi che mi ami se vuoi divertirti con me
la tua statua della libertà l’angelo necessario
puoi farmi piangere tanto dimentico
domani mi dimentico
sono un’icona la più bizantina
sono le tue aspirazioni e sono aspirina
per il tuo mal di testa di questa mattina
sono quello che resta ah beh
guardami ora guardami ancora mi riconosci?
guardami ora guardami ancora non lo capisci?
sono la tua statua della libertà la tua ragazza triste
dammi da bere se vuoi divertirti con me
la tua statua della libertà l’angelo necessario
puoi farmi piangere tanto dimentico
tu non ci riuscirai mai
_____________

Guardami: l’imperativo non rende giustizia all’urgenza soggettiva del richiamo da parte dell’oggetto. Senza lo sguardo, niente di quanto segue potrebbe aver luogo. «E gli occhi in prima generan l’amore», come aveva stabilito, in tempi non sospetti, già il Notaio. Lo integrò, in atmosfera purgatoriale, Dante, che, alla costatazione che lo sguardo è necessario perché chi ama possa amare il proprio oggetto, affiancò anche il suo potere di rendere attivamente attraente, amabile dunque, l’oggetto stesso. Il tutto all’inizio di Purgatorio XIX, nel sogno della ‘femmina balba’, anch’essa personaggio di «scandalo», dalla lingua e dal passo parimenti incespicanti.

Di platino: non meno il biondo che il disco sono idiomaticamente di platino. Lo sfumato semantico a catena di questi due versi arriva fino alla cenere, aggirando garbatamente il fuoco.

Incespico un poco: sugli scandali si inciampa fin dalla radice prima della parola. Qui, data l’allitterazione e dato che si tratta di angelo, più che del passo si tratta, però, del linguaggio: se così stanno le cose, di angeli che bal- bettano ce n’è uno famoso in Rilke, un angelo annunciante che, in perfetto tedesco, si rivolge a Maria per dirle: «du aber bist der Baum» (ma tu sei l’albero). Il tutto da prendersi con le dovute cautele ermeneutiche e soprattutto fatte le debite proporzioni.

Sono: autodefinizione tipica di queste figure. Da «“Io son”, cantava, “io son dolce serena, / che ’marinari in mezzo mar dismago» (di Purgatorio XIX, 19-20, pertinen- te anche per la nozione di ‘divertimento’) a «“Guardaci ben, ben son, ben son Beatrice”» (di Purgatorio XXX, 73, che viene a correggere proprio quella prima apparizione onirica).

La tua ragazza triste: nella fattispecie Patty Pravo, bloccata in una goccia d’ambra alla metà degli Anni 60, in equilibrio sulla soglia di una camera d’albergo, vestita solo di un telo da doccia, con in mano una flute da champagne. Ma ciascuno ha i propri fantasmi – detto, naturalmente, nel senso assolutamente tecnico della fisio-psicologia erotica di Avicenna (De Anima pars I, cap. 5). Ciascuno ha la propria icona di libertà.

Dimmi che mi ami: la sola volta nel disco che compare il verbo ‘amare’. E neppure in voce d’autore. Decisamente un buon indizio.

L’angelo necessario: titolo che appartiene a Wallace Stevens (da una poesia che parla dello stesso tema). Un’altra definizione potrebbe essere (sempre sua) quella di «angelo della realtà», della visione diretta di un mondo in cui «tutto è quello che è, soltanto quel che è» (e stavolta è Camillo Sbarbaro a parlare); oppure (ed è di nuovo l’angelo di Stevens che si cita qui), si tratta di «un’apparizione lieve», una proiezione della mente di chi guarda, la metà di una figura che piace immaginare femminile. Sicuramente è almeno tutte e tre le cose insieme.

Mi dimentico: le Muse – un altro nome per gli angeli? – erano figlie della memoria. Il testo concede loro (o alle loro sorelle lontane, le donne della poesia) l’abilità di ‘resettarsi’ ogni volta, o tacitamente scomparire. È un’abilità che in coda il testo negherà ai poeti: il loro mestiere è proprio non dimenticare mai.

