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POESIA CLASSICA E MEDIEVALE
a cura di Gianfranco Agosti e Francesco Stella

La veglia di Venere. Pervigilium Veneris, introduzione, traduzione e note di ANDREA CUCCHIARELLI (BUR Classici Greci e Latini), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2003, pp. 167, € 10,00. Una festa notturna primaverile in onore di Venere, celebrata ad Ibla in Sicilia, costituisce lo spunto di questo componimento di 93 versi, articolati in dieci strofe di disuguale lunghezza, che descrivono le manifestazioni della potenza della dea, simbolo della forza generatrice che in primavera spinge il cosmo alla riproduzione e al rinnovamento. Tramandatoci anonimo in quell’ampia silloge poetica composta in ambiente africano intorno al VI sec., che va sotto il nome di Anthologia Latina, il Pervigilium Veneris (= PV) costituisce di tale raccolta il brano forse più famoso. Dietro il tono volutamente ‘popolare’ conferito da un’apparente facilità di scrittura, dall’adozione di un metro quale il tetrametro trocaico catalettico (il versus quadratus dei carmi trionfali) e dalla scansione strofica con ritornello (cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet), vi si cela una poesia raffinata e complessa, di un fascino particolarissimo, che ha assicurato al poemetto fortuna autonoma e costante a partire dalla sua riscoperta in ambito umanistico. Con questa nuova edizione Andrea Cucchiarelli (= C.) consegna al XXI secolo la meritata fama di un componimento più volte pubblicato, tradotto e commentato nel corso del secolo appena trascorso (l’ultima precedente edizione è quella a cura di C. Formicola, Napoli 1998), ma ci offre insieme qualcosa di nuovo: la non facile ed assai pregevole capacità di conciliare un’interpretazione filologico-letteraria di serio livello scientifico con l’agilità e la chiarezza di una presentazione che si rivolge – com’è nella tradizione della collana – a un più vasto pubblico di lettori, cui restano tuttora largamente ignoti i prodotti poetici della tarda antichità1. Il bel saggio introduttivo (La dea, il poeta, la città muta, pp. 7-17) pone subito in primo piano il paradosso e l’affascinante ambiguità del PV: "Il carme di Venere si chiude con un improvviso cambio di rotta. Alla iterata felicità del domani (cras), alla forza della dea che sommuove e vivifica, segue, assolutamente inattesa, la dimensione personale della solitudine e del dolore... Sembra che l’innestarsi della individualità, su di una fantasia corale di vergini e ninfe, abbia dovuto accendere una incontenibile forza distruttiva " (p. 7). Ciò che, infatti, ha più colpito e colpisce nel componimento è questa singolare escursione dalla gioia per la rinascita del cosmo, pervaso in primavera dalla potenza di Venere, dalla felicità che appartiene al domani (e agli ‘altri’), al sentimento del dolore individuale del poeta, che appartiene all’oggi, espresso nell’enigmatica chiusa: Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum? / Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam? / Perdidi Musam tacendo nec me Phoebus respicit (vv. 89-91). A chiarire questa "irruzione disvelante dell’io" (p. 15) e la costruzione dell’intero componimento come "una specie di trappola emotiva" (p. 7), concorrono i diversi aspetti esaminati da C.: la ‘poetica dell’immedesimazione’, che sfrutta le diverse suggestioni poetiche (ma anche mitologiche, filosofiche, storiche) come mezzi di coinvolgimento emotivo, in una costante tensione tra tradizione e ricerca sperimentale, che rende difficile l’appartenenza del PV a un genere definito (epitalamio, inno?); il contesto culturale da cui nasce e il pubblico cui si rivolge il PV (si parla di ‘marginalità’, pensando all’Africa del IV sec.); la dialettica tra ‘disordine’, su cui poneva fortemente l’accento Marchesi (vd. p. 54), e la ricerca di equilibrio. Aspetti, la cui definizione è resa ardua dal complesso problema di datazione – e, in subordine, di attribuzione – che viene ampiamente discusso nella Premessa al testo (pp. 19-49), insieme alle caratteristiche linguistiche, stilistiche, metriche e di struttura del componimento, alla presenza in esso di modelli poetici e filosofici, da cui non si può ovviamente prescindere anche ai fini della collocazione cronologica del testo, errabondo tra II e V secolo d.C. (senza dimenticare l’attribuzione a Catullo da parte dei primi scopritori). Completano la Premessa i capitoli che informano sull’occasione – la festa in onore di Venere -, sulla tradizione manoscritta e sul Fortleben del carme. Secondo l’uso della collana, la parte introduttiva si conclude con una Breve antologia della critica (con contributi che vanno da Voltaire al 1998) e una ricca e aggiornata Bibliografia (pp. 51-72). Per quanto riguarda la datazione, C. si focalizza su due secoli, il II e il IV, che si presentano come il contesto culturalmente più adatto alla collocazione del PV. La preferenza accordata al IV secolo – senza tuttavia spingersi ad accogliere la proposta, pur autorevole e per alcuni risolutiva, di identificare l’autore in Tiberiano – è in linea con la tendenza predominante della critica odierna, che vede nell’impiego del tetrametro trocaico (adottato proprio in questo periodo in composizioni di maggior impegno), negli elementi linguistici tardi, nell’interesse per la poesia argentea (si riscontrano riecheggiamenti di Calpurnio Siculo e Stazio) elementi decisivi per una datazione tarda. A mio avviso, comunque, la questione è tutt’altro che chiusa e proprio le interessanti osservazioni sull’intenzionalità e sul significato stilistico dell’uso di de + abl. – un vero e proprio ‘stilema’ per ottenere effetti di immediatezza e spontaneità, corrispondenti alla forma non-classica del tetrametro (p. 27 ss.) – sottolineano quella tendenza a uno sperimentalismo metrico-linguistico, che trova ampio e convincente riscontro nei poetae novelli: al preziosismo lessicale, che annovera grecismi, termini rari, tecnicismi filosofici (della dottrina stoico-pneumatistica), si associa la ricercata esibizione di modi popolareschi nel lessico, nella sintassi e nel metro; il trattamento del tetrametro trocaico lascia sempre percepire l’autonomia ritmica dei due emistichi, scomponendo il verso lungo in due versiculi (vd. Sept. Ser. fr. 6), e d’altra parte tende a non far coincidere l’accento