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RICCARDO DONATI, Le ragioni di un pessimista. Mandeville nella cultura dei Lumi, Pisa, ETS, 2011, pp. 188, euro 21,00.

Nel suo nuovo saggio per i tipi di ETS, Riccardo Donati si dedica a una approfondita disamina dell’opera di Bernard Mandeville (1670-1733), con il merito di operare attraverso una continua e proficua serie di rimandi tra pensiero filosofico e scelte estetiche e stilistiche dell’autore. Sin dalle pagine di apertura del testo, che da queste prime considerazioni si dipana poi con correlazioni logiche e argomentative sempre chiare e consequenziali, guidando il lettore passo passo nel suo percorso di analisi, si rimarca immediatamente la coerenza sottesa all’opera di un pensatore che dell’ecletticità ha fatto un tratto distintivo. Dietro una personalità estremamente sfaccettata, costantemente in movimento tra medicina, filosofia, estetica e morale, sotto la commistione di saperi e la pluralità di generi utilizzati, sono rintracciabili comunque una precisa concezione teorica e delle mosse autoriali sempre attente e meditate.

Il proposito del saggio, come viene esplicitamente chiarito nella Premessa, è proprio quello di «proporre una lettura trasversale della complessa figura mandevilliana, seguendo il fil rouge del rapporto tra contenuti filosofici e strumenti letterari atti a veicolarli» (p. 9). Missione in precedenza di rado intrapresa: se la critica disciplinare non è mai mancata, quella letteraria ha spesso latitato, e sono praticamente inesistenti ricerche che, come questa, cerchino di integrare i diversi aspetti contenutistici e formali dell’opera di Mandeville.

Il saggio prende le mosse da considerazioni stilistiche che però non possono esulare dal nucleo del pensiero filosofico dell’olandese, votato, come il titolo immediatamente mette in luce, a un pessimismo di stampo hobbesiano. Per Mandeville l’uomo è costituzionalmente fallace e fallato e la società civile, costituitasi come conseguenza di questa debolezza, è l’unica ‘riserva sociale’ in cui egli possa sopravvivere alla ferocia del mondo che lo circonda. Il linguaggio, essenziale per la nascita di tale società, si configura sin da subito come mezzo di prevaricazione e dissimulazione, grazie al quale possono prendere forma gerarchie e disuguaglianze. Grazie alla sua sistematica inaffidabilità e ambiguità, esso diventa un vero e proprio strumento di sopraffazione, utile ai potenti per affermare il loro dominio sui ceti inferiori.

Soprattutto quando viene declinato letterariamente, attraverso l’uso dell’immaginario, il linguaggio (e quindi la letteratura) contribuisce all’(auto)inganno e al mantenimento dello status quo, elevando consuetudini di dubbio valore, se non totalmente biasimevoli, al rango di norme morali e addirittura leggi con cui l’uomo può raggirare i suoi simili e anche sé stesso.

Di fronte alla consapevolezza della negatività intrinseca del linguaggio – che non sia quello delle Sacre Scritture, da intendersi esclusivamente in modo letterale – il filosofo, invece di arrendersi al silenzio, decide di contrattaccare usando le stesse armi: proprio le forme e i mezzi letterari a Mandeville contemporanei serviranno a smascherare i falsi miti e le illusioni (prima tra tutte l’amor proprio, il ‘self-liking’, da cui nessuno – in particolar modo i letterati – è immune) che accecano l’umanità. Con i suoi scritti, egli intende professare quella che Donati definisce una «pedagogia del principio della realtà» (p. 37): le sue pagine devono operare come strumento veritativo, rimuovendo le false nozioni che inquinano la percezione di sé e del mondo. Allo stesso tempo, ogni scelta stilistica mira a coinvolgere il più grande numero possibile di lettori, per diffondere ampiamente queste idee.

Questa mossa, per cui la ‘cattiva’ letteratura viene combattuta con le sue stesse armi, permette a Donati di mettere in luce alcune strategie narrative estremamente moderne (a volte addirittura anticipatrici del tipico armamentario postmodernista) adottate dallo scrittore: si pensi ai continui rimandi intertestuali; all’uso straniante di brani altrui ‘riciclati’ in modo decontestualizzato ma fortemente significante come prefazioni alle proprie opere; al gioco metaletterario che smaschera il paradosso della prevedibilità della letteratura che, proprio per rispondere al suo obbligo di sorprendere costantemente, finisce per risultare più scontata di ogni accadimento non finzionale.

Per irretire il lettore, primo passo verso un suo ravvedimento (o meglio, verso il raggiungimento di una consapevolezza delle proprie manchevolezze), Mandeville ricorre a diverse tattiche: oltre alla scelta di un “plain talk” che possa essere compreso da chiunque, si rivolge principalmente a due forme letterarie di grande presa sul pubblico, che provvede però a rivitalizzare e riaggiornare ai tempi e alla cultura a lui contemporanea: la favola e il dialogo.

