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YVES BONNEFOY, Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, a cura di F. Scotto, Milano, Crocetti 2003, pp. 254.
YVES BONNEFOY, Il disordine. Frammenti, a cura di F. Scotto, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2004, pp. 42.

Nella postfazione a Seguendo un fuoco, che ripercorre tutte le sue tappe poetiche da Douve alle Planches courbes, Bonnefoy ricorda di aver molto scritto «in memoria». Egli cerca infatti di riportare alla presenza, attraverso una parola epifanica e sgravata dal suo differimento concettuale, eventi dalla significanza viva e pungente che hanno costituito, per lui, un momento iniziatico. Di qui un legame profondo, e quasi materiale, al vissuto significativo; un affectus, nel suo più autentico designare: ad-ficere. Tale ‘affezione’, filo immaginario dello spazio-tempo che rapporta il soggetto agli eventi o alle presenze oggettive: freccia, voce, viaggio, unisce, religiosamente, il passato che ‘colpisce’ con il presente della scrittura. Quest’ultimo, cristallizzando tale dimensione vivificante, si fa pietra viva e incandescente, nella quale si iscrivono – e mirabilmente consistono – tutti i passaggi: luoghi, volti, e voci che, pur nella loro transitorietà, rappresentano nella mente dell’autore l’attimo bruciante che prelude ad una fissazione memoriale. Bonnefoy parla, nella stessa postfazione, di «poesia transitiva », come evocazione di una rosa di istanti i quali abbiano segnato, qua e là, dei punti di convergenza, di incontro tra il soggetto e la presenza di quel luogo, di quel fatto. Per questo egli accoglie favorevolmente, e quasi come un ulteriore evento significativo, la proposta di una silloge da parte del traduttore. Si tratta, infatti, di una ‘raccolta’ di momenti esemplari nei quali «la poesia ha vissuto il suo rapporto con l’evento che la abita». La motivazione dell’autore aggiunge, insomma, un valore intrinseco all’apparente arbitrarietà della ‘raccolta’ poetica, feconda messe di istanti pungenti, di memorabilia. Erompe infatti, da questi testi, quel punctum barthesiano che, stagliandosi dalla piattezza bidimensionale del testo come da una fotografia, costella di concomitanze un vissuto lineare, affidandolo all’esemplarità. Come ancora il poeta sottolinea, vi è un impensato che sottende a queste stesse concomitanze: vergini misteri, silenzi infralinguistici evocati come segni di una verità insondata, ed accolti umilmente – misticamente – dal poeta come enigmatica fenomenicità. Molti temi percorrono trasversalmente – costanti e consistenti, a dispetto di tempi e luoghi occasionali – la poesia di Bonnefoy. L’«elementalità presocratica» – diremmo piuttosto eraclitea – che a buon diritto il traduttore sottolinea nella prefazione, si manifesta spesso in una costitutiva sacrificalità della materia, nutrimento ontologico dell’umano. Il poeta invoca, a più riprese, Demetra-Cerere affinché quella desertificazione, pietrificazione e incenerimento della vita organica (alberi bruciati, carbone, terra petrosa) siano compensati dai riti di fecondità che la poesia presentifica contro la deiscenza e la senescenza di ogni bene vivo. Testimone, il frutto del legno