ritmico con quello di parola (come invece è nell’Amnis di Tiberiano); tra i modelli fondamentali troviamo, accanto a Virgilio e Lucrezio, Catullo, presente sia nella dimensione oggettiva dell’epitalamio, da cui è ripreso tra l’altro l’uso del ritornello, che in quella soggettiva del poeta d’amore escluso dall’amore. Anche l’emergere malinconico e sentimentale dell’‘io’ nella chiusa potrebbe trovare significativo riscontro nell’analoga sensibilità espressa da Adriano nell’apostrofe alla propria animula; e la destinazione del carme – che difficilmente poteva essere riservato a una esecuzione collettivo-liturgica, vista la chiusa personale (giustamente C. pensa piuttosto a una lettura pubblica per un uditorio scelto, p. 41 s.) – presuppone comunque un pubblico amante di quei festival e riti religiosi campestri che fanno da scenario alle figure e ai versi un Anniano o di un Sereno. Dunque, la consonanza con la poesia novella è tale che, anche ammettendo una cronologia più tarda, si dovrebbe considerare il PV come prova d’un postumo e perdurante influsso del novellismo2 (d’altra parte per Settimio Sereno e Avito non sono mancate ipotesi di datazione al IIIII secolo e proprio il confronto con i tetrametri trocaici dell’Amnis di Tiberiano porta a considerare il PV precedente a questo autore).
Il testo seguito da C. è quello di Shackleton Bailey (Stutgardiae 1982), da cui tuttavia si discosta in nove casi (vd. Tavola comparativa, p. 73) con scelte oculate e tendenzialmente conservatrici, ampiamente argomentate nel ricco commento che occupa quasi metà dell’intero volume (pp. 87-151) e costituisce una novità per la collana, finora caratterizzata da brevi note a pie’ di pagina del testo. Giustamente al v. 11 – uno dei luoghi più problematici dell’intero carme – C. rinuncia al pesante intervento de marinis fluctibus, optando con i più per il lieve ritocco de marinis imbribus del tràdito e fortemente sospetto de maritis imbribus (già incontrato al v. 4), per quanto marinis del Rivinus non sia del tutto esente dal sospetto di congettura normalizzante con ripresa appena variata, e perciò poeticamente non molto efficace, rispetto alla clausola del v. 4. Al testo tràdito si torna anche con floribus del v. 13, dopo il largo consenso decretato dagli editori alla congettura del Rigler floridis (da riferirsi a gemmis), interpretato sulla scia di Bernardi Perini come concettosa distinzione tra l’imporporarsi delle gemme e l’azione di Venere che le fa sbocciare in fiori (vd. trad. "Essa l’anno, che si imporpora di gemme, colora di fiori"): valide le argomentazioni a sostegno della scelta (vd. p. 101), anche se in favore di floridis resta molto forte e attraente il confronto con Apul. met. 10.29.2 ver... iam gemmulis floridis cuncta depingeret et iam purpureo nitore prata vestiret. Diversamente da Shackleton Bailey che espunge il verso 58 senza rinunciare alla correzione recentibus, metodologicamente corretto è il mantenimento del tràdito rigentibus(del resto suffragato dal confronto con Tiberian. carm. 1.11) in un verso che è verosimilmente privo del suo contesto originale, se, sulla base delle convincenti considerazioni strutturali addotte da C. (p. 125 s.), si opta per l’ipotesi della lacuna. D’accordo invece con Shackleton Bailey, C. accoglie nel tormentatissimo v. 74 della strofe storica la brillante congettura di Cameron parem, per il quale è facile supporre una precoce corruzione in patrem, da cui l’incomprensibile matrem dei codici.
La traduzione riproduce con versi liberi i versi dell’originale, cercando di rispettare la pressoché costante coincidenza ‘frase-verso’, nonché di rendere il singolare impasto di livelli dotti e popolareschi. Particolare attenzione è rivolta alla resa dell’esibito ‘popolarismo’ del ritmo con le sue ripetizioni e il gioco delle anafore: vd. e.g. "Domani ami chi mai ha amato, e chi ha amato domani ami. Nuova primavera, è primavera ormai di canti: in primavera il mondo nacque, / in primavera concordano gli amori, in primavera si sposano gli uccelli / e la selva scioglie la chioma alle feconde piogge." (vv. 1-4); "gli è stato comandato di andare inerme, di andare spoglio gli è stato comandato" (v. 32, più efficace di traduzioni più sintetiche come quella e.g. di Carbonetto "gli è stato ordinato di andare inerme / di andare nudo"). Particolarmente elegante la resa del non facile v. 18: "precipite la stilla si trattiene dal cadere, piccolo cerchio", dove lo spostamento in fine di verso, dopo la pausa, dà forza al nesso orbe parvo. Al v. 89 la forte contrapposizione tra la gioia che precede e la malinconica chiusa è sottolineata eliminando il verbo nelle due proposizioni che riguardano la sfera individuale del poeta: "lei canta, a noi il silenzio: a quando la mia primavera?". Difficilissima la resa della strofa filosofica, dove si apprezza soprattutto il tentativo di tradurre con precisione non priva di eleganza la terminologia stoica: "La stessa dea le vene e la mente con pervasivo spirito / dall’interno governa, procreatrice dalle occulte forze. / ... infiltra la sua forza penetrante, nei sentieri generativi, / e così volle che il mondo imparasse le vie del nascere" (vv. 63-67). Completa il volume un’appendice che raccoglie importanti componimenti tardoantichi sulla rosa, per lo più anonimi e tutti provenienti dall’Anthologia Latina, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano. "Le poesie della rosa" (testo e traduzione, senza commento, pp. 155-165) si collegano da un lato alla terza strofa del PV, dedicata appunto al fiore di Venere, dall’altro ci mostrano la diffusione di questo tema che, particolarmente suggestivo e ricco di implicazioni simboliche, dall’epoca tardoantica passerà nella letteratura europea di tutti i tempi: fortuna e vitalità di un motivo che i due esergo di Lorenzo de’ Medici e di Pasolini ben sintetizzano (p. 155). I componimenti insistono soprattutto sull’origine e la caducità della rosa, come simbolo della brevità della vita e soprattutto della bellezza; tuttavia, non mancano riscontri sull’attraente ambiguità ‘rosa-fanciulla’ che è centrale nella suddetta strofa del PV, dove attraverso una ricercata insistenza di allusioni erotiche, la rosa ritrova il significato simbolico di flos virginitatis, che è motivo epitalamico di ascendenza catulliana (cfr. comm. p. 100 con rinvio a Catull. 62.39-47).
