« indietro LA VITA DEL POETA1
Riflessioni su Rilke di Tzvetan Todorov La vita di un individuo non entra necessariamente in rapporto significativo con la sua attività professionale; le diverse parti di questa vita, relazioni sentimentali, mestiere, attività pubblica non sempre si influenzano reciprocamente. Che Werner Heisenberg sia stato o no un nazista non ci importa assolutamente per giudicare il valore delle sue teorie fisiche. In altri casi il rapporto è significativo, ma solo per certe parti dell’esistenza. Così di un politico: ha un senso interessarsi dei suoi atti pubblici, passati o presenti, ma poco ci importerà di sapere che sia stato fortunato o no in amore; lo stesso vale per l’ideologo o il moralista. Esistono però delle professioni che, più che professioni, sono vocazioni; e che inglobano nel loro campo la totalità dell’esistenza, non solo uno o l’altro dei suoi aspetti. La vita di quelli che le praticano fa dunque parte del loro messaggio al mondo. Così, direi, per i filosofi e i poeti. Mi affretto ad aggiungere: per i filosofi, a condizione che questi accettino d’essere non semplici commentatori delle opere filosofiche del passato, storici della filosofia, insomma, ma amanti della sapienza. E per i poeti, se questi decidono di avere per ambizione non la semplice produzione di giocattoli divertenti, di ornamenti gratuiti, ma la rivelazione del senso e della bellezza del mondo. La relazione fra vita ed opera solleva innumerevoli questioni. Quella che desidero esaminare oggi è la seguente: è possibile condurre una vita e un’opera non in nome degli stessi principi, in riferimento agli stessi ideali, ma con un unico slancio? Si può, allo stesso tempo, vivere e cantare, o si deve scegliere fra le due cose, e se sì, perché e in nome di cosa? La vita e l’opera di un poeta del XX secolo, Rainer Maria Rilke, incarnano in modo esemplare questi problemi: è dunque qualche episodio della sua biografia che vorrei raccontare oggi. In una lettera indirizzata alla sua grande amica Lou Andreas-Salomé, l’8 agosto 1903 (a ventotto anni) Rilke formula già con chiarezza l’opposizione fra vita per la vita e vita per l’arte; non si tratta di avvicinarle o allontanarle ma di scegliere fra loro. L’incompatibilità reciproca, la necessità di scelta sono illustrate dall’esempio di Rodin. La natura essenziale dello scultore si trova nella sua opera, afferma Rilke; per contrasto, «la sua casa e i rumori della sua casa sono qualcosa di indicibilmente infimo e secondario [...]. La sua vita quotidiana e gli esseri che ne fanno parte sembrano il letto vuoto dove egli ha cessato di scorrere; ma questo non ha niente di triste: a fianco si sente il brontolio, il passo potente del fiume che non ha voluto dividersi in due bracci». La vita nel mondo e la vita nell’arte sono dunque come i due letti di un fiume; e se si vuole che questo conservi tutta la sua forza, è meglio che non sia diviso: «E io credo, Lou, che debba essere così; perché questo è una vita e quello è un’altra vita, e noi non siamo fatti per avere due vite». Ora, la verità del creatore è nella sua arte, non nello svolgimento quotidiano della sua esistenza. E Rilke applica subito questa teoria al suo caso: «In una poesia che mi riesce c’è molta più realtà che in ogni relazione o inclinazione che io viva; dove io creo sono vero, e vorrei trovare la forza di fondare la mia vita integralmente su questa verità [...]. Io so che non dovrei cercare o desiderare altre realizzazioni oltre quelle della mia opera: è questo il mio problema, le persone che mi sono veramente vicine, le donne di cui ho bisogno, i figli che cresceranno e vivranno a lungo». Le opere occuperanno per Rilke il posto delle relazioni, delle donne e dei bambini, le une saranno tanto più potenti quanto più facilmente gli altri accetteranno di cancellarsi. Perché il mondo parli con la sua voce il poeta deve evitare di mescolare la sua a quella di un altro essere umano. Rilke manterrà per tutta la sua esistenza questa preferenza per l’opera sulla vita e questa nostalgia della solitudine; saprà difendersi con molta fermezamici più o meno vicini. Rilke farà presente a loro senza esitare la sua necessità di tenere una distanza senza con ciò provocare una rottura. Questa solitudine è temperata in effetti sia dalla corrispondenza sia dai periodi di intensa vita mondana (ma non sentimentale), che si alternano con momenti di isolamento, nel corso dei quali Rilke fa volentieri visita a marchese e contesse o a colleghi scrittori. Tuttavia, almeno in due occasioni, l’orientamento del fiume verso un solo letto, quello del lavoro e dell’opera, si trova minacciato dallo straripamento per la passione della vita, la passione verso una donna. Uno di questi conflitti data agli ultimi anni della vita di Rilke. Alla fine dell’estate 1920 ritrova una conoscenza che chiama nelle sue lettere «Merlina»: si tratta della pittrice Elisabeth Klossowska, detta anche Baladine. Ecco il film degli avvenimenti. L’incontro con Merlina ha luogo all’inizio