Icona: da «statua della libertà» a icona, nelle cornici concentriche di questo momento di testo, il passo è breve. Tanto quanto lo è quello che porta dalla fissità ieratica di quelle immagini a Bisanzio. Viceversa, le aspirazioni sono quanto i poeti hanno di epoca in epoca chiesto alle loro parole: curioso che queste generino (per contrasto? o non piuttosto per scivolamento nel contiguo postmoderno?) l’aspirina; da questa è più facile risalire al mal di testa e quindi ai postumi mattutini del contenuto di quel bicchiere bevuto, due strofe sopra, in buona compagnia. Una sillessi a catena, di marca stavolta esistenziale.

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6. L’inferno sono gli altri

le ragazze puntano pistole o le vedi fare la pipì
sì l’estate a Formentera e l’Erasmus a Lloret de Mar
sì le foto di viaggio o del nuovo tatuaggio
i poeti e i DJ
uh, bambine maledette nel satanico nord-est
e ognuno è nel suo spazio
e ognuno ha qualcosa da dire
che un po’ ti sto a sentire thank you for adding me
no non guardi la televisione e lo so non hai eroi
hai 2500 amici ma nessuno è lì con te
per prendere un caffè
occhi sguardi volti mani parti corpi pezzi brani
bocche lingue versi suoni così umani troppo umani
ah l’inferno sono gli atri l’inferno sono gli altri
e ognuno è nel suo spazio
e ognuno ha qualcosa da dire
che un po’ ti sto a sentire thank you for adding me

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Le ragazze: presi in un verso i poli forse massimamente distanti di esibizionismo e voyeurismo. Una situazione tipica dei network. È interessante che il primo sia declinato al femmile (con attributi fallici) e il secondo al maschile polimorfo (il tu sottinteso a «le vedi», per quanto impersonale, non perdona).

Formentera ... Lloret del mar: scontata la prima come destinazione per una vacanza; quanto di più improbabile la seconda per uno scambio di studio. In poesia i nomi di luogo hanno da sempre una logica tutta propria, che non risponde ai dettami della geografia.

Foto ... tatuaggio: due forme di iscrizione permanente messe a confronto. In questa canzone profondamente diadica è il tempo a essere esorcizzato. I «giovani e felici» di Acque sicure sono anche qui presi in un diverso surrogato dello stesso eterno presente. (Per le dittologie del testo, se ne contano almeno dodici: dall’allitterante pisto- le / pipì alla scandalosamente sinonimica «poeti» e «DJ»).

Satanico: non solo in linea con il titolo della canzone, ma anche con l’immaginario dei tempi. Cfr. Che la festa cominci di N. Ammaniti (2009).

Nel suo spazio: se l’esorcismo deve funzionare, il tem- po si deve risolvere in funzione dello spazio. Myspace, dunque, piuttosto che Facebook è il referente lessicale di fondo (adding non friending è il meccanismo di accesso e ramificazione). E non è solo una questione di filologia, che si potrebbe risolvere notando che forse la canzone predata l’onda italiana del social network vincente; è più profondamente una questione di ermeneutica.

Occhi sguardi ...: serie controllatissima di coppie in continua definizione reciproca. Attiva e passiva la prima diade (gli occhi sotto lo sguardo; lo sguardo muto che ne emana nelle foto), definitoria la seconda (volti e mani sono attributi esclusivamente umani), metonimica la seguente (parti e corpi sono, per definizione, in questo rapporto), sinonimica l’ultima del verso (pezzi e brani si riferiscono sia ai corpi sia alle composizioni musicali). Il verso successivo esplora l’ambiguità delle sonorità infernali (in registro che non si può evitare di definire dantesco).

Bocche, lingue, versi, suoni: dopo «bocche», precisa localizzazione corporea della fonazione, ma ancora frammento parcellizzato del’immagine di un corpo, ciascuna delle parole sopporta tanto una lettura in positivo e umanizzante (linguaggi, unità metriche, elementi musicali) quanto una in negativo (organi del gusto, voci di animali, rumori disarmonici).

Troppo umani: a rigor di Nietzsche, l’illusione di essere umani dovrebbe basarsi sulla propaganda della prima serie, che riposa proprio sul rinnegamento sistematico dei diritti della seconda. Ma il tono qui non sembra essere quello critico distruttivo di Nietzsche: l’umanità che si percepisce nella voce d’autore sembra accettare dolorosamente che essere umani significhi essere sistematica- mente entrambe le cose.