della vita da cui si estrae, viva sostanza, il succo sacrificale che nutre e avviva, nuovamente, i frigidi corpi: «Come una mano pigia un grappolo, mano divina, / Da te dipende il vino; da te, che la luce / non sia quest’unghia che lacera» (pp. 162-163). Simulacro del rituale presentativo della parola mediante la spremitura del frutto è, alla stregua della poesia, la pittura (l’invocazione al «Peintre» di Dedham vista da Langham, II, pp. 164-168 ha un corrispettivo in prosa nell’omaggio all’uva di Zeusi in La vie errante). Qui, la mano dell’artista dall’esterno «lacera» e «macchia di sangue l’immagine», in una vendemmia sacrificale del senso come materia viva (e ci soccorre, qui l’idea del «céleste vendange » baudelairiano, nonché il chicco d’uva svuotato dal fauno di Mallarmé). La sensibilità cromatico-pittorica di Bonnefoy produce un contrasto ontologico tra il grigio – segno della costante e sorda presenza – ed il rosso nella sua sacrificale, violenta pungenza e transitorietà. È quest’ultimo che è capace, mediante la sua vivescenza sublimata, di addensarsi plasticamente nel fuoco interno del sasso vivo: ctonia profondità del vero insondato, pietra che, misteriosamente, si ‘spetra’ (esemplare il neologismo denominale per parasintesi: «désempierrer», di p.106). Come la pietra trasuda sangue, la parola si fa corpo consistente, minerale e vivo: di contro all’edificazione – materiale e simbolica – con il sasso sordo ed inerte, la poesia, pietra scartata dai costruttori, si affaccia sul deserto del dicibile come una pietra-ostacolo; materia refrattaria che coniuga – come nella filosofia eraclitea – scontro e conoscenza. Mineralità e liquidità, dunque, come due verità inseparabili: testimone il pozzo, la pozzanghera, la fonte; o l’uccello, liquida vox che il canto tra le pietre rifugia e conserva (p. 142). L’idea sacrificale del frutto, sorta di liquidità minerale non ancora consistente è duplicata, in Les nuées (Dans les leurres du seuil, 1975, pp. 122-123), da quella della barca che lo trasporta. Si tratta di un viaggio iniziatico della parola viva e ignara, fructus oris, verso il suo destino referenziale: stasi, soglia concettuale fondatrice di negazione e di assenza (pp. 122- 123). E come non riconoscere, nelle Planches courbes, che conclude cronologicamente (2001) il percorso poetico di Bonnefoy qui rappresentato1, l’immagine salvifica del lignum vitae? Come la nave dei folli fonda, col suo viaggio iniziatico, la società simbolica (e ciò non può certo sfuggire a Bonnefoy, grandissimo conoscitore di miti), è la barca del sacrificio che il «leurre du seuil», miraggio di una terra e di una pietra liminare, fa salpare. E la barca è, di per sé, legno vivo, piegato dalla volontà creatrice dell’uomo, che costruisce una fluttuante consistenza sul corso del tempo e del senso. Tra la barca – che trasporta, metabolicamente, il senso verso la forma – e l’acqua – sua regressiva inconsistente materialità – vi è, intanto, uno scontro elementare che induce, come in sogno, la conoscenza: «Ora, nello stesso sogno / Sono disteso sul fondo di una barca, / La fronte, gli occhi poggiati contro le sue assi ricurve / Su cui ascolto frangersi l’acqua bassa del fiume».