Concludendo, l’edizione di C. è un lavoro completo che, senza mai rinunciare a un notevole rigore scientifico, rende fruibile a un pubblico di lettori colti – ma non necessariamente filologi classici – un testo fondamentale della poesia latina tarda, affrontando da un lato con chiarezza espositiva e ottime capacità di sintesi spinosi problemi testuali ed esegetici, dall’altro offrendo una interpretazione personale e un’ampia inquadratura storico-letteraria del carme. Sicuramente un’edizione che può piacere grammaticis... ut sine grammaticis.
Silvia Mattiacci

1 Tra i tentativi di divulgazione della poesia tardo-antica, si ricordi il volumetto Poeti latini della decadenza, a cura di C. Carena, Torino 1988, un’antologia che va dall’imperatore Adriano a Draconzio e comprende (ma solo in forma parziale) anche il PV. 2 Così G. Bernardi Perini, Il Mincio in Arcadia. Scritti di filologia e letteratura latina, a cura di A. Cavarzere e E. Pianezzola, Bologna 2001, p. 364. Lo studioso, che ha dedicato al PV diversi contributi ora raccolti nel suddetto volume, riconosce nel poemetto una forte componente stoica e pneumatistica, difficilmente pensabile oltre il II secolo, cioè in tempi di dominio neoplatonico (vd. in partic. p. 381 ss.).



Nonno di Panopoli, Le Dionisiache. Volume I (canti I-XII), introduzione, traduzione e commento di D. GIGLI PICCARDI (BUR Classici greci e latini, L 1472), Milano, Rizzoli 2003, pp. 882,€ 20,00.
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache. Volume II (canti XIII-XXIV), introduzione, traduzione e commento di F. GONNELLI (BUR Classici greci e latini, L 1473), Milano, Rizzoli 2003, pp. 632, € 18,00.
Il monumentale poema di Nonno di Panopoli sulle gesta di Dioniso, testimonianza importantissima della cultura letteraria e della temperie filosofica e religiosa del V secolo d.C., era rimasto fino a pochi anni fa sostanzialmente precluso al pubblico dei non specialisti. In Italia, un primo e benemerito tentativo di rompere il ghiaccio è stata in anni recenti la traduzione italiana di Maria Maletta, con la supervisione di D. Del Corno e le utili note di F. Tissoni, finora fermatasi al canto 24. Ma un’opera come questa, che tende a scoraggiare il lettore medio tanto per la sua mole (48 canti, per un totale di più di 20.000 versi) quanto per la sua innegabile prolissità (la constatazione che solo col canto 9 si arriva alla nascita di Dioniso, dopo ben otto canti di antefatto, parla da sola), ha forse bisogno di essere proposta con un corredo più ricco: un apparato esegetico decisamente ampio, corpose introduzioni capaci di porre nella giusta prospettiva storica le caratteristiche della poesia nonniana più estranee al gusto odierno e tuttavia più utili alla comprensione della poetica tardoantica, e magari il testo greco a fronte. Chi desiderava tutto questo non aveva finora altra scelta che rivolgersi all’edizione diretta da F. Vian per le Belles Lettres – di meno agevole fruizione per il lettore non specialista e non francofono, oltre che caratterizzata da un costo proibitivo. Adesso l’edizione BUR, curata da quattro tra i migliori specialisti italiani di Nonno (ai due volumi sinora apparsi, che coprono metà del poema, faranno presto seguito i volumi III e IV ad opera rispettivamente di G. Agosti e di D. Accorinti), risponde in pieno alle esigenze suddette. Ciascuno dei due tomi si apre con un’introduzione generale ampia e approfondita: Daria Gigli Piccardi si occupa della poesia tardoantica e del suo rinnovato approccio alla tradizione epica, dei pochi e problematici dati biografici relativi a Nonno, della compresenza nella sua opera di elementi pagani e cristiani, del significato del Dioniso nonniano come figura salvifica; Fabrizio Gonnelli traccia la storia della fortuna delle Dionisiache, prima a Bisanzio e poi nel Rinascimento e nell’età moderna fino a Kavafis e a Calasso. A ciascuno dei nuclei tematici del poema, generalmente costituiti da uno o due canti, è poi dedicata una introduzione specifica. Assai ricche le note (tendenzialmente più ampie quelle del primo volume), che illustrano adeguatamente il testo nonniano nei suoi aspetti letterari, storico-culturali e filosofico- religiosi senza rifiutarsi di affrontare, ove necessario, problemi di critica testuale con adeguata brevità e chiarezza; c’è molto di prezioso non solo per il lettore colto, ma anche per lo studioso di professione. Utile l’accorgimento, adottato nel primo volume, di contraddistinguere con un asterisco i passi in cui la traduzione italiana si discosta dal testo greco dell’edizione francese riprodotto a fronte. Tradurre Nonno è impresa non facile, e tuttavia i due curatori di questa prima metà del poema dionisiaco l’hanno assolta con grande efficacia. La caratteristica che più immediatamente salta agli occhi è l’accortezza con cui entrambi hanno saputo interpretare il lussureggiante stile aggettivale del poema, evitando i cumuli di epiteti e trasformando gli aggettivi ‘narrativi’ nella funzione sintattica che essi erano