Ah, l’inferno sono gli altri: titolo che appartiene a Sartre e ha molto a che vedere con l’esistenza dissociata a frammentata del sé nell’incontro con gli altri che è al cuore del testo. Gli fanno da specchio il Satana di Milton, o il Mefistofele di Marlowe prima di lui, per i quali l’inferno è decisamente in sé, una condizione per cui non esistono comportamenti elusivi che tengano.

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7. Oggetto piccolo (a)

slot machine nel retro di un bar
spendi inutilmente anche l’ultimo gettone
per l’oggetto piccolo (a) che non uscirà
mangia niente e vomita anche l’ombra di se stessa
l’anoressica piccola (a) ma non basterà
succhia fino al filtro ficca il fumo nei polmoni aspira

piccolo oggetto piccolo oggetto piccolo (a)
dov’è che cosa fa chissà come sta
quali nuovi abiti abitudini e in quali occhi sorriderà
piccolo oggetto piccolo oggetto piccolo (a)
guardalo nello specchio fatti guardare
chiudilo a chiave o lascialo libero
di andarsene e tornare
come e quando vuole
mettilo in ginocchio legalo al letto
taglialo via di netto chiudilo fra parentesi
come in un abbraccio troppo stretto
guardalo nello specchio fatti guardare
chiudilo a chiave o lascialo libero
di andarsene e tornare
come e quando vuole
spoglialo di nascosto ma guardalo al sole
bagnalo di silenzio e asciugalo dalle lacrime
rivestilo di parole nuove
mettilo in ginocchio legalo al letto
taglialo via di netto chiudilo fra parentesi
come in un abbraccio troppo stretto
spoglialo di nascosto ma guardalo al sole
bagnalo di silenzio e asciugalo dalle lacrime
rivestilo di parole nuove
___________


Oggetto piccolo (a): contravvenendo alle indicazioni di Lacan stesso, che l’avrebbe voluto algebricamente intra- ducibile, il testo italianizza qui l’objet petit (a), l’oggetto del desiderio per definizione. L’oggetto è, altrettanto per definizione, “altro” da sé e in via di principio collegato proprio alla delimitazione del sé. Risolto in funzione di (a), il sistema di questa canzone e della precedente impone la traslazione della tonalità infernale, stabilita lì per «gli altri», anche alla presente meditazione oggettiva.

Slot machine ...: delle tre forme di dipendenza (dal gio- co, dalla privazione di cibo, dalla nicotina) conta soprattutto la ripetitività del gesto in cui si esplicano. Un gettone tira l’altro, così come fanno una sigaretta e ciò che segue a una seduta di binging. È pienamente rispettata la norma che impone piccolezza e perfetta replicabilità all’esperienza vicaria del piacere.

Dov’è, che cosa fa: coniugati alla terza persona gli stessi interrogativi che Catullo aveva posto al suo petit objet Lesbia – tra gli altri: «Quis nunc te adibit? Cui videberis bella? / Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?». Oltre al netto parallelismo sintattico e la tangenza semantica tra la seconda interrogativa di Catullo e l’espressione «in quali occhi sorri- derai», a fare da ponte tra il contesto post-freudiano moderno e quello della lirica antica dell’età del Primo Triumvirato c’è il gioco etimologico tra «abiti» ed «abitudini», entrambi legati al latino habitus. A riattivare le interrogative retoriche catulliane ci aveva già provato Baglioni in Tu come stai? Se con maggiore o minor forza allusiva, non è questione da ag- giudicarsi né qui né ora.

Guardalo ... fatti guardare: lo scambio narcisistico tra io e tu nella scopofilia lirica raggiunge forse la sua acme in Petrarca. Troppi, forse, per esplorarli tutti i luoghi del Can- zoniere in cui Laura e Francesco finiscono per scambiarsi abiti e abitudini sul filo di uno sguardo. Non è fuori luogo, però, per inciso, che ad un testo di marca dantesca ne se- gua uno essenzialmente petrarchista. Tutto molto italiano.

Lascialo libero: apoftegma di Sting – if you love somebody, set them free. Dal testo di quella canzone si possono spi- golare (sempre che non si tratti di immancabile convergen- za di prestiti dallo stesso macro-codice) anche le seguenti espressioni: «lock it up and throw away the key»; «if it’s a mirror you want, just look into my eyes»; «tied up in chains you just can’t see».

