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RICCARDO DONATI, I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei lumi, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 322, euro 18,00.

 

L’ultimo lavoro di Riccardo Donati, per i tipi dalla casa editrice Bulzoni, ricompone le trame di una serie di letture del secolo dei lumi compiute nella seconda metà del secolo scorso da scrittori, intellettuali e artisti, attraverso un percorso tanto orizzontale quanto esaustivo della materia. Percorso che sin dal titolo, I veleni delle coscienze, seduce per ricchezza di spunti e solidità dell’impianto metodologico, sorretto da un perfetto equilibrio tra le parti – tre – dedicate rispettivamente agli anni del dopoguerra, agli anni Settanta e alla più stretta contemporaneità.

È stato Italo Calvino nel Barone Rampante a offrire l’esempio più limpido di come e quanto rapidamente si possano propagare quei “veleni”, tipicamente settecenteschi, che attaccano la “coscienza” invece del corpo. Veleni che si trasmettono attraverso le letture dell’“ostico” Rousseau e del “più piacevole” Montesquieu, e che, al contrario dei veleni comuni, non arrecano alcun danno a chi faticosamente ne assorbe le proprietà. Essi, in effetti, forniscono a El Conde e agli esuli di Olivabassa la chiave per un pieno discernimento della propria condizione di esiliati, a dispetto di quella morale statica che un impreparato padre Sulpicio si affatica a difendere.

Non dovranno meravigliare gli effetti benefici di tali sostanze. Del resto già una frase del Digesto giustinianeo ammoniva: «chi dice veleno deve aggiungere cattivo o buono, infatti anche le medicine sono veleni». Così, per interpretare correttamente I veleni delle coscienze proposti da Donati si dovrà in primo luogo tener presente la sostanza di pharmakon rappresentata dai modelli settecenteschi per una nutrita schiera di “nuovi esuli di Olivabassa”: i vari Calvino, Sciascia, Celati, Vicari, Frassineti, Mazzacurati, Frasca, Mari, per non citare che alcuni degli autori presi in considerazione dal critico. Comprendere a pieno queste “coscienze avvelenate” dalle “pericolose” e “cattive” letture settecentesche significa in primo luogo imparare ad uscire dall’Ottocento. Uscire nel senso di superare quella sedimentazione storica che connette ormai e senza dubbi il secolo XIX e il secolo XX come stagioni di una stessa modernità interrelata e separatissima da ciò che la precede, salvo poi far guerreggiare i custodi del focolare intellettuale su dove e come poter mettere i famosi paletti della storia, a discutere verbosamente sulle periodizzazioni varie di modernità, piena modernità o postmodernità. E seppure questo riposa sopra autorevoli interpretazioni dell’interpretazione autorevolissima di Walter Benjamin, a ripercorrere ciò che il Novecento rilegge del secolo dei lumi attraverso il lavoro di Donati – e dunque avendo di fronte un ampio, suggestivo e scrupoloso panorama della materia – si potrebbe anche concordare con quanto afferma Gabriele Frasca in una delle tre interviste contenute in appendice al volume, ovvero che il Sei-settecento – per lui entità indissolubile nei due secoli troppo spesso superficialmente percepiti come contrapposti – risulta per il Novecento come una sorta di inconscio. E ne sarebbe esempio emblematico il fatto che nella contemporaneità lo stesso inseguimento continuo e tuttavia impossibile del punto di vista privilegiato – ancora tropo settecentesco evidenziato da Donati – di una posizione, cioè, che permetta all’intellettuale una visione distante ma globale della società, ritorna attraverso condensazioni e spostamenti, spalmandosi non perciò sulla patina santificata della tradizione del nuovo che ri-comincerebbe con Baudelaire. E dunque uscire dall’Ottocento significa scavare per recuperare il rimosso, ridiscutere il «prestigio del nuovo», riformulare l’ipotesi che vuole Casanova fermarsi a contemplare Venezia al momento della fuga dai Piombi, riconoscendo il senso di quella funzione fondamentale dello scrutare dall’alto quale emerge dall’opera di Calvino come di Sciascia, novelli «riformatori italiani» a specchio reale di quel Cosimo Piovasco di Rondò che instradava gli esuli di cui sopra alla lettura dei Philosophes. Che poi la posizione sopraelevata – il torreggiare mantenendo saldo, pur a volte celato o mascherato, un vessillo morale altissimo – stia anche alla base del momento precipuo della satira lo spiega Frye: è così che il Novecento italiano negli anni che Donati definisce «dell’irrisione» rilegge o lascia riemergere alle proprie coscienze la stagione polemico-satirica dell’epoca dei lumi, da Swift a Mandeville. Tra il 1967 e l’avvento degli “anni di piombo” è il lavoro del «Caffè» di Vicari e Milanese a dare il la all’utilizzazione programmatica dell’irrisione appunto quale arma critica capace, in epoca di generalizzata contestazione all’establishment culturale, di sottrarre la rivista da qualsiasi condizionamento ideologico e partitico, ponendola altresì sotto un «magistero swiftiano» abbracciato negli stessi anni anche da Gianni Celati, Ennio Elena, Antonio Faeti, Augusto Frassineti. Così, in periodo di boom demografico, torna d’inedita attualità ma con una medesima graffiante efficacia la modesta proposta dello scrittore dublinese.