destinati ad assolvere. Ma altrettanto importante è la duttilità con cui essi sono riusciti a riprodurre la costante alternanza di registri stilistici delle Dionisiache – maggiore di quanto l’apparente omogeneità linguistica possa suggerire ad un primo approccio –, dal solenne (cfr. Gonnelli in 22.392-396: "O parente delle Naiadi, tu che hai sangue disceso da Zeus, / abbi rispetto dell’acqua santa che da Zeus è scesa. / Di Indiani la tua lancia ne ha uccisi a sufficienza: smetti / di far piangere le ninfe Naiadi che di pianto non sanno; / Naiade dell’acque fu anche tua madre") al sarcastico (cfr. Gigli Piccardi in 2.565-566: "Un bel difensore davvero ha trovato il vecchio Crono, o Tifeo; / si è data un bel da fare la Terra a generare un figlio dopo la guerra di Giapeto"), dal barocco (Gonnelli in 18.250-256: "ma dal petto fino alla piega delle cosce / la sua enorme forma ibrida si induriva in scaglie di mostro / abissale; mentre le unghie delle innumeri mani / erano ricurve in forma di falci rapaci. / E dalla cima del collo, su e giù per il dorso spaventoso, / uno scorpione, la coda incombente sul collo, svariava / ruotando su se stesso, armato dell’acuto pungolo di grandine") a una pur infrequente scrittura più rarefatta che si sarebbe tentati di definire lirica (Gigli Piccardi in 1.140-145: "all’epoca in cui i monti / vagavano battendo alle porte dell’Olimpo indistruttibile, / allorché gli dei alati sul Nilo tranquillo / volavano alto, a imitazione degli uccelli irraggiungibili, / con un remeggio d’ali nel vento a cui non erano abituati / e la volta celeste ne era come percossa nelle sue sette zone"). In definitiva, due volumi che coniugano nella forma migliore alta divulgazione e Altertumswissenschaft. Si attende con sincera impazienza il completamento dell’opera.
Enrico Magnelli

Ruodlieb con gli epigrammi del Codex Latinus Monacensis 19486. La formazione e le avventure del primo eroe cortese, a cura di ROBERTO GAMBERINI, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo 2003, pp. LXXX-202, s.i.p.
In un vecchio numero di "Semicerchio" (VIII del 1992, p. 4) un distico del Ruodlieb era citato, forse per la prima volta in una rivista italiana di poesia, all’interno di un’esplorazione dedicata alla ‘poesia del ritorno’. In effetti questo poema, composto nell’XI secolo e abitualmente presentato come il primo esempio di romanzo cortese, è in qualche modo anche una nuova narrazione del nostos eroico: ambientato in contesto germanico medievale anziché in ambito greco arcaico, narra comunque le avventure di un cavaliere che, partito dalla patria per superare inimicizie e ostilità, dopo aver servito un re africano per dieci anni intraprende la strada del ritorno, richiamato in patria da due lettere che gli comunicano la scomparsa di tutti i suoi nemici e il desiderio della madre di rivederlo. Il re africano lo congeda con dodici consigli di saggezza, che prefigurano altrettanti episodi della trama a venire. E la strada del rientro è lastricata di avventure: l’incontro con un malvivente dai capelli rossi che rimane implicato nella seduzione di una donna sposata; il salvataggio del nipote, che lo accompagnava, dagli adescamenti di una prostituta; un pranzo di corte nel castello dove Ruodlieb si esibirà all’arpa e il nipote conoscerà sua moglie, e infine il ritorno a casa, accolto con il massimo onore, l’apertura dei doni munifici che il re africano aveva affidato all’eroe, le nozze del nipote, il consiglio di famiglia per la scelta di una moglie adatta a Ruodlieb, una prima scelta sfortunata con una donna di costumi impuri, e il sogno della madre che prefigura i successivi sviluppi. Di quel che segue resta solo un frammento di pochi versi che racconta come l’eroe catturi un nano che gli promette di svelare il modo per conquistare il tesoro di una coppia regale e sposarne la bellissima figlia Heriburg.
È probabile che il destino si realizzasse secondo questa linea, ma non abbiamo un testo che ce lo confermi: tutto quel che possiamo leggere, infatti, 18 frammenti di lunghezza variabile dai 3 ai 621 versi, è stato trovato fra 1803 e 1807 da Bernhard Joseph Docen, bibliotecario dell’attuale Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, nei frustuli di pergamena usati per la rilegatura di un codice. Il suo successore Schmeller ne concluse solo nel 1838 la prima edizione, successivamente arricchita dalla scoperta di altri piccoli frammenti, e da allora il poema ha attirato l’attenzione di una serie estremamente nutrita di studiosi e filologi, tanto che solo nel Novecento ne sono state pubblicate 8 edizioni critiche: una situazione assolutamente inconsueta nella filologia mediolatina ma giustificata dall’enorme interesse letterario, folklorico, linguistico e storicoculturale del poema, oltre che dalla necessità di confrontare più soluzioni per arrivare alla migliore edizione di un testo così straziato dalla tradizione manoscritta, che non solo ha perduto intere parti dell’opera ma ha lasciato molti suoi versi incompleti e mutili.