Chiudilo fra parentesi: la recitazione allusiva del mito platonico dell’ermafordita originario (dal Simposio) in connessione all’artificio grafico delle parentesi è mitolo- gema classico nelle canzoni di Simone Lenzi. Si tratta di un abbraccio stretto che ricostituisce anche il primigenio, indifferenziato e completissimo essere pre-androgino. In Venere, Nettuno, Belvedere si leggeva già: «Sono discorsi fra parentesi, questi, / di una noia immortale» e il contesto era mediato dalla presenza di Tiresia, che aveva fatto nel tempo l’esperimento della vita nei due sessi.

Bagnalo ... asciugalo ... rivestilo: al limite ultimo del desiderio c’è la cura di un piccolo corpo d’amore. Silenzio, lacrime, parole nuove (di nuovo loro) ne sublimano la presenza nel testo, rendendolo coestensivo con il testo stesso.

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8. Cruciverba

resto come 1. Orizzontale
che era stato appeso al chiodo fisso
delle sue stesse parole
quindi deposto dal cruciverba sul giornale
quotidiano d’agosto
un povero Cristo ma senza passione
metto lenzuola davanti agli specchi
se l’ultima cosa che hai detto è stata rifletti
ora riesco a riempire gli spazi
e quel che rimane rimane nel bianco degli occhi.

__________

1 (Uno) orizzontale: perfetta definizione, al limite della tautologia enigmistica, tra l’indicazione di scrittura (risposta al primo quesito da inserire in orizzontale sullo schema) e il referente (il morto).

Appeso al chiodo fisso: prima delle sillessi a catena, marca stilistica dei testi di Simone Lenzi, qui portata ad un nuovo eccesso (dopo gli accenni de L’angelo necessario). Come minimo smontaggio, da considerarsi un invito a procedere per proprio conto nel resto della canzone, si offre qui la riflessione che al «chiodo» si appendono, di solito, gli strumenti della propria «passione» (scarpe da calcio, guanti da boxe), se poi il chiodo è «fisso», la passione è ancora più nettamente tale, la fissazione non è più passatempo, ma è pronta a trasformarsi, seppure per via negativa, nell’antonomastica sofferenza del Redentore.

Deposto: segue «appeso» e lo completa, nel preparare il testo alla virata (con effetti retrospettivi) verso il Verbo messo in Croce.

Un povero Cristo: espressione che riassume la quoti- dianità dell’esistenza umana, dove abitudine e sofferenza coincidono fino a perdere i contorni. A volte le parole, anche le più abituali, raccontano una qualche piccola verità.

Lenzuola: già che ci siamo ‘sudari’. Il tono di finalità è rafforzato dall’invito a riflettere sulle ultime parole (forse proprio le sette su cui si era esercitato Haydn). Riflettere è anche riconoscersi, se dietro il lenzuolo c’è pur sempre uno specchio. Il testo scivola, dunque, dal per speculum all’imitatio. Sempre istruttivo Frazer, Il Ramo d’Oro (in Tabù degli specchi).

Quel che rimane: quello che resta. Non è la prima volta nei testi dell’album che si ritorna su questo punto. L’altra dominante metaforica (o topografica) è quella della caduta verso il basso: da «giù, dentro il primo lunedì del mondo» a «giù, oltre le acque sicure», etc.

Nel bianco degli occhi: Il bianco è, per l’ultima volta, in soggetto ed oggetto. Il bianco sulla pagina, sulla griglia di un cruciverba senza schema (di cui si devono riempire gli spazi), è lo stesso che si riflette negli occhi (che vedono il bianco delle lenzuola) ed è lo stesso della sclera, che è la parte degli occhi che è bianca. Lo stesso gioco linguistico in Altrove: «sotto un cielo, questo, che vedi con gli occhi dei sandali blu».

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9. Presidente

scusa tanto se non ho svoltato in tempo
quando me lo hai detto tu
e fermo restando che qualcosa poi mi sfugga di mente
io comunque penso che non è così importante
non è neanche tanto urgente
no non sono Dio non sono io il Presidente di niente
dammi gli Stati Uniti e li divido per sempre
prendo tempo per capire quali forze in campo
per trovare un centro e fare il punto
ma comunque penso che non è così importante
non è neanche tanto urgente
vedi la palla che avevo lanciato nel parco
la palla che avevo lanciato giocando
è caduta per sempre

________________

Scusa tanto: il tono (una delle variabili più demoniache da valutare) dovrebbe essere tra seccato e apologetico. Passive-aggressive, direbbero gli ame- ricani. Se è così, siamo di fronte a un tipico incipit da diverbio familiare. La rimostranza sui difetti nei tempi di reazione del coniuge è casus belli tra i più comuni sulle strade d’Italia. I versi successivi ne esplorano altri, altrettanto plausibili e frequentati nell’istituto del matrimonio.

