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PETER DRONKE, Imagination in the Late Pagan and Early Christian World. The First Nine Centuries A.D., Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo 2003, pp. XIII + 261, s.i.p.

Pur vivendo in una società fortemente visuale, tendiamo oggi a privilegiare un rapporto con le immagini molto semplice e immediato, legato all’effimera occorrenza o al costituirsi di segni a scopo utilitaristico facilmente identificabili, e anch’essi di brevissima durata. La tarda antichità (III-VII sec. d.C.), una società basata sull’immagine in modo per certi aspetti simile al mondo odierno, aveva una concezione assai differente della funzione delle immagini: si era interessati soprattutto a vedere ciò che la vista fisica non può cogliere, a esercitare quello che veniva chiamato "occhio intellettuale". Non conosco formulazione più chiara ed efficace di due epigrammi di Agazia (lo storico ed epigrammista vissuto nell’età di Giustiniano e morto nel 582) che descrivono raffigurazioni dell’arcangelo Michele, conservati in due chiese di Costantinopoli (Antologia Palatina 1.34 e 1.36). Nel primo, A.P. 1.34, dopo aver osservato il paradosso della rappresentazione concreta di un’entità incorporea, il poeta suggerisce che la cosa non è fuori luogo "dato che l’uomo vedendo la figura, indirizza l’animo suo a superiori pensieri: cosicché non ha più egli incostante venerazione, ma in se stesso inscrivendo l’immagine ne ha timore come se fosse presente. Gli occhi stimolano l’anima, profondamente ché l’arte, con i suoi colori, sa condurre la preghiera dello spirito " (trad. G. Viansino)< a href="#1">1. L’immagine dell’arcangelo, dunque, non ha tanto valore in sé, ma deve essere osservata per la sua capacità di condurre l’anima alla contemplazione di una realtà superiore. Circa un secolo prima tale valore anagogico era stato esplicitamente dichiarato in un essenziale distico da Nilo Scolastico, Antologia Palatina 1.33: "audace dar forma a un essere incorporeo: ma l’immagine eleva al ricordo intellettivo delle cose celesti". La vista fisica è solo il primo momento di un processo intellettuale e metafisico: nella tarda antichità si assiste al fenomeno di un ampliarsi delle capacità descrittive delle opere d’arte, che corrisponde a un parallelo aumento di ‘astrattismo’ in esse. È un’epoca in cui erano di gran voga le ekphraseis, le descrizioni di monumenti, edifici, pitture, spesso opere in versi di grande raffinatezza, ma che descrivono la realtà fisica in termini ben diversi da come appariva: gli autori, e il loro pubblico, erano interessati non a ciò che si vedeva, ma a ciò che si non si vedeva, a una realtà superiore, percepibile non con le facoltà sensoriali, ma con quelle intellettive: con quella che in greco si chiama phantasia, la "capacità immaginativa".
Il nuovo libro di Peter Dronke, uno dei massimi mediolatinisti europei, è dedicato proprio allo studio delle concezioni tardoantiche e altomedievali delle immagini e dell’immaginazione, e ai suoi concreti riflessi nella poesia e nelle arti figurative. Il periodo preso in esame è quello che va dal I al IX sec. d.C., dalla scuola alessandrina (Filone, e poi Origene e Plotino) alla rinascenza carolingia e alla grandissima personalità filosofica, teologica (e poetica) di Giovanni Scoto Eriugena, la cui figura di unificatore di idee e immagini che traversano il mondo continentale e quello irlandese, il latino e il greco, il neoplatonismo e il cristianesimo (cfr. p. 232) è costantemente presente in tutto il volume. È difficile dare una definizione complessiva del genere di ricerca cui pertiene il lavoro di Dronke: iconologia, storia delle immagini, storia dell’estetica, letteratura comparata, storia della tradizione retorica, filosofia, storia dell’esegesi, sono tutte discipline che si armonizzano in modo mirabile in queste pagine, accompagnate da una profonda conoscenza della tradizione letteraria e della poesia tardoantica e medievale, anche nei suoi momenti più inaspettati. Se si vuole indicare un modello si può, a mio avviso, pensare solo alla Letteratura europea e il Medioevo Latino di Curtius, con cui del resto Dronke dialoga di continuo nel suo libro.