del mese d’agosto; riconciliazioni e separazioni si alternano per tutto l’autunno. A novembre si trasferisce per l’inverno nel castello di Berg, una dimora solitaria sulla quale fa affidamento per ritrovare quella voce del mondo che è diventato incapace di ascoltare dal 1914. A dicembre riceve però notizie allarmanti sulla salute di Merlina, e si scopre tutto preoccupato per la sua sorte. L’intensità dei sentimenti sale pericolosamente per lui e, all’inizio del gennaio 1921, Rainer si precipita a raggiungere Merlina a Ginevra. Resta con lei fino alla fine del mese, poi lei gli fa visita a Berg a metà febbraio. Lettere, telegrammi e telefonate restano frequenti nelle settimane che seguono. All’inizio di aprile Merlina si allontana un po’ di più: parte per Berlino. Rainer ritorna a poco a poco alle sue disposizioni iniziali, ma è troppo tardi: a maggio è costretto a lasciare il castello di Berg. L’inverno sarà stato sterile: invece di scrivere, Rainer si è abbandonato alla passione per una donna. La prova della tragica incompatibilità fra vita e poesia, fra amore e opera, è stata fornita una volta di più. Rilke medita su questo fallimento e questa incompatibilità nelle lettere che rivolge a Merlina così come nelle annotazioni che prende per se stesso, e che destina visibilmente a una pubblicazione postuma (queste note formeranno, cinquant’anni più tardi, il libro pubblicato col titolo Il testamento). Egli cerca nello stesso tempo di comprendere la natura del conflitto nel quale si trova coinvolto, di difendere la scelta che sarà la sua e di formulare il suo ideale d’amore messo al servizio della creazione. Che Rilke, poeta, voglia proseguire la sua opera non ha nulla di sorprendente. Ma per metter fine all’interruzione che dura da molti anni, per infrangere la sua stessa sordità ha bisogno di tutte le sue forze. Anzitutto, e tutti i suoi corrispondenti lo sanno bene, gli serve una certa solitudine fisica: «Io mi chiuderò come il bruco nella sua crisalide e ne uscirò solo quando mi sentirò farfalla con nuove ali piene di meravigliosi colori» (29 dicembre 1920). Questo va da sé: ma c’è di più. È che il lavoro di creazione, per Rilke, non è un’attività come le altre. È – dice in una lettera a Merlina – una «lotta per la concentrazione» nel senso letterale del termine: uno sforzo per raggiungere il «centro di produzione» dove si trova al momento del suo «più puro slancio» (18 novembre 1920); è un «raccoglimento delle risorse interiori, solo nella misura utile ad assicurare la tensione dell’essere profondo» (Testamento, 9-10). È un combattimento non più solamente fisico, che mira a fargli abbandonare tutti gli altri luoghi della sua esistenza per venire ad abitare la sua voce di poeta. Se ci arriva, può allora avvicinarsi al suo obiettivo che è di dire il mondo – non le forme in continuo cambiamento che ognuno ha sotto gli occhi, ma la loro anima stessa; di mettersi in condizione di «disponibilità » (lettera a Merlina, 22 febbraio 1921) per «esprimere la vita essenziale» delle cose (il 16 dicembre 1920) e «realizzare l’anima invisibile, questa danzatrice fra le stesse» (20 febbraio 1921). Ma per essere così capace di ascoltare la voce pura delle cose e di trascriverla non basta volerlo o essere fisicamente disponibile; al poeta è richiesto un tributo molto più pesante, molto più crudele. Il pericolo per l’amore non viene dal fatto che la creazione gli è differente, ma dal fatto che gli rassomiglia. È che la produzione poetica è anch’essa amore e che il mondo, per darsi, esige una fedeltà assoluta; ferocemente geloso, non accetta che l’amore del poeta sia diviso fra lui e un essere umano particolare. La domanda che il mondo pone al poeta è: «Sei pronto a dedicarmi tutto il tuo amore, a dormire con me come san Giuliano l’Ospitaliere con il lebbroso, concedendogli quell’abbraccio supremo che non potrebbe compiersi con una semplice carità passeggera ma che ha per movente l’amore, l’amore intero, tutto l’amore che esiste sulla terra?» (16 dicembre 1920). Se è impossibile riconciliare amore e poesia, è perché la poesia è già amore – un amore superiore all’altro. È la conclusione alla quale giunge anche Rilke nelle riflessioni che costituiscono il suo Testamento. Cos’è la poesia, cos’è l’arte? È accettare il mondo nella sua interezza, è la capacità di scoprire la bellezza dell’esistenza in ognuno dei suoi frammenti, una bellezza che non ha contrari (ben al di là, quindi, della separazione convenzionale fra bello e brutto), una risalita verso l’identità segreta delle cose. L’artista è colui che dà «un sì libero e definitivo al mondo», che vive «la passione della totalità», colui che supera «l’incompiutezza costitutiva dell’essere umano» (Testamento, 27). Ma per arrivare a questo scopo l’artista ha bisogno di tutto il suo amore. Aveva dunque torto a parlare, nelle sue lettere, della «terribile, inconcepibile polarità della vita e del lavoro supremo» (a Merlina, il 18 novembre 1920), perché il lavoro non è esterno alla vita, l’amore necessario