I frammenti dal titolo Le désordre, che Bonnefoy affida a F. Scotto nella primavera del 2003 quali inediti destinati alla rivista «Europe» in occasione degli ottanta anni del poeta (nn.890-891, giugno-luglio 2003) siglano, come afferma il curatore e traduttore nello scritto introduttivo, una «prossimità fra poesia e teatro». Tale prossimità, che proprio lo scorso numero di «Semicerchio» ha studiato (Il verso recitato. Teatro di poesia nel Novecento europeo, n. XXIX, 2003/2) è, per Bonnefoy, anche una complementarità. Il vantaggio che la poesia ne trae, è il suo affrancamento dal concetto quale che si fissa e si aggrega nel testo come scrittura, per rifondare una corporeità agente del linguaggio. Bonnefoy, che ha frequentato a lungo Shakespeare e, attraversandolo, ha colto la trasversalità unificante tra le lingue, medita ora sulla presentificazione dell’essenza attraverso una parola che si confronta, corpo a corpo, con l’azione. A buon diritto Scotto osserva, come duplice corollario della dissipazione del nucleo semantico della parola mediante la sua vivificazione gestuale, sia una «indecidibilità del referente» (come in molta produzione tra Otto e Novecento il tema, denotativamente eluso, si dissemina nella predicazione) sia, sul piano stilistico, la marcata tendenza alla sostantivazione dell’infinito. In ciò Bonnefoy conferma, anche sul piano formale, quella indole anti-idealistica e anti-metafisica da lui manifestata (noto il suo Anti-Platon) che caratterizza il cosiddetto style concret e che si distingue, fra l’altro, per la rinuncia al suffisso astrattivo (le déchirer per: la déchirure), così frequente, invece, nell’italiano. Il «disordine» di questi frammenti è evocato dal poeta nella didascalia iniziale: si tratta di vociferazioni confuse. Un’eterofonia che sale da più luoghi, sollevando, con sé «scontri, enigmi, e il desiderio che questi si risolvano»; desiderio accompagnato dal timore che le voci restino invece «avviluppate per sempre nel ‘flutto mobile’ del linguaggio». L’immagine visiva che il poeta associa all’immagine uditiva appena evocata, è quella di una quindicina di uomini e donne; un gruppo serrato, dal quale qualcuno si stacca, per poi rientrarvi. I volti, indistinti: «potremmo crederli mascherati» (p. 17). Le figurazioni che via via prendono corpo dalle voci, addensandosi in presenze tematiche, sono per lo più nuove epifanie di entità che, costantemente, si ripresentano nell’itinerario di Bonnefoy: il colore come substantia viva ed organica dell’oggetto («Le coffre ouvert dont des couleurs ruissellent. [...]. À travers la couleur la forme se brise», p. 18); la consunzione organica, qui soprattutto evocata attraverso la dispersione umorale, lacrimale («Je pleure / Pour tous ceux et pour toutes celles qui ont pleuré, / Pour les morts qui n’en finissent pas de mourir », p. 22) di contro alla desertificazione, alla stratificazione della materia immemoriale e all’aridità minerale (ricorrenza della sabbia e del fuoco). Infine, il sacrificio fondatore: accanto all’evocazione dell’auleta Marsia scorticato dal citaredo Apollo (il tema si ripropone attraverso la metafora delle superfici raschiate), ritorna costantemente anche l’immagine biblica di Ezechiele e dell’Apocalisse; a significare, attraverso la metafora della pergamena inghiottita (oltre che raschiata come un palinsesto) il dolore, in chartam, della scrittura che, facendosi voce, si tinge del sangue della parola viva. Di qui le svariate immagini del sacrificio cartaceo: oltre al raschiamento di carta da parati, fogli accartocciati, fotografie bruciate, pagine di giornale infilzate, spiegazzate, strappate. La teatralità del testo infatti non si risolve solo nella drammaticità stilistica tout court (sensibile presenza di allocutivi e deittici che, accanto a grida e mormorii, alludono ad un referente generatore sottratto alla denotazione e ad uno sforzo vocale, incessantemente in fieri, della nominazione), ma anche nelle implicazioni metapoetiche di una scrittura- consunzione: nella voce come nel fumo. La teatralizzazione del segno come metaletteralità si incontra, infine, nell’immagine dell’acca-ascia (omonime in francese: hache), dove sono assimilate funzione disgiuntiva del fonema (hache disjonctif, che si traduce in un’aspirazione interna alla parola ad indicare la presenza di un dittongo: trahir) e azione ‘disgiuntiva’, separatrice dell’utensile. In quel flatus primordiale – in quello spazio franco che sta tra i due termini disgiunti – abita forse il disordine prima ch’esso venga composto nel significato, univoca e morta referenzialità: «Mi volevo da ogni lato l’ascia / Che sfaldasse la massa di ciò che è / L’ascia sorda, infinita, / Di cui s’ode il rumore nella valle».

Michela Landi

Pubblicato nel 2001 per le Edizioni Mercure de France, Les planches courbes è riedito, nel 2003, per la collana «Poésie» di Gallimard.

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