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CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male. Traduzione e cura di Antonio Prete, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 422.
Baudelaire resta, in Italia e in Europa, uno degli autori più ‘tradotti’, intendendo per traduzione, in senso lato, anche una annessa opera ermeneutica. Molteplici e differenti tentativi di comprendere – abbracciare – l’opera baudelairiana nella sua costitutiva ‘modernità’ si sono avvicendati nell’ultimo ventennio, mossi dalla necessità di penetrare quello che si presenta come uno dei fenomeni più affascinanti di eccedenza psicologica di una forma. Tradurre Baudelaire – scommessa che ha tentato in Italia, prima di Prete, grandi nomi: da Bufalino a De Nardis, da Bonfantini a Raboni – significa non solo disporsi a trattare con la peculiare drammaticità di tale forma (restando sul crinale tra referenzialità e metascritturalità), ma anche, e soprattutto, fare i conti con un autore che è, a sua volta, ermeneuta e traduttore, e che fa della critica una metafisica. Non si può insomma cimentarsi con Baudelaire senza aver preso coscienza del fatto che ogni suo testo è già una ‘riscrittura’, vuoi a partire da un presunto «dictionnaire de la nature», com’egli ama definire l’universo da cui attinge cromaticamente Delacroix, vuoi da un patrimonio filosofico e culturale che il poeta sapientemente rielabora e reinterpreta; il che fa della produzione baudelairiana il massimo esempio della parola intesa come vertice simbolico e sintetico delle concordanze universali. Con tali presupposti, quell'’equilibrio tra visione idiosincratica del reale e forma-senso dell’opera d’arte, che in Baudelaire si rivela costitutivamente instabile come un edificio in perpetuo ed imminente crollo, fa della traduzione una paradossale conservazione dell’instabile: un funambolico destreggiarsi tra una percezione individuale sempre ridondante e la sua resa artistica, governata dal nerbo della prosodia e, nondimeno, recalcitrante. Antonio Prete presenta, in una preliminare «Nota sulla traduzione», il dilemma che gli si è prospettato e che, pur presente di per sé in ogni esperienza di traduzione poetica, il caso di Baudelaire accentua per i risvolti metapoetici appena evidenziati: cedere al dispotismo della visione o a quello della forma; dell’immagine cultualizzata o della prosodia. Mentre sostiene implicitamente – con Leopardi, lo stesso Baudelaire e tutta la corrente ermeneutica – che non vi è miglior riflessione sulla traduzione che l’operazione stessa, Prete ammette, sul piano teorico, l’impossibilità di perseguire, in unum, la forma e la visione e privilegia, tra i due termini complementari, il primo. Tale ‘umiltà’ teorica è, a nostro avviso, sconfessata – e per la prima volta – nella resa: che si rivela senza dubbio, ad oggi, la più equilibrata e la più soddisfacente. È vero che, per ottenere tale equilibrio l’interesse – fin qui prevalentemente centrato sull’immagine e sul referente – deve adesso essere spostato sugli aspetti ritmici e prosodici: la loro incidenza metapoetica, fortissima nella costituzione del senso delle Fleurs du mal, è ciò che il traduttore ha ben compreso. Di contro ad una tradizione tesa a privilegiare l’impatto emotivo della visione, la scelta traduttiva di Prete, teoricamente ‘parziale’, è insomma quella dell’elaborazione stilistica. Egli infatti ha ben intuito, penetrando i segreti della scrittura baudelairiana, che tale scelta non sminuisce, nei risultati, quell’impatto; anzi, ne incrementa la capacità. Infatti, la perdita della componente metapoetica, che fa di molte traduzioni un prodotto di superficialità referenziale (quella che, frequentemente, si ha del Baudelaire vulgato), è, qui, finalmente compensata. Se fino ad ora potrebbero essere segnalati, nella traduzione di Baudelaire, rarissimi casi di mirabile congiunzione tra ritmo e immagine (i quali si riducono a rese idiosincratiche di singoli componimenti: l’endecasillabo di Luzi che asciuga gli attardamenti vocalici della Vie antérieure, facendone un gioiello della poesia italiana) è questa un’esperienza traduttiva che, estesa ad un’intera raccolta, dimostra come una profonda conoscenza dell’officina poetica unita ad una lunga e paziente frequentazione dell’autore possa fornire non solo felicissime – quanto inevitabilmente sporadiche – rispondenze ma, soprattutto, un tenore costante di alta resa. L’indole ‘teatrale’ e tendenzialmente narrativa del doppio settenario, che risulta quasi sempre il metro italiano più congeniale all’alessandrino, è ammorbidita e diluita, ovvero adeguata in tal modo a sopportare la scarsa ritmicità del verso sillabico francese; mentre, come nella stessa lingua di Baudelaire giocoforza avviene, l’impatto ritmico si condensa nella clausola rimica (ahimé, costitutivamente povera di variazioni). Mostrando una non comune abilità a rimare (in ciò soccorso dalla maggiore varietà dell’italiano) nonché una profonda intuizione plastica della parola e del testo, Prete per primo riconosce e restituisce la funzione compensatoria della rima nella poesia francese. Baudelaire, infatti, la coltivò con idolatria pari a quella dei suoi altri oggetti-culto, comprendendo che senza almeno quell’impatto, dinamico e salutare, i versi sillabici, pari ai vermi omonimi (vers/vers) e ai serpenti striscianti che popolano le visioni del malato d’angoscia, non facevano della poesia il riscatto etico dell’arte ma il simulacro estetico di una pigrizia morale. Michela Landi
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