alla creazione è pur sempre amore. La differenza sarebbe quindi altrove: fra l’amore per il mondo, illimitato, che abbraccia tutti gli esseri umani, e l’amore per una persona particolare, in fin dei conti egoista e meschino. Quella è la vera opposizione: fra l’essere conosciuto e i destinatari sconosciuti, fra un tu singolare e gli innumerevoli «essi». E la scelta di Rilke è fatta: «La chiarezza e l’oscurità del mio spazio interiore non saprebbero essere determinati dall’influenza preponderante di un essere, ma unicamente dall’anonimo» (Testamento, 57). In questo contesto l’amore per una persona particolare dev’essere superato ed escluso. L’amore personale è quello che, contrariamente all’altro, dipende non dalla necessità interiore ma dal caso, o ancora dal destino, dalla fatalità. Di questa persona unica che il caso ha messo sulla nostra strada si fa un ostacolo fra sé e il mondo; focalizzandosi così su ciò che si ha vicino agli occhi, l’immagine del mondo intero si confonde. Questa è la teoria. Ma la pratica non è conseguente. Assai presto Rilke sconvolge la gerarchia fra arte e vita e riavvicina l’esperienza amorosa alle gioie della creazione. E poi supplica: «Oh, se tu potessi riuscire a togliermi fino all’ultimo resto questa paura d’amore che paralizza le mie facoltà e perfino i miei istinti ...» (2 febbraio 1920). Ma l’amore non può essere soddisfatto dal già acquisito, sposta continuamente il suo appetito. Quando Merlina si ammala, Rainer soffre per lei e attraverso lei, pensa a lei invece di scrivere versi. Lei si è impadronita di lui, lui ha deviato tutti gli avvenimenti della sua vita verso di lei. «Lei ha metamorfizzato il paesaggio nel cuore dell’amante e vi occupa un luogo profondissimo: la valle verso cui tutto scorre» (Testamento, 33). Il fiume non si dirige dunque verso il letto che gli si destinava. Lungi dall’optare serenamente per il proseguimento dell’opera, Rilke si vede lacerato fra due poli d’attrazione di intensità comparabile. È in preda a un’esitazione fra la sua «ostinazione d’inverno» e il desiderio «di tenerla fra le braccia» (a Merlina, 19 febbraio 1921), fra l’aspirazione a «dedicarsi tutto intero agli adempimenti e ai lavori supremi» e la tentazione di «uscire negli spazi aperti, verso te» (22 febbraio 1921), fra gli «astri» e la «tenerezza» (ivi). Ma, con questo fatto, la sua concentrazione è condannata. L’esperienza dell’amore che avrebbe dovuto arricchirlo l’ha devastato, e il poeta ha trovato la disperazione al posto della felicità. E il testo che giunge a scrivere in compagnia di Merlina (compare nel Testamento) è una specie di scrittura automatica, una serie di parole senza legame né forma, ciò che Rilke stesso avrebbe chiamato «Incubo» (Testamento, 38). Rainer non combatte Merlina, ma la propria debolezza che lo fa innamorare. E poiché sa che le sue forze non bastano per ottenere questa vittoria, chiede aiuto. A chi? A Merlina, certo. Quel che non riesce a ottenere da solo lo chiede a lei: cerca di convincerla con argomenti razionali della necessità di un allontanamento, purché lei glielo imponga. Si tratta di assicurare non solo la solitudine fisica, la disponibilità del corpo, quel che può essere acquisito senza troppa fatica, ma anche la libertà dello spirito. Per questo bisogna rinunciare alle lettere troppo frequenti e troppo appassionate: nonostante la sua esperienza di quasi vent’anni, Rilke è tutto tranne che invulnerabile. A maggior ragione bisogna rinunciare alle telefonate. Bisogna, sacrificio supremo chiesto all’essere amato, che lei smetta di essere infelice per questa sospensione del rapporto amoroso. Se Merlina soffre troppo, Rainer non potrà impedirsi di pensare a lei. Chi potrebbe sottrarsi a un tale senso di colpa? «Non c’è prigione peggiore che il timore di far del male a chi si ama» (Testamento, 41). Tutto lo sforzo di Rilke consisterà allora nel disegnare per Merlina l’immagine della relazione ideale fra amante e amata, perché lei, Merlina, la metta in opera. In effetti, e questo è essenziale, in nessun momento Rilke è tentato dalla rottura, dalla rinuncia assoluta al rapporto amoroso e amicale. Si batte per la sua solitudine ma lo fa attraverso innumerevoli lettere che gli permettono di vivere in un contatto umano incessante; diffida dell’amore ma non lo esclude. La stessa reinterpretazione delle relazioni fra lavoro e amore che gli aveva permesso di capire che il lavoro è amore lo obbliga anche a rispettare l’amore umano in se stesso, poiché questo non è estraneo al campo di lavoro. Se lo scopo del poeta è di andare al cuore di ogni cosa, di scoprire la bellezza di ogni gesto, in nome di cosa potrebbe escludere dal suo orizzonte soltanto l’amore? Rilke non vuole abbracciare la strada dell’ascesi. «Lei sa che non sono di quelli che trascurano il corpo per sacrificarlo all’anima, alla mia non piacerebbe essere servita in questo modo; così ogni slancio del mio spirito comincia nel mio sangue», scrive a Merlina (il 16 dicembre 1920). Ma Rilke esclude anche