Donati analizza dettagliatamente e con vari esempi questo processo di ammodernamento, di nuovo rimarcando quanto scelte estetiche e intenti contenutistici procedano di pari passo. Qui basti citare il trattamento cui viene sottoposto il genere favolistico nella sua opera più conosciuta e celebrata, la Favola delle Api: usando le parole piane e piacevoli tipiche del genere e sfruttandone i canoni di semplicità, comprensibilità e chiarezza, la narrazione si fa strumento di impietosa analisi, svelando le più atroci verità sull’animo e la società umana. La tradizionale allegoria dell’alveare come specchio del consorzio civile subisce un totale rovesciamento e finisce per rimarcare la disillusa visione di un mondo caotico, spietato, in cui l’individuo si muove ormai come un automa sprovvisto di moralità e raziocinio.

Anche l’altro genere elettivo, il dialogo, viene scelto per il suo approccio coinvolgente e persuasivo e per la sua capacità di mettere in scena il rapporto pedagogico che a livello extradiegetico si instaura tra autore e lettore. Qua la modernizzazione passa attraverso la contaminazione della purezza tipica degli autori a lui contemporanei (l’eterno rivale Shaftesbury) con massicce dosi di ironia dissacrante; un sempre più solido realismo, con l’introduzione di personaggi attuali e credibili; e un avvicinamento agli stilemi della conversazione dell’epoca, con passaggi continui tra vari argomenti e contesti, per adattarsi alle necessità di un pubblico sempre più inquieto e incapace di concentrare la propria attenzione a lungo.

Nel rapporto tra i partecipanti ai vari dialoghi molti studiosi hanno potuto rintracciare anche richiami alla professione di medico di Mandeville; Donati, di nuovo facendo produttivamente interagire il piano contenutistico con quello formale, rilancia questa lettura avvicinando l’olandese alla figura di Freud: entrambi prediligono toni accomodanti e compiacenti per ingraziarsi il paziente/lettore e guidarlo verso l’analisi di sé; entrambi sono peraltro consapevoli della non esistenza di una reale cura per i vizi che affliggono l’umanità e possono offrire soltanto farmaci veritativi, non certo guarigioni totali.

Tale visione pessimistica favorisce altre scelte stilistiche che allontanano doppiamente (sul piano delle forme come su quello dei contenuti) Mandeville dai suoi contemporanei augustei e in particolare da Shaftesbury: rifiutando l’equazione ‘bello uguale vero’, l’olandese è pronto ad accogliere nella sua pagina tutto ciò che il mondo gli pone di fronte, persino e soprattutto (come prova delle sue teorie sulle umane manchevolezze) il difetto, l’obbrobrio, la deformità. Qui Donati apre un interessante inciso sul rapporto tra l’autore e l’arte del periodo, in cui la scuola pittorica fiamminga, così legata alla rappresentazione chiara ed esatta del dettaglio e della quotidianità, si oppone alla pompa celebrativa e mistificante della pittura epico-storica e religiosa, soprattutto italiana.

Sul piano della scrittura questa insistenza sul vizio (non che Mandeville voglia rappresentare solo quello: è che non può fare altrimenti, non esistendo uomo che non ne sia corrotto) permette di abbozzare quadretti realistici esilaranti, degni di un Hogarth, che favorirono il successo dell’olandese tra i contemporanei: contaminare il saggio filosofico con l’intrattenimento narrativo era un modo per facilitare sia la diffusione delle idee che il successo editoriale. Il ricorso ai registri bassi è costante, in una vera e propria «strategia dell’irriverenza» (p. 147) che, lungi dall’essere un’innocua regressione allo scatologico, diventa parte integrante della generale messa in discussione delle norme sociali fissate.

In un panorama così negativo anche l’unico spiraglio di luce possibile, l’orizzonte di perfezione rappresentato dal messaggio evangelico, rimane comunque inattingibile all’uomo. Nell’ultimo capitolo del saggio, infatti, Donati prende in esame la religiosità di Mandeville, spesso male interpretata quando non pienamente fraintesa dalla critica precedente, e mostra il paradosso che questi finisce per accettare, secondo cui il vero cristianesimo non può essere conciliabile con i codici mondani e, in generale, con il mondo moderno. Si conferma così, e si fa ancora più sconsolante, il messaggio mandevilliano, secondo cui il male è l’habitat naturale dell’umanità e il mondo moderno neppure potrebbe sopravvivere se le idee del Salvatore vi fossero realmente affermate.

(Matteo Vignali)


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