Il Ruodlieb, che diversi ordini di prove conducono a collocare fra la metà e la fine dell’XI secolo in ambito bavarese (forse nel monastero di Tegernsee) è stato definito come la più antica attestazione di poema eroico cortese, largamente anteriore ai primi romanzi francesi e a quelli mediotedeschi, e per questa sua posizione di sorgività originaria, ma anche per la caleidoscopica ricchezza di situazioni e colori, ha meritato finora più di una traduzione in tedesco, inglese e spagnolo. Questa di Roberto Gamberini è invece la prima versione italiana, e contribuirà in maniera che ci auguriamo importante alla conoscenza di quest’opera nella cultura italiana, anche filologica. È una traduzione limpida e agile, affidabile e leggibile. Scegliendo la prosa, evita i rischi e l’ambizione di una resa "paritaria" con la vivacità fonetica dell’originale – scritto in esametri leonini, cioè con rima interna, piuttosto pesanti e grossolani ma, appunto, rimati: il che significa che il poeta ha dedicato una parte significativa del suo lavoro a individuare le parole in ragione del loro suono oltre che del loro significato, e la prosa non può che rinunciare a valorizzare questo aspetto strutturale del testo. Ma grazie alla libertà che questa scelta gli conquista il traduttore riesce a mantenere costantemente una correttezza esemplare e a reggere un registro narrativo avvincente anche nella frammentarietà, permettendosi di sciogliere spesso con leggerezza nodi semantici di non facile interpretazione: come a V 195, qui veluti glandes semper flant regis ad aures, relativo ai troppi consigli che i cortigiani sussurravano al re, tradotto "come ghiande", dove la pioggia serve a far capire il senso del misterioso glandes, finora variamente interpretato e da Gamberini finalmente svelato, su consiglio di P. G. Schmidt, come allusione a Georgiche IV 81 nec de concussa pluit ilice glandis.
L’introduzione costituisce una summa preziosa al vario sapere che su questo poema, negli ultimi decenni soprattutto da Benedikt Konrad Vollmann, è stato accumulato ma certamente poco frequentato dai lettori italiani. Riferisce con rapidità ma anche con accuratezza sia sugli aspetti filologici e linguistici sia sui problemi storico- letterari suscitati dal testo: dalla tipologia di cavaliere (ormai profondamente intriso di tratti morali più che guerrieri e cristianizzato non solo nella forma ma anche nell’ideologia, eppure non ancora impregnato degli elementi mistici che si imporranno in alcuni sviluppi romanzi), al ruolo del rex maior fino alle ipotesi sull’autore, che vengono presentate con prudenza e completezza senza avventurarsi in soluzioni ulteriori.
Una lettura anche non erudita fornisce infatti sollecitazioni continue alla memoria letteraria, sia per analogia sia per anomalia: come le scena di pesca e di caccia (fr. 10 e 3) con un’erba allucinogena (la buglossa); le scommesse al gioco con gli scacchi (fr. 4); la celebrazione della messa da campo nel fr. 5 e il sontuoso elenco di donativi regii; la curiosissima descrizione del procedimento con cui dall’urina di lince si ricava una gemma misteriosa, il fulgido ligurio; le descrizioni di smalto e oreficeria come la fibbia cesellata della spilla che chiude la camicia femminile a 5, 357 per evitare che si vedano i seni, nel caso siano maiuscula; i 12 precetti del re, vera e propria summa di prudenza contadina e morale cavalleresca; la scena della seduzione della giovane moglie del suo ospite da parte del perfido Rosso (non nominato, come molti personaggi tipizzati di questo romanzo), degna di una commedia, l’assassinio del marito da parte dei due amanti e l’atroce autocondanna della donna, scoperta e perdonata con un passaggio culturale fulmineo ma significativo dal teorico rigore altomedievale alla clemenza cortese: un mondo di cui si godono scorci coloriti nel pranzo al castello del fr. 10 o nella descrizione della castellana di 10, 55 ss. (que dum procedit, ceu lucida luna reluxit etc.), che avrebbe consentito una versione in versi neostilnovistici, e che Gamberini affronta comunque con eleganza: "Quando ella comparve, risplendeva radiosa come la luna. Nessuno, per quanto valente fosse, avrebbe potuto riconoscere se stesse volando o fluttuando o se stesse muovendosi in qualsivoglia altro modo, tanto languidamente, infatti, muoveva il passo al suo incedere"; la scena leggiadra della voliera e della maestra degli uccelli nel fr. 11; il tenerissimo quadro del servitore che aspetta Ruodlieb appostato da vedetta sui rami di un ciliegio, affidando a una taccola parlante gli aggiornamenti per la regina (fr. 12); le nozze (fr. 14) del nipote di Ruodlieb con la figlia della castellana (altri due personaggi senza nome ma con personalità fortissima), segnate dal rituale misterioso dell’affilamento della spada e dal discorso inaspettatamente sfrontato della fidanzata, che rivendica con vigore una parità perfetta di diritti e di posizione ("voglio che mi serva notte e giorno con abnegazione: tanto meglio lo farà, tanto più mi sarà caro... vorresti che io fossi la tua meretrice? ... frequenta pure tutti i bordelli che vuoi, ma senza di me! Ci sono tanti uomini al mondo...); o ancora la descrizione dell’uomo e della donna invecchiati, di un realismo impietoso e maturo accanito nei dettagli ma privo di sgradevolezze nella sua retorica umanità (fr. 16); la scena magistrale (fr. 17) dello smascheramento della tresca fra la prima candidata moglie di Ruodlieb e un prete, fra l’imbarazzo e lo sdegno, e il successivo sogno della madre, che anticipa la narrazione futura secondo un modello che, per limitarci anche solo al mondo francogermanico dell’epoca, ci sembra riscontrabile anche nel Waltharius (Hagen) e nell’Ecbasis captivi (il lupo), nell’Edda (Brunilde e Atli) e nei Geste des Normans di Wace (madre di Guglielmo il Conquistatore). Ma tutta l’opera è ricca di elementi degni del massimo interesse sia nel confronto con altre testimonianze folkloriche (studiate in particolare da Seiler e Fowkes) sia con altra documentazione letteraria coeva e successiva (studiata da Panzer, Godman, Haug e dallo stesso Gamberini, tanto che su questo piano i succosi rimandi asciuttamente concentrati nella nota 160 p. XLVIII avrebbero meritato l’espansione in un vero e proprio capitolo). La stessa ripresa di espressioni metriche sembra seguire una tecnica formulare che la apparenta alle meccaniche tipiche dell’epos di tradizione semiorale e alle sue riprese colte da Omero in poi, ma in questo caso è articolata spesso in tonalità ironiche e ludiche che erano del tutto estranee all’epica classica e che saranno invece tipiche, anche se in misure variabili, del mondo medievale.