un’altra relazione possibile fra vita e creazione, fra amore e poesia, quella che pratica senza dubbio la maggior parte degli scritsenso; non possono rinunciare ai piaceri che essa procura loro ma fanno finta di dimenticarli quando si rivolgono verso la propria opera. Esiste solo un sentiero stretto che richiede molta buona volontà da una parte e dall’altra: l’amata deve accettare anch’essa non di rinunciare al suo amore ma di vederlo trasmutare in una passerella verso l’amore universale indispensabile alla creazione. L’apparizione di Merlina gli è stata necessaria per spegnere l’inquietudine che lo bruciava (l’amata verrà mai o no?), ma ora è in nome di questo stesso amore che Merlina deve proteggere la sua solitudine. La migliore prova d’amore sarebbe «aiutarmi a sviluppare in me questa profonda felicità solitaria» di cui prova il bisogno imperioso (Testamento, 60). La relazione amorosa dev’essere sufficientemente placata e rasserenata perché non lo distragga dalla sua ricerca solitaria. Ma lei può fare di più: aumentare il suo mondo, estendere la sua esperienza, diventare non ostacolo fra lui e il mondo ma via che conduce ad esso. «Ella fu per me una finestra nello spazio allargato dell’esistenza ... (non uno specchio) » (Testamento, 28). In questo momento, ma solo in questo, l’amante potrà a sua volta cogliere i frutti della sua abnegazione, potrà assorbire ciò che sgorga inesauribilmente dal poeta (Testamento, 51). L’allontanamento apparente servira così a un nuovo avvicinamento ad ogni passo (18 novembre 1920). Se l’amante può elevarsi a queste altezze l’opera riunirà i due invece di separarli. Del resto è ciò che si verificherà dopo qualche brancolamento e passo falso. L’amore di Merlina per Rainer è tale che lei sa rinunciarvi. «Io ti amo tanto che non posso lasciarti», gli scrive un giorno (31 agosto 1920), e lei non smetterà mai di piegarsi dinanzi al suo bisogno assoluto di lavorare. Lei capisce ciò che il poeta cerca e lo aiuta a trovarlo. Nell’estate 1921 lei scopre con lui un’altra dimora isolata in Svizzera, il castello di Muzot, che lei gli fa scegliere e allestisce; poi, in autunno, riparte per Berlino, da dove lo sostiene con il suo affetto distante. E il miracolo tanto atteso si verifica: nel corso dell’inverno 1922 Rilke sente di nuovo la voce dell’universo e, in una settimana, scrive le sue opere della maturità, le Elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo. All’indomani della rivelazione la sua prima lettera è per lei: «Merlina, sono salvo! Quello che mi pesava e mi angosciava di più è fatto, e gloriosamente, credo. Fu solo qualche giorno: ma non ho mai subìto un simile uragano di cuore e spirito. Ne tremo ancora – questa notte ho pensato di venir meno; ma, ecco, ho vinto... » (9 febbraio 1922). La lettura della corrispondenza con Merlina potrebbe facilmente indurci in errore: si ha l’impressione che la voce dell’opera trionfi sempre su quella dell’amore. Questo significherebbe dimenticare che le lettere sono altrettanti tentativi di recuperare il vissuto: è precisamente perché la vita si è svolta in modo completamente diverso da come Rilke aveva voluto, e diveniva necessario rettificare la traiettoria con le lettere: queste non riflettono la vita ma cercano di emendarla. Con la loro stessa esistenza segnano la distanza fra i corpi dei corrispondenti; col loro contenuto quelle di Rilke ristabiliscono un equilibrio rotto nei momenti di contatto fisico. Le lettere stesse sono una terza via fra l’opera e l’amore, perché partecipano di entrambi. Se risaliamo ora all’altra grande corrispondenza amorosa di Rilke, quella con «Benvenuta», sette anni prima, constatiamo che qui si instaura il conflitto non più tra la letteratura e il resto della vita, ma all’interno della letteratura stessa. Siamo alla fine del gennaio 1914, Rilke abita a Parigi. Un giorno riceve il messaggio di una ammiratrice, e le risponde. Si chiama Magda von Hattingberg, è pianista, allieva di Busoni, abita a Berlino; Rilke la chiamerà nelle sue lettere «Benvenuta». L’ascesa della relazione è folgorante, la corrispondenza intrapresa da febbraio raggiunge rapidamente i vertici; e se le lettere di Rilke a Merlina costituiscono spesso un documento umano sconvolgente, quelle che indirizza a Benvenuta non sono solo una dichiarazione d’amore appassionato, ma contengono anche alcune delle pagine più ispirate che abbia mai scritto. Alla fine del mese non può più trattenersi, parte per Berlino. Passano due settimane insieme, poi vanno insieme a Parigi. Un mese più tardi ripartono, sempre insieme, per il castello di Duino, presso Trieste, dalla grande amica di Rilke, la principessa von Thurn und Taxis. All’inizio del mese di maggio, però, è l’addio finale, alla stazione di Venezia. Anni dopo la morte di Rilke, Benvenuta racconterà la storia e pubblicherà i documenti che vi si riferiscono. Le lettere a Benvenuta contengono molti temi che ci sono ora familiari. Quello che però è differente in questa corrispondenza è che Rilke prova un’oscura