No non sono Dio: estrema linea di difesa del proprio operato da un giudizio che si sa irrimediabilmente disposto a considerarlo fallimentare. Se viene sfondata anche questa solida abiura metafisica, ultima trincea retorica, è tutta autostrada fino alla capitale.

Il Presidente: a quella teologica si aggiunge la dimensione istituzionale, con valore principalmente prospettivo, data la virata più decisamente politica del linguaggio nei prossimi versi. Il testo prepara con attenzione lo scarto e ne suggerisce forse anche l’inconsistenza: in fondo, non c’è niente nello pseudopolitichese del resto della canzone che non potrebbe applicarsi, per trasparente metafora, alla vita di coppia.

Stati Uniti: la nazione (in senso geopolitico) e i coniugi (in una semantica stretta del verbo). Intorno a questa ambivalenza ruota il senso della canzone, il cui lessico appartiene contemporaneamente a due dizionari, in teoria distinti.

Penso che non è: solecismo più forte della ridondanza tra ‘ma’ e ‘comunque’ che lo precede. Fa il verso, più che al parlato familiare, alla deriva agrammaticale di molta della stampa politica di casa nostra. Che l’autore sappia come e a che patti si formi un congiuntivo lo dimostra la dipendenza di «sfugga» da «fermo restando» un verso più sù.

Vedi la palla: risposta all’apertura che Dylan Thomas aveva affidato al distico conclusivo di Should Lanterns Shine: «The ball I threw while playing in the park / has not yet reached the ground». Ciò che è fatto, sembra dire il testo, è fatto: il ripensamento sugli anni e sull’età ha lasciato qui il posto a una costatazione chiara e distinta della realtà di ciò che è. Il resto (e anche il resto della canzone) sono parole di negozio.

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10. La carezza del papa

siedimi sul divano lontano
scuoti la testa e mi parli con pause lunghissime e dici
che ti ho molto deluso ma tu avevi paura
mi volevi diritto in un mondo al rovescio
cercavi un riscatto
ora cerco una scusa non ho avuto i coglioni
non ho avuto né figli né gloria o potere soltanto canzoni
che non canta nessuno che non cambiano niente
che non legano il sangue spero tu mi perdoni
tornando a casa stasera troverete i bambini
dategli quella carezza del papa
ma anche un calcio nel culo va bene
anche quello ogni tanto fa bene
come segno di amore sicuro
di contatto e calore animale senza tante parole
tutte queste parole che non cambiano niente
che non legano il sangue spero tu mi perdoni

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Siedimi: piccolo enigma grammaticale. Non si tratta solo di valutare l’impatto semantico di un’applicazione forte della Tobler-Mussafia (legge per cui non si ha mai un pronome atono a inizio di periodo nell’italiano delle origini), con il dilemma che ne segue sul modo imperativo (moderno) o indicativo (arcaizzante) del verbo. In gioco è anche se il pronome sia di oggetto diretto (‘fammi [o mi fai] sedere’) oppure indiretto (‘siedi rispetto a me’). Fino almeno a Leo Spitzer, la glossa che ne sarebbe discesa avrebbe potuto indicare nella delicatezza sintattica della situazione un riflesso di quella dei rapporti tra i due personaggi. Ma siamo forse fuori tempo massimo per ricorrere a un tono del genere in queste note.

Mi parli: il dialogo iniziale è, per buona parte, riportato. Difficile dire quanto la voce che narra si lasci ventriloquizzare da quella che riporta. Dal refrain si intuisce che di padre e figlio si tratta.

Ti ho molto deluso: inversione dell’«Hic est filius meus dilectus in quo mihi bene complacui» di Matteo 3, 17. Pertinente anche il successivo «ipsum audite» biblico, assolutamente calzante per chi si dice autore soltanto di canzoni.