Al primo capitolo (pp. 5-24) è affidata la discussione sul concetto di immagine e di phantasia nel mondo greco-latino e nei suoi sviluppi tardoantichi. Nel percorso storiografico un punto centrale è occupato da Plotino, che nel III secolo elaborò una teoria della visione e della conoscenza artistica che sarà alla base delle nuove estetiche dell’arte tardoantica e medievale2. La mimesi artistica secondo Plotino è una "imitazione capace di cogliere come uno specchio il riflesso di una forma" (4.3.11), cioè deve cogliere non l’apparenza della materialità, ma l’essenza delle cose, che è quella parte di spirituale che le lega al Nous, al Primo Principio della vera realtà, che è solo spirituale. Quindi il mondo materiale può aiutare a cogliere l’Intelligibile, ma d’altra parte ha valore solo in quanto riflette questo intelligibile. Osservare un’opera d’arte significa dunque trascenderne la forma sensibile e coglierne invece la luce intellettuale. Le idee di Plotino sulla visione spirituale dell’arte erano state precedute da considerazioni di Filone sul valore trascendente delle immagini (phantasiai), di Longino sulla capacità dell’artista di vedere oltre il mondo sensibile (de subl. 35- 36) e soprattutto di Filostrato, vit. Apoll. 6.19, sulla phantasia come capacità creativa superiore, che permette all’artista di creare non imitando il mondo visibile, ma facendo riferimento alla vera realtà (e non vanno trascurate le idee sulle immagini visuali che possono raggiungere una realtà superiore, espresse da Cicerone, come ricorda Dronke sulla scia di Panofsky). Tuttavia Filostrato negava un punto chiave, cioè che anche immagini incongruenti possono esprimere la realtà trascendente: è il punto decisivo, il valore da dare alle immagini simboliche, su cui lavorerà la speculazione neoplatonica e che troverà negli scritti dello Pseudo Dionigi l’Areopagita (VI secolo), influenzati fortemente da Proclo, la sua formulazione più compiuta: di qui passerà al medioevo greco (meno studiato da Dronke) e a quello latino attraverso la traduzione e l’interpretazione di Eriugena. Gli angeli – dice lo Pseudo Dionigi –, in quanto immagini di Dio, permettono al divino di discendere nel mondo sensibile e alla mente umana di compiere il percorso trascendente, proprio riconoscendo e creando le immagini degli angeli (cfr. p. 18): è esattamente il concetto espresso negli epigrammi di Agazia sopra citati. Il valore anagogico delle immagini, la complementarietà di simboli appropriati e inappropriati, sono concetti dionisiani che vengono rielaborati nell’esegesi di Eriugena, che si caratterizza anche per la peculiare concezione di un processo immaginativo in cui il sacro e l’artistico procedono in armonia, a formare una theologia veluti quedam poetria.
Seguono cinque capitoli dedicati ad esplorare le modalità di riutilizzo e trasformazione di immagini e simboli del trascendente nelle arti figurative e soprattutto nella poesia tardoantica e altomedievale, nella produzione greca, latina, irlandese, siriaca. La ricchezza del mondo che Dronke dipana al lettore è stupefacente: si comincia con le immagini della danza nelle sue risonanze cosmiche e soteriologiche (quella dell’anima nel coro celeste, quella di Cristo che danza nella risalita al Cielo, quella del coro delle stelle che danza accogliendo il Salvatore), un capitolo che prende le mosse dalle ricorrenti figure di danzatrici dell’arte copta tardoantica e passa attraverso i neoplatonici, gli Inni di Sinesio (di cui in tutto il volume Dronke offre letture in filigrana spesso sorprendenti), Clemente Alessandrino, gli Atti di Giovanni (col bellissimo inno di Cristo che guida la danza degli apostoli), Gregorio di Nazianzo, Ambrogio, Proclo, Romano il Melodo, fino al IX secolo con i carmi di Notkero e il Cristo di Cynewulf (pp. 25-67). Segue poi un capitolo sul mare come immagine del cosmo e sulle rappresentazioni poetiche e figurative di Thalassa (pp. 70-100), un viaggio che comincia da Eriugena, costeggia Dante e poi ritorna in dilettosa navigazione a Sofocle, Seneca, e ancora a Clemente, Agostino, Ephrem siro, la poesia antico irlandese e quella anglosassone, e poi le ekphraseis protobizantine e un bel mosaico giordano. Il quarto capitolo (pp. 101- 145) è dedicato alla persistenza delle immagini