insoddisfazione dinanzi a questa separazione così chiaramente stabilita fra arte e vita. Ora si chiede perché è condannato all’incompatibilità. È la verità della condizione umana (e, più specificamente, poetica) oppure una maledizione che pesa su di lui, l’individuo Rainer Maria Rilke? Il dramma sembra essersi intrecciato molto tempo prima, nel corso della sua infanzia. Perché l’idea di essere amato provoca in lui l’angoscia, perché l’idea di amare senza limiti si trova bloccata? Si tratta di un amore infantile frustrato? È questo che sembra suggerire una vecchia lettera a Lou Andreas-Salomé (del 15 aprile 1904) dove diceva di sua madre: «Sento che già da ragazzo ho dovuto cercare di fuggirla». Rilke è una persona generosa, sa darsi, tutti quelli che lo hanno avvicinato lo confermano. Ma non sa ricevere, come se accogliere gli altri lo minacciasse nella sua stessa identità; ma è l’accettare di ricevere, quindi di dipendere dagli altri, ciò che segna l’avvio della generosità superiore. Ma dire che non ogni poeta conosce questa angoscia allo stesso grado di Rilke non invalida l’universalità della sua esperienza: le circostanze particolari della sua evoluzione spingono all’estremo un processo di dissociazione che nessun artista ignora. Se Rilke s’interroga così sulle origini del suo rifiuto di vivere, è perché con Benvenuta molto più che con qualsiasi altra donna avrebbe voluto prendere l’altra strada: scegliere l’amore, anche se questo significa rinunciare all’arte. La rivelazione si ha fin dalle prime lettere che le scrive: e tuttavia, la diffidenza è ancora grande. È lei che deve decidere, dice di primo acchito deponendo così le armi per arretrare subito: no, al momento è impossibile. Ma si accorge del suo stesso movimento: «Mi comporto come un ragazzino che prende la cosa terribilmente sul serio, e grida: ‘Ancora no! Ancora no!’, e cercando di nascondersi ancor meglio per ritardare, e portare al suo culmine, il terrore delizioso di essere trovato » (5 febbraio 1914). La speranza qui sembra avere la meglio sull’angoscia. Cerca di convincersi del movimento camminando: la migliore prova del fatto che sono capace d’amare non è forse che ho voglia di farlo? Si mette a credere che Dio gli abbia «fatto questo regalo negli anni della sofferenza», e lo supplica: «Io lo prego di lasciarti amare, Benvenuta, dalla più profonda radice del mio cuore» (l’8 febbraio 1914). Vivere un amore così renderebbe inutile l’arte: «Figlia mia, vorrei oscillare soltanto entro l’oscurità che le tue mani susciterebbero per me e lo spazio di luce eterna uscito dalla tua musica » (10 febbraio 1914). Questa volta, fra le stelle e la tenerezza, fra lo stupore e l’abbandono, è pronto a preferire la tenerezza e l’abbandono. Benvenuta gli ha permesso di ricevere e non solo di dare, e quindi lui parla di «questo evento come il più generoso della mia vita» (il 23 febbraio 1914), e nel treno che lo conduce da lei scrive questi versi: «Puoi immaginarti che da anni passo da straniero fra stranieri? E ora tu mi apri casa tua» (26 febbraio 1914). Ma Rilke non ha smesso di diffidare di Benvenuta, e soprattutto di se stesso. Fino all’ultimo momento esita a saltare l’ostacolo , a rinunciare al conforto della scrittura e partire. E tuttavia parte. Come avvennero i primi incontri? Si poteva nutrire ogni timore, in effetti, su questa blind date. E se fosse sorta una delusione improvvisa, il disgusto fisico? Ma no, il passaggio dal sogno alla realtà sembra compiersi senza troppi scontri. Qui dobbiamo riferirci ai ricordi di Benvenuta. A credere a lei, tutto va perfettamente. A Berlino Rilke affitta una camera d’albergo, a Parigi sarà lei a farlo. Passeggiano, si parlano, si tengono la mano (il contatto fisico non va oltre); lui le legge dei libri, lei gli fa scoprire la musica suonando per lui solo. «Quando il piano tacque si era fatto scuro. Il merlo non soffiava più, tutto rimase a lungo avvolto nel silenzio. Allora mi accorsi che, dietro me, Rainer si era avvicinato senza far rumore. Sentivo le sue mani sui miei capelli e il suo viso, ardente, inondato di lacrime, contro la mia guancia» (Benevenuta, 59-60). A prima vista è a Duino, dalla principessa von Thurn und Taxis, che la relazione si guasta. Del resto non è un’impressione casuale: la principessa stessa contribuisce attivamente al fallimento di questo amore. Benvenuta se ne accorge ma ci vede la messa in luce di una realtà piuttosto che un intervento deliberato. La principessa la convoca infatti per un colloquio, nel corso del quale le spiega che, come la Signora delle Camelie, doveva rinunciare alle sue pretese. Rilke la ama, certo, ma ne soffre anche, perché non può più lavorare, e allo stesso tempo non osa confessarglielo. Se i due vivessero insieme l’arte ne risentirebbe: al posto delle opere sublimi non ci sarebbe che un amore umano, troppo umano. Ma «il suo dovere è di stare solo, il suo sacrificio è la sofferenza, che lo eleva verso nuovi e grandi compiti di creazione« (B, 205). Nei suoi ricordi, la