Anche sul piano strettamente filologico il Ruodlieb è una palestra insostituibile perché, nella necessità di integrare il testo perduto nei margini erosi o tagliati della pergamena, ha consentito a schiere di editori una serie di interventi diagnostici e terapeutici che Gamberini riporta utilmente in apparato, scegliendo poi di solito la soluzione dell’ultimo e migliore editore, cioè Vollmann. Ma molto lavoro sarebbe ancora possibile immaginare anche nella produzione o nell’espansione di un apparato di loci similes: Gamberini, sulla scorta dei precedenti editori e di ricerche personali, propone già qualche prezioso rinvio nel succinto corredo di Note che chiude l’edizione (precedendo quella degli 11 epigrammi trovati nello stesso codice monacense). Su questa solida base si potrà costruire un vero e proprio commento, che ci auguriamo sia nei programmi dello stesso Gamberini o di suoi emuli: per suggerire solo qualche direzione di ricerca, a 5, 61 veluti bellare paratum si cita Waltharius 1282 pedites bellare parati, ma in altra sede sarebbe utile ricostruire l’anamnesi completa della formula risalendo a Stazio Theb. 7, 321, Corippo Ioh. 3, 124 e Anthologia Latina 3, 134; oppure a 5, 70, ove per il termine compatres, che darà "compari" ma non ha molte attestazioni latine precedenti se non in documenti conciliari, si potrebbero citare i Quirinalia di Metello (48, 13 e 48, 11), proprio un testo di quel monastero di Tegernsee da cui si ipotizza che il Ruodlieb provenga. Numerose sono le curiosità che il poema suscita anche sul piano linguistico, vero coacervo di germanismi e grecismi, volgarismi e cultismi, deposito di un latino tanto vivace quanto eterogeneo, irriducibile alla facile gabbia di una costellazione privilegiata di modelli. Su questi fronti molto è stato già esplorato da Vollmann e predecessori, ma ancora di più credo che si possa fare oggi con il sostegno dei nuovi repertori elettronici, che condurrebbero sicuramente a confronti inediti o localizzazioni di focolai culturali fondate su materiali più solidi dei reperti occasionali di una volta; qualche sopresa potrebbe venire forse anche dalla consultazione della schedatura del Mittellateinisches Worterbuch, inedita per tutto ciò che riguarda le lettere E-Z ma consultabile su richiesta nella sede di Monaco. Potranno sembrare itinerari di erudizione, ma dinanzi alla ricchezza di esche offerte da questo romanzo ricerche del genere diventerebbero vere e proprie esplorazioni dei misteriosi laboratori nei quali si consuma la misconosciuta creatività linguistica del medioevo centrale: su questa pista il Ruodlieb è suscettibile di fornire altre sorprese ai cultori della letteratura mediolatina, come – ora che finalmente si può apprezzare in italiano – è suscettibile di rilanciare sollecitazioni ai conoscitori di altre letterature medievali e moderne.
Francesco Stella

PETER DRONKE, Imagination in the Late Pagan and Early Christian World. The First Nine Centuries A.D., Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo 2003, pp. XIII + 261, s.i.p.

Pur vivendo in una società fortemente visuale, tendiamo oggi a privilegiare un rapporto con le immagini molto semplice e immediato, legato all’effimera occorrenza o al costituirsi di segni a scopo utilitaristico facilmente identificabili, e anch’essi di brevissima durata. La tarda antichità (III-VII sec. d.C.), una società basata sull’immagine in modo per certi aspetti simile al mondo odierno, aveva una concezione assai differente della funzione delle immagini: si era interessati soprattutto a vedere ciò che la vista fisica non può cogliere, a esercitare quello che veniva chiamato "occhio intellettuale". Non conosco formulazione più chiara ed efficace di due epigrammi di Agazia (lo storico ed epigrammista vissuto nell’età di Giustiniano e morto nel 582) che descrivono raffigurazioni dell’arcangelo Michele, conservati in due chiese di Costantinopoli (Antologia Palatina 1.34 e 1.36). Nel primo, A.P. 1.34, dopo aver osservato il paradosso della rappresentazione concreta di un’entità incorporea, il poeta suggerisce che la cosa non è fuori luogo "dato che l’uomo vedendo la figura, indirizza l’animo suo a superiori pensieri: cosicché non ha più egli incostante venerazione, ma in se stesso inscrivendo l’immagine ne ha timore come se fosse presente. Gli occhi stimolano l’anima, profondamente ché l’arte, con i suoi colori, sa condurre la preghiera dello spirito " (trad. G. Viansino)< a href="#1">1. L’immagine dell’arcangelo, dunque, non ha tanto valore in sé, ma deve essere osservata per la sua capacità di condurre l’anima alla contemplazione di una realtà superiore. Circa un secolo prima tale valore anagogico era stato esplicitamente dichiarato in un essenziale distico da Nilo Scolastico, Antologia Palatina 1.33: "audace dar forma a un essere incorporeo: ma l’immagine eleva al ricordo intellettivo delle cose celesti". La vista fisica è solo il primo momento di un processo intellettuale e metafisico: nella tarda antichità si assiste al fenomeno di un ampliarsi delle capacità descrittive delle opere d’arte, che corrisponde a un parallelo aumento di ‘astrattismo’ in esse. È un’epoca in cui erano di gran voga le ekphraseis, le descrizioni di monumenti, edifici, pitture, spesso opere in versi di grande raffinatezza, ma che descrivono la realtà fisica in termini ben diversi da come appariva: gli autori, e il loro pubblico, erano interessati non a ciò che si vedeva, ma a ciò che si non si vedeva, a una realtà superiore, percepibile non con le facoltà sensoriali, ma con quelle intellettive: con quella che in greco si chiama phantasia, la "capacità immaginativa".
