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Ivano Ferrari, Macello, Torino, Einaudi 2004, pp. 88, € 11,00.

Dopo La franca sostanza del degrado, la raccolta del 1999 che lo aveva segnalato come poeta crudo e sincero, capace di sprofondare nella descrizione della contraddittoria incomprensibilità del presente (la ‘franchezza’ essendo la caratteristica del degrado ma anche il suo aspetto meno ‘nascosto’ ed enigmatico), Ferrari torna ai suoi temi di esordio. Macello, infatti, era il titolo della più contratta silloge di versi pubblicati nella raccolta antologica Nuovi poeti italiani 4 (uscita sempre presso Einaudi nel 1995) e rappresenta l’evocazione più intima e l’imagery fondamentale della sua proposta poetica. «Omicidi instancabili / tra incenso e carogne barattate / con l’attesa corruzione dei sogni, / mentre evaporo (grassaggio) / cedo le parole: / dimostratemi la mia morte / che conosca ciò per cui vivere»: il mondo si configura come l’enorme sala di un macello pubblico (luogo che Ferrari conosce per avervi lavorato per qualche tempo, a Mantova), dove le morti si susseguono scandite dal passaggio incessante del tempo che monotono si sussegue in un paesaggio che non conosce che sangue e dolore. In questo ambiente asettico e spaventoso (che tra lager, manicomio e prigione mima la ‘scena primaria’ del Novecento e la sua atroce pienezza di morte) le ‘vittime sacrificali’ vanno al macello senza una divinità cui fare riferimento. Non più spoglie opime in attesa di gratificare il dio della propria devozione, ma blocchi di carne destinati a scomparire nelle fabbriche del consumo generale di massa; i buoi e le vacche che compaiono e scompaiono, vengono macellati e trasformati in anonime porzioni per il mercato, rappresentano la dimensione ‘naturale’, ontologica dell’Essere storico. Ad esse non viene rivolto che lo sguardo dell’indifferenza e il loro passaggio sulla terra non è che il tragitto tra la stalla e la scarica elettrica che le tramortisce configurandole come cosa, pura oggettività destinata a scomparire. Non sappiamo se Macello sia allegoresi del presente piuttosto che sua metaforizzazione (come Giuseppe Genna vorrebbe dimostrare, in un testo leggibile solo sul web, attraverso una ricerca sulle fonti ed i temi della raccolta), ma sicuramente in esso il percorso della poesia è confitto interamente nella sua rarefatta matericità: i corpi sono astrazioni pure (almeno quanto – se non di più – le convenzioni poetiche che presiedono alla scrittura della raccolta). «Sventrate intere famiglie / oggi / lunedì di intensa macellazione. / Una vacca ha partorito un vitello / negli occhi la paura di nascere / il foro in mezzo il nostro contributo / a tranquillizzarlo»: nella piana rievocazione-attualizzazione della morte, gli occhi glauchi del vitellino nato-morto si configurano come sostanza ‘affrancata’, liberata da giudizi morali, campo neutro dello scontro tra vita e morte: la ‘pacificazione’ attraverso lo sgozzamento e la macellazione impedisce ogni intervento attivo dell’attore-autore sulla scena rendendolo puro testimone. La poesia è ratifica ascetica e purificatrice della morte, inevitabile quanto la vita – se ad entrambe non si sfugge, protestare contro di esse (sembra sostenere Ferrari) non serve che ad aggravarne la funesta perentorietà. «Ficco dita nelle narici dure / del toro decapitato / cerco intimità e pensiero / in quel vigore moncato / quando potrei avere colme / le mani di mammelle»: il toro (simbolo di continuità tra passato e presente, tra il mito e la descrizione della Storia, tra la reggia di Cnosso e il talismano picassiano di Guernica) è un feticcio al quale attingere un vigore sperato e richiesto e che però risulta moncato (neologismo che unifica probabilmente le parole ‘monco’ e ‘mancato’) nonostante la forza del ‘pensiero’ che dovrebbe alimentarlo in quanto risulterà alla fine privato della tenerezza e della fecondità delle ‘mammelle’ che producono e diffondono il latte della vita. Sulla scena (apparentemente sigillata dall’assenza di speranza) della Morte-in-Vita della possibile allegoria di Ferrari, si aprono talvolta delle brecce beanti di possibilità di vita ‘diverse’: «Tra il fecaio / e l’inceneritore / crescono dei fiori / margherite evacuate dalla terra / soffioni che sembrano sputi / papaveri notevolmente pallidi». Questi fiori resistono e perseverano, nonostante la loro assoluta precarietà, in una condizione di vita che li colloca in un territorio ostile, rinnovando la loro fragile esistenza in una dimensione di derisoria transitorietà. Resistono anche al ‘disdicevole odore della morte’ (per dirla con l’Auden di Spagna 1937); la dimensione scatologica di gran parte della poesia di Ferrari non sembra cancellarne e impedirne la creatività: «La merda è colorata / creativa / gratificante (ogni tre ventroni un carretto) / è rumorosa, suadente, intrigante / gelida / quando si ammucchia ostinata nelle grate delo scarico / è docile, è fieno dei ricordi d’infanzia / (la vuotiamo in una vasca di cemento) / [...] la merda (la grande vasca va svuotata ogni tanto) / protegge la mia intimità e la vostra / svestita / da qualsiasi pregiudizio». Nella sua non-pregiudizialità e nella sua docilità espressiva, questo ‘elogio della merda’ è una vera e propria dichiarazione di poetica: è la sua dimensione ‘umana, troppo umana’ che passa per la catarsi della scrittura.
Giuseppe Panella

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