principessa si rivela ancora più ostile. Non appena vede quella pianista giungere al suo castello, la decisione è presa: Rilke deve abbandonare la musica che passa per le orecchie per dedicarsi esclusivamente all’ascolto della sua musicainteriore; lui è la musica, non deve dunque averla. Verosimilmente, è Rilke stesso che l’avrebbe supplicata di venirgli in aiuto e di allontanare Benvenuta. Ma allo stesso tempo lei ce lo dipinge come accecato dalla sua nuova passione, e dunque come bisognoso di chiarirsi le idee con l’aiuto delle persone a lui vicine. La gerarchia tra l’arte e la vita è troppo ben fondata perché la principessa accetti di vederla modificare; dunque fa di tutto perché la pratica non smentisca la teoria. Propina a Rilke la sua regola di vita precedente, come se si trattasse di una verità eterna: «Dottor Seraphicus [è il nome, rivelatore, che gli dà], la vostra fidanzata è la solitudine» (Benvenuta, 14). E poi è chiaro che il ritorno alla situazione di prima soddisfa lei stessa: può così continuare nel suo ruolo di protettrice benevola, amica delle arti e delle lettere, che aiuta il genio solitario a raggiungere il vertice della sua creazione. Questa sarebbe, nell’ottica poco lungimirante della principessa, la donna ideale di cui Rilke ha bisogno: una persona che sa dare senza chiedere niente in cambio – in altri termini, che condannerebbe Rilke all’assenza di reciprocità. Bisogna dire che un simile atteggiamento è comune alla maggior parte degli ammiratori e delle ammiratrici di Rilke, ed anche dei suoi successivi commentatori: tutti preferiscono che sia uomo infelice e poeta geniale piuttosto che felice e mediocre (essendo la scelta sempre limitata a queste coppie di termini). L’esempio più lampante è forse quello della sua amica di sempre, Lou Andreas-Salomé. Divenuta lei stessa psicanalista, mette Rilke in guardia contro ogni velleità di guarigione e gli fa notare, a più riprese, che l’intensità della sua infelicità è direttamente proporzionale alla riuscita delle sue opere. Mentre Rilke le confessa, un giorno, la propria malinconia, lei gli scrive, il 16 marzo 1924: «Sai, vi è un’altra scoperta la cui familiarità ha contato per me in questi ultimi anni: è che ogni nevrosi è il segno di un valore, ch’essa motiva: qui qualcuno ha voluto andare fino in fondo a se stesso – è per questo motivo che ha perso la ragione più velocemente di altri – e quelli che hanno conservato la salute sono stati semplicemente, in rapporto a lui, meno ambiziosi. Oggi non mi chiedo più soltanto perché un malato si è ammalato ma anche, con la stessa diffidenza, perché un essere sano è rimasto sano». Questa è, in fin dei conti, la conferma della decisione presa da Rilke stesso una dozzina di anni prima. Sua moglie Clara segue un trattamento psicanalitico e gli rimprovera di non fare lo stesso; si rivolge allora all’analista di lei, il barone Emil von Gebsattel, per consultarlo. Ma in realtà la scelta è già fatta: il suo destino, per quanto ingrato sia, è quello che gli permette di creare; l’opera è dunque nel contempo la contropartita della sua infelicità e il suo rimedio. «Mi sembra sempre che il mio lavoro costituisca in fondo un auto-trattamento analogo», scrive al barone il 14 gennaio 1912, e conclude, qualche giorno dopo: «guarirmi» vorrebbe dire cambiarmi, fare di me qualcun altro, come dire un non-creatore. Insomma, questo prezzo della guarigione non vuole pagarlo: preferisce soffrire e creare; soffrire per creare. «È fuor di dubbio che se cacciassero i miei demoni, anche i miei angeli avrebbero un po’, diciamo appena un pochino, paura; e, Voi lo capite, è proprio questo che mi si deve evitare, ad ogni costo (24.1.12)». Gli angeli della creazione non avanzano se non si tengono, mano nella mano, con i demoni della sofferenza esistenziale. Ma egli continua a pensare negli stessi termini quando è con Benvenuta? Non bisogna certo biasimare troppo la principessa o altri amici per l’insuccesso dell’amore tra Rilke e Benvenuta, anche se l’una o gli altri fanno del loro meglio per contribuirvi; la ragione più profonda di questo esito è nell’atteggiamento dei due protagonisti stessi. Benvenuta, per quanto abbia davanti un uomo che l’ama e che è pronto a sacrificarle tutto, in ogni caso a tentare di non fuggire l’amore, è troppo impressionata dall’immagine che rivelano gli scritti di Rilke, dai racconti che lui fa di se stesso, o che gli altri fanno di lui, per non avvertire nel suo intimo che, amandola, Rilke esercita una violenza inammissibile sul suo essere. Rilke vorrebbe gustare con lei la gioia ignota di essere un uomo come gli altri; lei non può fare a meno di vedere in lui l’essere d’eccezione. Al momento in cui redige i suoi ricordi, essa trova a buon diritto, in questa incapacità di immaginare Rilke come uomo ordinario, l’origine stessa dell’insuccesso finale. Ecco la sua prima impressione: «Sognavo: ‘non è un uomo, è un’apparizione, che un miracolo ha condotto sulla nostra stessa terra’. Non sospettavo certo che questo pensiero