Il nuovo libro di Peter Dronke, uno dei massimi mediolatinisti europei, è dedicato proprio allo studio delle concezioni tardoantiche e altomedievali delle immagini e dell’immaginazione, e ai suoi concreti riflessi nella poesia e nelle arti figurative. Il periodo preso in esame è quello che va dal I al IX sec. d.C., dalla scuola alessandrina (Filone, e poi Origene e Plotino) alla rinascenza carolingia e alla grandissima personalità filosofica, teologica (e poetica) di Giovanni Scoto Eriugena, la cui figura di unificatore di idee e immagini che traversano il mondo continentale e quello irlandese, il latino e il greco, il neoplatonismo e il cristianesimo (cfr. p. 232) è costantemente presente in tutto il volume. È difficile dare una definizione complessiva del genere di ricerca cui pertiene il lavoro di Dronke: iconologia, storia delle immagini, storia dell’estetica, letteratura comparata, storia della tradizione retorica, filosofia, storia dell’esegesi, sono tutte discipline che si armonizzano in modo mirabile in queste pagine, accompagnate da una profonda conoscenza della tradizione letteraria e della poesia tardoantica e medievale, anche nei suoi momenti più inaspettati. Se si vuole indicare un modello si può, a mio avviso, pensare solo alla Letteratura europea e il Medioevo Latino di Curtius, con cui del resto Dronke dialoga di continuo nel suo libro.
Al primo capitolo (pp. 5-24) è affidata la discussione sul concetto di immagine e di phantasia nel mondo greco-latino e nei suoi sviluppi tardoantichi. Nel percorso storiografico un punto centrale è occupato da Plotino, che nel III secolo elaborò una teoria della visione e della conoscenza artistica che sarà alla base delle nuove estetiche dell’arte tardoantica e medievale2. La mimesi artistica secondo Plotino è una "imitazione capace di cogliere come uno specchio il riflesso di una forma" (4.3.11), cioè deve cogliere non l’apparenza della materialità, ma l’essenza delle cose, che è quella parte di spirituale che le lega al Nous, al Primo Principio della vera realtà, che è solo spirituale. Quindi il mondo materiale può aiutare a cogliere l’Intelligibile, ma d’altra parte ha valore solo in quanto riflette questo intelligibile. Osservare un’opera d’arte significa dunque trascenderne la forma sensibile e coglierne invece la luce intellettuale. Le idee di Plotino sulla visione spirituale dell’arte erano state precedute da considerazioni di Filone sul valore trascendente delle immagini (phantasiai), di Longino sulla capacità dell’artista di vedere oltre il mondo sensibile (de subl. 35- 36) e soprattutto di Filostrato, vit. Apoll. 6.19, sulla phantasia come capacità creativa superiore, che permette all’artista di creare non imitando il mondo visibile, ma facendo riferimento alla vera realtà (e non vanno trascurate le idee sulle immagini visuali che possono raggiungere una realtà superiore, espresse da Cicerone, come ricorda Dronke sulla scia di Panofsky). Tuttavia Filostrato negava un punto chiave, cioè che anche immagini incongruenti possono esprimere la realtà trascendente: è il punto decisivo, il valore da dare alle immagini simboliche, su cui lavorerà la speculazione neoplatonica e che troverà negli scritti dello Pseudo Dionigi l’Areopagita (VI secolo), influenzati fortemente da Proclo, la sua formulazione più compiuta: di qui passerà al medioevo greco (meno studiato da Dronke) e a quello latino attraverso la traduzione e l’interpretazione di Eriugena. Gli angeli – dice lo Pseudo Dionigi –, in quanto immagini di Dio, permettono al divino di discendere nel mondo sensibile e alla mente umana di compiere il percorso trascendente, proprio riconoscendo e creando le immagini degli angeli (cfr. p. 18): è esattamente il concetto espresso negli epigrammi di Agazia sopra citati. Il valore anagogico delle immagini, la complementarietà di simboli appropriati e inappropriati, sono concetti dionisiani che vengono rielaborati nell’esegesi di Eriugena, che si caratterizza anche per la peculiare concezione di un processo immaginativo in cui il sacro e l’artistico procedono in armonia, a formare una theologia veluti quedam poetria.
