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CHRISTIAN UETZ, Das Sternbild versingt, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 2004, pp. 96, € 7,00.

Nato a Egnach (Svizzera) nel 1963, Christian Uetz ha alle spalle studi di filosofia, comparatistica e filologia classica che, alla lettura delle sue opere, si rivelano in tutta evidenza molto densi e proficui. Prima della raccolta di poesie Das Sternbild versingt l’autore aveva già pubblicato, sempre per la Suhrkamp, i racconti di Don San Juan (2002) e, prima ancora, i due volumi di liriche, Luren, Reeden e Nichte (Nulla, al plurale) raccolta dal titolo più che emblematico del gesto e delle tematiche tipici di questo autore. L’opera con cui Uetz ha raggiunto una certa notorietà è però il volume di prose Zoom Nicht, del 1999, premiato allo Ingeborg- Bachmann-Wettbewerb.
Anche nella raccolta Das Sternbild versingt (una traduzione meramente esplicativa potrebbe essere Il canto della costellazione si estingue) i due cicli di poesie di cui si compone il volume sono preceduti e inframezzati da ‘poesie in prosa’ la cui funzione poetologica è troppo dichiarata ed esposta per non essere interrogata, non senza qualche sospetto, in sede preliminare. Scrive Uetz: «ICH KOMME NICHT ZUR EXISTENZ. Ohne Wort komme ich nicht zur Existenz, und mit dem Wort komme ich auch nicht zur Existenz, sondern zur Nichtexistenz». Il dolore del ‘nascere all’esistenza’ è il dolore dell’insufficienza della coscienza e di Dio (il quale oltretutto, sottolinea Uetz, dopo Nietzsche non esiste affatto), dell’insufficienza di tutti i riferimenti metafisici ‘classici’, che non solo non servono affatto ad accendere l’esistenza dell’uomo, ma che non introducono neanche a quella «nonesistenza» dal sapore mistico (il lessico di Meister Eckhart è presente in tutta evidenza nello stile della prosa di Uetz) che nel tormentato e troppo spesso compiaciuto autogenerarsi delle argomentazioni di Uetz rimane l’ultimo appiglio di una qualche consistenza concesso all’uomo: «Und genau im Nichts des Worts ist die Nichtexistenz vergegenwärtigbar. Doch geschrieben oder gelesen oder gedacht ist es wie den Tod anderer sehen, nicht aber selber erfahren, solange ich nicht selber tot bin. Es geht aber ums Leben, und es kommt vom Wort. Ich komme ums Leben, wenn ich nicht zu Wort komme».
Nell’itinerario dei giochi linguistici di queste dichiarazioni introduttive Uetz enuncia la sua poetica e, al tempo stesso, il tema centrale delle liriche di questa raccolta. Si tratta di poesie apparentemente erotiche o amorose, che hanno i loro importanti e talvolta troppo dotti riferimenti in Celan, nel Rilke dei Gedichte an die Nacht e delle ultime poesie, ovviamente nel Novalis degli inni alla notte, nel mito wagneriano dell’amore, così come, a livello linguistico-filosofico, in Heidegger, nella mistica tedesca, nella poesia medievale (il titolo del secondo ciclo è «Minne sang») e così via. In realtà, il tema più scoperto di queste poesie è l’impossibilità dell’amore, che diventa il presupposto irrinunciabile del (ri)fluire dell’energia erotica nel pulsare del linguaggio e della parola poetica, il che, per il poeta minacciato persino della perdita della «Nichtexistenz », è questione appunto di vita e di morte. Trasportato da questa energia erotica, Uetz rielabora e trasforma in modo talvolta drastico il lessico tedesco, lavorando le parole ai fianchi, inondandole del calore di quel respiro che è la poesia (ancora Celan), fino a che il flusso del discorso poetico si addensa e inciampa su una parola, le cui sillabe vengono caricate o forzate in senso onomatopeico in modo che dalla parola scaturisca un nuovo significato. Ad esempio, in una delle poesie più belle della raccolta le associazioni sonore conducono alla nascita del neologismo «irrgernwann» (al posto di «irgendwann»), dal quale può poi scaturire la chiusa della poesia: «Und irrgernwann wird der Traum wahrer als der Raum, // das Erregen stärker als das Leben, die Zeitlosigkeit tiefer als die Zeit, / / und die Wunde barer als die Welt». («E prima o poi – errando dolcemente – il sogno diverrà più vero dello spazio // l’eccitazione più forte della vita, / l’eternità più profonda del tempo, // e la ferita più scoperta ed evidente del mondo»).
Non poche sono però le poesie a proposito delle quali il lettore ha l’impressione che il gioco linguistico sia semplicemente fine a se stesso, come trasportato da una vibrazione autoerotica del linguaggio in cui le svolte cui conduce l’addensarsi del flusso poetico si rivelano acrobazie verbali e fonetiche portatrici di messaggi piuttosto scontati sull’illusorietà dell’unione amorosa e della fusione delle anime, o sull’origine comune di amore, poesia e tensione religiosa (esemplare in tal senso è Du dichtendes Gebet). Forse si tratta in questi casi ancora di poesie che andrebbero ascoltate in una delle performance di spoken poetry per cui Uetz è famoso, e che invece, sulla pagina di un libro, hanno un effetto talvolta persino irritante. Una spiegazione potrebbe stare nelle affermazioni che chiudono la breve prosa introduttiva del volume: così come per Uetz è inutile vedere la morte di altri, perché per il poeta la questione vitale consiste nel «prendere la parola», così forse è inutile essere ‘lettori’ di questa poesia, che andrebbe piuttosto esperita nella sua realtà di bisogno vitale dell’autore.

Gianluca Miglino

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