ci avrebbe valso più tardi indicibili sofferenze » (Benvenuta, 52). Questa prima impressione non fa che confermarsi in seguito e quando, a Parigi, essa si pone una domanda eminentemente pratica: vorrebbe sposarlo?, ammette, in una lettera alla sorella: «Devo rispondere: no. Lui è per me la voce di Dio, l’anima immortale, Fra Angelico, tutto quello che vi è di buono, di sublime, di sacro sopra la terra, ma non è un uomo. Ho una paura indicibile di vedere umanizzarsi il sentimento profondo ed esclusivo che nutro per lui, di vederlo sprofondare nel quotidiano e nel terrestre, dove non potrebbe conservarsi senza rinnegarsi all’infinito» (Benvenuta, 124). Nel momento stesso in cui Rilke decide di umanizzarsi e decide anche che non si rinnegherà se ama una donna, se si fissa nel quotidiano, lei, come Eloisa che scrive ad Abelardo, abbraccia l’immagine di lui di cui lui vuole sbarazzarsi e gliela rinvia come il suo destino ineluttabile: non gli permetterà di scendere dal suo piedistallo tra i semplici mortali. Benvenuta non è meno decisa degli altri amici di Rilke ad aiutarlo e persino a costringerlo a restare l’artista geniale che è, malgrado egli sprofondi nell’infelicità. Questo comincia con dei rimorsi. «Provo una certa inquietudine, scrive nel suo Diario, a rendermi conto che Rilke non lavora. Lui che vede la solitudine come il dovere supremo della sua vita e la mette al di sopra di tutto, vive solo nella musica e nei progetti di viaggio (Benvenuta, 116). Ma forse non ha più voglia di solitudine? No, la convinzione delle persone a lui vicine è troppo ben radicata. Quando Benvenuta lo sente leggere le prime Elegie, a Duino, la sua certezza non fa che rafforzarsi. «Mi è impossibile ammettere che non debba concluderle. Posso solo comprendere che quest’opera, partorita nel dolore, esiga probabilmente in maniera definitiva la rinuncia ad una vita compatibile con un soggiorno umano» (179). «Io voglio impedirti di tirarti indietro, Fra Angelico, e voglio impedire a me stessa di contribuire a ciò. Voglio invitarti a partire, se è pronta la nave che deve condurti verso i mari lontani della tua solitudine, là dove il lavoro ha sulla tua vita i diritti più remoti, più eterni di quelli che mai avrò io» (201). Si capisce perché in queste circostanze la principessa non abbia dovuto faticare molto per convincere Benvenuta a lasciare Rainer. Ma bisogna anche interrogarsi sull’atteggiamento di Rilke stesso. Non che abbia mancato di sincerità nel suo desiderio di sottrarsi al suo destino glorioso, che sia stato segretamente tentato di tornare alle certezze, fossero anche desolanti, di una vita nell’arte. No, Rilke è realmente trasportato da uno slancio che aveva ignorato fino ad allora, prova una felicità inaudita ed è pronto ad assumersi le conseguenze del suo gesto. Ma l’amore, come lui lo sogna, può solo essere vissuto – com’egli lo vive, può essere condiviso? Benvenuta si sbaglia quando pensa che lui sia un angelo piuttosto che un uomo; ma lui stesso vede la Benvenuta reale? Non saprà mai dirle ciò che è per lui, le scrive in una magnifica preterizione, solo le stelle potrebbero farlo al suo posto; è a tal punto impregnato di lei che sfugge alla condizione mortale degli uomini (22 febbraio 1914). Benvenuta è la perfezione; ma non si può, in questa vita, vivere con una perfezione, sposarla in chiesa, amarla ogni giorno. La vita umana reale non ha niente a che fare col registro della perfezione, l’individuo non supera mai la sua incompiutezza, dunque l’essere più amato conserva anche la propria. Non vi è forse qualcosa di tragicamente impossibile nel suo stesso progetto: vivere l’estasi nel quotidiano, impiantare l’assoluto nel reale? Il quotidiano non saprebbe essere sostituito dal sublime: è in seno al quotidiano, con tutte le sue imperfezioni, proprio come in seno alla lebbra, che bisognerebbe saper sentire la bellezza. Il potere trasfigurante di Rilke, che non è altro che il suo dono poetico, sembra troppo grande per permettergli di vedere gli esseri quali sono. Le lettere che scrive a Benvenuta non fanno parte di un dialogo; richiedono l’assenso piuttosto che la risposta, devono essere assaporate e ammirate alla maniera di un’opera d’arte (lui stesso parlerà, a posteriori, della loro bellezza). In quelle magnifiche lettere fa una scoperta umana, che non è quella di Magda ma quella di se stesso; esse sono abitate da una sola soggettività, la sua. Essere innamorato gli permette insomma di dirsi. Egli esalta colei a cui scrive ma senza percepirla davvero, e non è senz’altro un caso se il nome reale della sua corrispondente si trova dissimulato da questo soprannome, Benvenuta, che la definisce in rapporto a lui. Se egli le scrive: «Mi sembra che la mia opera, definitiva, sarebbe di mostrarmi vero con te» (16 febbraio 1914), c’è, in questa formula, sia il desiderio di sostituire la creazione con la vita sia l’incapacità di vedere la vita se non come un’opera. La poesia, a sua stessa insaputa, e senz’altro contro la sua volontà, ha sconfitto