Seguono cinque capitoli dedicati ad esplorare le modalità di riutilizzo e trasformazione di immagini e simboli del trascendente nelle arti figurative e soprattutto nella poesia tardoantica e altomedievale, nella produzione greca, latina, irlandese, siriaca. La ricchezza del mondo che Dronke dipana al lettore è stupefacente: si comincia con le immagini della danza nelle sue risonanze cosmiche e soteriologiche (quella dell’anima nel coro celeste, quella di Cristo che danza nella risalita al Cielo, quella del coro delle stelle che danza accogliendo il Salvatore), un capitolo che prende le mosse dalle ricorrenti figure di danzatrici dell’arte copta tardoantica e passa attraverso i neoplatonici, gli Inni di Sinesio (di cui in tutto il volume Dronke offre letture in filigrana spesso sorprendenti), Clemente Alessandrino, gli Atti di Giovanni (col bellissimo inno di Cristo che guida la danza degli apostoli), Gregorio di Nazianzo, Ambrogio, Proclo, Romano il Melodo, fino al IX secolo con i carmi di Notkero e il Cristo di Cynewulf (pp. 25-67). Segue poi un capitolo sul mare come immagine del cosmo e sulle rappresentazioni poetiche e figurative di Thalassa (pp. 70-100), un viaggio che comincia da Eriugena, costeggia Dante e poi ritorna in dilettosa navigazione a Sofocle, Seneca, e ancora a Clemente, Agostino, Ephrem siro, la poesia antico irlandese e quella anglosassone, e poi le ekphraseis protobizantine e un bel mosaico giordano. Il quarto capitolo (pp. 101- 145) è dedicato alla persistenza delle immagini di Afrodite ed Eros nell’arte (Dronke prende le mosse dal famoso quanto controverso cofanetto di Proiecta, in cui una sposa cristiana è celebrata con la toeletta di Afrodite) e nella letteratura, che si spiegano con la rilettura allegorica di tali figure (si pensi all’interpretazione origeniana dell’amato del Cantico come Cristo-logos, chiamato però Eros-Amor, e alla raffigurazione di Eros e Psiche in alcuni sarcofagi paleocristiani), che ne ha permesso la continua presenza nella tradizione degli epitalami cristiani (Sidonio Apollinare, Ennodio, Draconzio etc.); ad esse segue un suggestivo studio sulla persistenza dei motivi pagani nelle rappresentazioni letterarie del mito della fenice e nella sua interpretatio christiana di simbolo di Cristo e di uccello del paradiso, per finire con lo studio di alcuni precursori del viaggio al paradiso terrestre di Dante. Il quinto capitolo offre una panoramica di alcuni animali simbolici, dalle rappresentazioni dell’anima come uccello, al cigno (con l’analisi della bellissima Sequenza del cigno, ritmo latino del tardo IX sec.), la colomba e la tortora, l’aquila, il leopardo, le sirene, il cervo (pp. 148- 184): anche qui Dronke mette il lettore a contatto con un grandissimo numero di testi, alcuni dei quali assai poco noti al di fuori degli specialisti, come la versione latina dell’inno degli Atti di Tommaso o un brano del commento di Eriugena al prologo di Giovanni (stampato secondo la sua struttura di prosa poetica, pp. 167- 168), o il Salmo dei Naasseni (II secolo). Infine l’ultimo capitolo (pp. 185-228), come vorrebbe un percorso ascendente di tipo dionisiano, tratta delle immagini del Sole e della Luna, dell’interazione dell’imagerie pagana e cristiana relativa ai due astri, e delle rappresentazioni della divinità come fuoco e luce: anche qui non mancano le esplorazioni di testi pochissimo noti come gli Inni orfici, i papiri magici greci, gli Oracoli caldaici, e poi ancora Sinesio, Gregorio, Ambrogio, Prudenzio, ma anche Anastasio Sinaita, gli aenigmata anglosassoni.
Il lettore, anche non specialista, ma interessato alla poesia e alla storia delle immagini, troverà un libro di una ricchezza inesauribile, in cui sono coniugati senso storico e sensibilità letteraria, sostenuti per di più da una prosa vivace e assai perspicua e da un’esposizione simpatetica e affascinante3. Dal punto di vista metodologico l’aspetto forse più innovativo del lavoro di Dronke è la diversa considerazione della letteratura e delle immagini pagane e del loro rapporto con quelle cristiane: non viene riproposta la concezione di due poli irriducibili o di due momenti di un consequenziale processo storico di adattamento e di superamento, bensì la visione di un mondo di fecondi scambi e di mutue relazioni, che ha adottato linguaggi, riusato immagini e forme di pensiero, in un continuo movimento di ripensamento della tradizione, che ha portato infine a una compiuta ridefinizione del sistema concettuale e letterario. Un modo di approccio alla letteratura (e al mondo visuale) della tarda antichità e del medioevo che costituirà un imprescindibile punto di riferimento negli anni a venire.
Gianfranco Agosti

1 Agazia, Epigrammi, Milano 1967. Si veda E. Kitzinger, "DOP" 8, 1954, pp. 138-139; R. McCail, "Byzantion" 41, 1971, pp. 241-247 (è probabile che dietro il tono difensivo ci sia la polemica sulle rappresentazioni degli angeli).
2 Da ricordare il pionieristico A. Grabar, Plotin et les origines de l’esthétique médiévale, CA 1, 1945, pp. 15-34. Per lo "hidden meaning " si veda anche G. Mathew, Byzantine Aesthetics, New York 1971 (1964), pp. 38-47; e inoltre M. Cagiano de Azevedo, L’eredità dell’antico nell’alto medioevo, in IX settimana di studio del Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1962, pp. 466-474.
3 Impossibile qui enumerare tutti i singoli contributi critici a questioni spesso assai discusse: ricordo però almeno le poche ma ficcanti osservazioni sulla profonda religiosità che traspare dal carme De Salvatore di Claudiano (p. 126), o l’identificazione palmare della figura di Melchisedek in un affresco da poco scoperto, che getta nuova luce sulla diffusione dell’apocrifo 2Enoch nell’Occidente medievale (pp. 142-145).

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