Cercavi un riscatto / ora cerco una scusa: se il primo enunciato è da leggere in tono critico, il secondo decostruisce la critica che vi era contenuta. Se la colpa del padre è, comunemente, quella di demandare al figlio un pareggiamento dei conti con la vita e con il mondo, il figlio qui ammette che quella ricostruzione dei fatti e delle responsabilità è in realtà poco più di una scusa. Da notare l’opposizione dei tempi, il secondo dei quali è un presene potenzialmente meta-storico (che riflette sull’imperfetto che lo precede).

Non ho avuto né figli: tra la composizione di queste note e la loro pubblicazione è uscito il romanzo di Simone Lenzi, La generazione (Dalai, 2012). A pagina 94 si legge: «Seguo le rotatorie che immettono strade piccole in strade più grandi e mi torna in mente un’altra poesia di Yeats, di cui non ricordo il titolo ma solo i versi in cui chiede perdono a suo padre. Perdonami, dice, se all’età di quarantanove anni non ho niente, non ho un figlio, nothing but a book, niente a parte un libro, dice, to prove your blood and mine, che provi il mio e il tuo sangue». È dovere del filologo, che non aveva saputo coglierne la presenza nel testo, prima che gliela indicasse in pubblico l’autore, dare almeno il titolo e l’anno di pubblicazione di quella poesia: è Responsibilities, del gennaio del 1914.

Né gloria o potere: sintagma biblico, risalente, forse, in principio a Daniele 7, 27: «Allora il regno, il potere e la gran- dezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo». La fonte più diretta è in Matteo 6, 13, l’aggiunta dossologica a chiusa del Padre nostro: «Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli» (presente con forza nella King James Version). L’av- vicinamento esatto dei due termini è nel titolo del romanzo di Graham Green, The Power and the Glory del 1940. In Hollow men a T.S. Eliot basta il «For Thine is the kingdom» per evocare il resto del versetto: «For thine is the kingdom, and the power, and the glory, for ever».

Tornando a casa: la citazione è praticamente letterale. Queste le parole di Giovanni XXIII, pronunciate nel “Discorso della Luna” (11 ottobre 1962), in occasione dell’apertura del Concilio: «Cari figlioli, tornando a casa, troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa!”». Quella è, forse, latinismo per ‘quella famosa’ (in consonanza, dopotutto, col tono del verso).

Spero tu mi perdoni: la prima volta con valore assoluto; la seconda volta, in anastrofe, a chiedere indulgenza per «tutte queste parole». Un gesto di chiusura che si addice non meno ai poeti che ai loro glossatori quando fanno pun- to e lasciano il resto a un’altra volta, che a ciascun giorno basta la sua pena.

Simone Lenzi è nato a Livorno nel 1968. Dopo gli studi in filosofia all’Università di Pisa (finisce gli esami ma non dà la tesi), fa i più svariati lavori: dall’accompagnatore turistico al programmatore, dal libraio al ghostwriter di grammatiche scolastiche. Nel frattempo canta e scrive testi per i Virginiana Miller, con cui realizza cinque dischi. Insieme a Simone Marchesi ha tradotto uan selezione dal primo libro degli Epigrammi di Marziale, pubblicata su Semicerchio nel 2008 e Un’America di Robert Pinsky (Le Lettere, 2009). Nel marzo del 2012 è uscito per Dalai il suo primo romanzo, La generazione.

I Virginiana Miller sono una band formata a Livorno nel 1990. Simone Lenzi è autore dei testi di tutti gli album del gruppo: Gela- terie Sconsacrate (Baracca & Burattini/Sony, 1997); Italiamobile (B&B/Sony, 1999); Salva con nome (B&B/Sony, 2002), live acustico registrato al Banale di Padova; La verità sul tennis (Sciopero Records/Mescal, 2003); Fuochi fatui d’artificio (Radiofandango/ Edel, 2006); Il primo lunedì del mondo (ZAHR/Edel, 2010). I testi composti fino al 2003 sono raccolti e commentati in Traccia fantasma. Testi e contesti per le canzoni dei Virginiana Miller, a cura di S. Marchesi (Edizioni Erasmo, 2005). Dichiaratamente ispira- to alle atmosfere di Gelaterie Sconsacrate il noir di Giampaolo Simi Direttissimi Altrove (1999). L’organico del gruppo è: Antonio Bardi - chitarre; Matteo Pastorelli - chitarre; Daniele Catalucci - basso; Valerio Griselli - batteria; Giulio Pomponi - tastiere, piano; Simone Lenzi - parole e voce.


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