ancora una volta la vita. Qualche anno dopo, i due protagonisti di questa tragica storia d’amore tenteranno di coglierne il senso. Rilke si ripiegherà sul registro dell’autoaccusa e dell’autodenigrazione: tutto era pronto per la felicità, egli dirà, e nel non aver saputo coglierla è la prova definitiva della sua incapacità a vivere. «Nessun essere umano può aiutarmi, nessuno», scrive a Lou nel giugno 1914; «non sono stato all’altezza di una missione pura e gioiosa. [...] Sono sicuro infatti di essere malato – e la mia malattia ha seriamente guadagnato terreno» (8-9 giugno 1914). Qualche anno dopo, Rilke scrive anche a Benvenuta; una lettera che le sarà recapitata solo dopo la sua morte; egli prende ancora tutta la colpa su di sé e sulla sua infermità. «Non osavo, non mi credevo capace di stringere il sole» (Benvenuta, 249). Non rimpiange niente, comunque. «Dio mi ha, mio malgrado, condotto sulla montagna e ti ha mostrata a me. Tu, Benvenuta! E chi potrebbe mai riprendermi ciò che ho visto? La morte stessa non può che chiuderlo in me...» (250). Ma toccherà a Benvenuta trarre insegnamento dalla loro avventura, non per far luce sul carattere di Rilke ma per mettere in evidenza lo strazio e la tragicità inerenti alla condizione umana stessa, che rende impossibile perseguire nello stesso momento tutti i nostri obiettivi legittimi. Rilke è l’uomo che meglio di chiunque altro sa mettersi all’ascolto del mondo, ma di questo stesso privilegio non sa rendere partecipe nessuno. «Rainer capisce questo cuore felice come nessuno, ma lui non lo possiede. Gli è solo dato di cogliere fino all’infinito ciò che accade nella natura e nell’uomo. Gli è dato comprendere il senso invisibile di ogni cosa, esprimere quel che sembrava inesprimibile, mentre noi siamo davanti alla profondità, alla bontà e alla luminosità della sua santa umanità come davanti ad un miracolo. Eppure, è proprio questa umanità che è la causa del suo strazio e della sua sofferenza» (200). Non si può al tempo stesso conoscere la vita e viverla, mentre entrambe le cose sono desiderabili sia per l’individuo isolato che per l’umanità intera. I primi passi sul cammino del destino possono mantenersi nell’indecisione; ma arriva un momento in cui bisogna scegliere tra la grandezza e la felicità, tra servire l’umanità o gli individui che ci sono vicini; e, qualunque sia la scelta (che non dipende in generale dalla volontà del soggetto), si ha l’abbandono tragico di un ingrediente essenziale alla vita. L’umanità sarebbe altrettanto mutilata se mancasse delle opere superiori dello spirito o di individui capaci di amare e di preoccuparsi degli altri. E ciascuno, nella sua vita privata, nella sua modesta scala, deve ripetere questo gesto di auto-mutilazione. «Capisco sempre più chiaramente, dice Benvenuta, che Rilke deve rinunciare alla sua nostalgia di una vita orientata verso l’umano, per dipendere solo dal divino» (216). Non si possono soddisfare gli dèi e gli uomini al tempo stesso; tuttavia, non possiamo fare a meno di tentarlo. Il sentimento di aver fallito nella vita non è più rassicurante di quello di averla sprecata; e in entrambi i casi non avremo fatto altro che mettere in evidenza quella che Rilke stesso definisce «una frattura irreparabile » (138). Quali conclusioni trarre da queste storie di fallimento? Il destino di Rilke è unico mentre il significato che se ne può trarre è universale. Il messaggio di Rilke, trasmesso dai suoi scritti pubblici come dalla sua corrispondenza, ha una portata che oltrepassa il suo proprio destino: non spiega solo un individuo ma si rivolge a tutti i lettori, passati e a venire – e ciascuno può applicarlo, adattandolo, alla propria esistenza. È anche in questo che mi sta particolarmente a cuore. Ciò di cui si parla qui non sono le ragioni particolari che si potrebbero trovare alla sua incapacità di amare nel tempo, di riconciliare vita e opera, di vivere il quotidiano in una continuità piuttosto che in opposizione con l’arte; Rilke dice la verità di ogni esistenza votata alla creazione, alla bellezza, all’assoluto? È su questo interrogativo che vorrei fermarmi. Le opere di Rilke sono citate secondo le edizioni francesi di Seuil 1983 (Le Testament) e Denoël 1947 (Magda von Hattingberg, Rilke et Benvenuta). In traduzione italiana si possono consultare Il testamento, a cura di E. Potthoff e G. Grof (Milano, TEA 2002), Epistolario 1897- 1926), a cura di E. Pfeiffe (Milano, La tartaruga 1992) e M. von Hattingberg, Rilke e Benvenuta, a cura di E. Müller (Firenze, Sansoni 1949). 1Testo letto l’11 novembre 2002, a Palazzo Vecchio, in occasione del conferimento a Todorov della targa d’argento del Comune di Firenze, per iniziativa di «Semicerchio», dell’Università di Firenze e della Syracuse University. La versione definitiva sarà pubblicata successivamente. La traduzione dal francese è di Francesco Stella e Michela Landi. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione ¬ top of page |
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