di Afrodite ed Eros nell’arte (Dronke prende le mosse dal famoso quanto controverso cofanetto di Proiecta, in cui una sposa cristiana è celebrata con la toeletta di Afrodite) e nella letteratura, che si spiegano con la rilettura allegorica di tali figure (si pensi all’interpretazione origeniana dell’amato del Cantico come Cristo-logos, chiamato però Eros-Amor, e alla raffigurazione di Eros e Psiche in alcuni sarcofagi paleocristiani), che ne ha permesso la continua presenza nella tradizione degli epitalami cristiani (Sidonio Apollinare, Ennodio, Draconzio etc.); ad esse segue un suggestivo studio sulla persistenza dei motivi pagani nelle rappresentazioni letterarie del mito della fenice e nella sua interpretatio christiana di simbolo di Cristo e di uccello del paradiso, per finire con lo studio di alcuni precursori del viaggio al paradiso terrestre di Dante. Il quinto capitolo offre una panoramica di alcuni animali simbolici, dalle rappresentazioni dell’anima come uccello, al cigno (con l’analisi della bellissima Sequenza del cigno, ritmo latino del tardo IX sec.), la colomba e la tortora, l’aquila, il leopardo, le sirene, il cervo (pp. 148- 184): anche qui Dronke mette il lettore a contatto con un grandissimo numero di testi, alcuni dei quali assai poco noti al di fuori degli specialisti, come la versione latina dell’inno degli Atti di Tommaso o un brano del commento di Eriugena al prologo di Giovanni (stampato secondo la sua struttura di prosa poetica, pp. 167- 168), o il Salmo dei Naasseni (II secolo). Infine l’ultimo capitolo (pp. 185-228), come vorrebbe un percorso ascendente di tipo dionisiano, tratta delle immagini del Sole e della Luna, dell’interazione dell’imagerie pagana e cristiana relativa ai due astri, e delle rappresentazioni della divinità come fuoco e luce: anche qui non mancano le esplorazioni di testi pochissimo noti come gli Inni orfici, i papiri magici greci, gli Oracoli caldaici, e poi ancora Sinesio, Gregorio, Ambrogio, Prudenzio, ma anche Anastasio Sinaita, gli aenigmata anglosassoni.
Il lettore, anche non specialista, ma interessato alla poesia e alla storia delle immagini, troverà un libro di una ricchezza inesauribile, in cui sono coniugati senso storico e sensibilità letteraria, sostenuti per di più da una prosa vivace e assai perspicua e da un’esposizione simpatetica e affascinante3. Dal punto di vista metodologico l’aspetto forse più innovativo del lavoro di Dronke è la diversa considerazione della letteratura e delle immagini pagane e del loro rapporto con quelle cristiane: non viene riproposta la concezione di due poli irriducibili o di due momenti di un consequenziale processo storico di adattamento e di superamento, bensì la visione di un mondo di fecondi scambi e di mutue relazioni, che ha adottato linguaggi, riusato immagini e forme di pensiero, in un continuo movimento di ripensamento della tradizione, che ha portato infine a una compiuta ridefinizione del sistema concettuale e letterario. Un modo di approccio alla letteratura (e al mondo visuale) della tarda antichità e del medioevo che costituirà un imprescindibile punto di riferimento negli anni a venire.
Gianfranco Agosti

1 Agazia, Epigrammi, Milano 1967. Si veda E. Kitzinger, "DOP" 8, 1954, pp. 138-139; R. McCail, "Byzantion" 41, 1971, pp. 241-247 (è probabile che dietro il tono difensivo ci sia la polemica sulle rappresentazioni degli angeli).
2 Da ricordare il pionieristico A. Grabar, Plotin et les origines de l’esthétique médiévale, CA 1, 1945, pp. 15-34. Per lo "hidden meaning " si veda anche G. Mathew, Byzantine Aesthetics, New York 1971 (1964), pp. 38-47; e inoltre M. Cagiano de Azevedo, L’eredità dell’antico nell’alto medioevo, in IX settimana di studio del Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1962, pp. 466-474.
3 Impossibile qui enumerare tutti i singoli contributi critici a questioni spesso assai discusse: ricordo però almeno le poche ma ficcanti osservazioni sulla profonda religiosità che traspare dal carme De Salvatore di Claudiano (p. 126), o l’identificazione palmare della figura di Melchisedek in un affresco da poco scoperto, che getta nuova luce sulla diffusione dell’apocrifo 2Enoch nell’Occidente medievale (pp. 142-145).

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