Tuttavia è forse attraverso il personaggio Casanova che gli inaspettati rilanci dell’inconscio, del ritorno del rimosso settecentesco diventano simbolicamente intelligibili attraverso molteplici narrazioni novecentesche dell’Histoire dell’avventuriero veneziano. In epoca di colonizzazione dell’immaginario come quella degli anni Settanta la Casanova renaissance, ci spiega Donati, significa molto di più di un semplice e moderno interesse per il rapporto realtà-finzione nel senso di autobiografia-mitografia: essa ci consegna, soprattutto attraverso la rivisitazione filmica di Fellini ovvero quella fumettistica di Altan, un Casanova per prima cosa «morto tra i morti», un Casanova fantasmatico in cui non è difficile riconoscere la riduzione a puro meccanismo della sua azione come personaggio. Eppure ciò non ne esaurisce le potenzialità: l’altra faccia della medaglia, l’inconscio riemergendo pur sempre ad un livello caratterizzato da una dimensione storico-culturale collocata nello spazio-tempo, è l’aspetto desiderante del Casanova 70, in sovrapposizione con quanto negli stessi anni veniva teorizzato tra gli altri da Deleuze e Guattari relativamente alle macchine desideranti (p. 151). Aspetto o riflesso qui ben sviscerato da Donati per quanto riguarda il Filò zanzottiano, e che troverà nelle Memorie di Casanova di Calvino un’epifanica acme.

Terzo momento di questa proficua indagine è infine da porre sotto il segno di Tristam Shandy. All’interno (o all’esterno, dipende dai punti di vista) del «cono d’ombra della contemporaneità» è infatti la «funzione Sterne» a costituire una produttiva fonte di ispirazione. Anzitutto per Giancarlo Mazzacurati che dedica al personaggio sterniano una competente attenzione sin dal corsivo Ricomincio da Tristam (1982), posto da Donati, insieme ad altri due scritti del padovano e alle interviste a Celati, Scarpa e Mari, in Appendice al volume. Poi per Gabriele Frasca che riconosce nello Shandy uno «scarto epocale nella storia dell’interfaccia individuo-libro» (p. 208). Di discosta natura, per concludere, risulta l’interesse di Michele Mari per il secolo dei lumi. Interesse che muove, spiega Donati, non tanto dall’«affinità con personalità filosofico-letterarie di area francese e inglese» evocate per gli altri autori nel corso dello studio, quanto da quella zona d’ombra, certamente liminare, nella quale «istanze neoclassiche» si coniugano con «accenti fantastici, sepolcrali, gotici» (p. 216), a sottolineare come, in fondo, le possibilità di rilettura del XVIII secolo siano molteplici, irriducibili e tutt’altro che scontate.

(Federico Fastelli)


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