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TRADURRE JACCOTTET II  

 

di Fabio Pusterla   

 

 

1. Il mio primo incontro con la poesia di Jaccottet, avvenuto ormai molti anni fa, ha avuto delle origini singolari. Verso la fine degli anni ’80 io ero un giovane autore che aveva pubblicato una raccolta di versi, e che navigava nei dubbi. Quello che avevo creduto di capire della poesia moderna e contemporanea mi pareva insufficiente rispetto ai cambiamenti che avvertivo in atto ma che temevo di non cogliere fino in fondo. Non so quanto fossero giustificati questi timori, e nel complesso la cosa non ha ora nessuna importanza; fatto sta che avevo pensato di aggirare i presunti ostacoli passando attraverso la poesia francese. Avevo più o meno ipotizzato che affrontare alcuni autori capitali della Francia di quegli anni mi avrebbe aiutato a capire quello che stava accadendo nel linguaggio poetico italiano. E una simile ipotesi derivava probabilmente dalla lettura di quello che in quegli anni, visto dall’Italia, pareva senz’altro uno dei poeti più complessi e problematici del panorama francese ed europeo, cioè Yves Bonnefoy (da poco apparso nella bianca einaudiana, con una ricca prefazione di Stefano Agosti), al cui studio avevo dedicato molte energie, finendo per tradurre una manciata di suoi testi (il poemetto Anti-Platon) e per scrivere un saggetto. Proprio in questo periodo, durante il quale stavo riprendendo fiato e facendo il bilancio di quell’immersione nella poesia di Bonnefoy (immersione, dirò di passaggio, che mi parve allora produrre l’effetto sperato: tornavo al linguaggio poetico italiano con una diversa capacità di comprensione, o così almeno mi dicevo), incontrai per una via di Bellinzona, dove lavoravo, Giorgio Orelli. E Orelli mi parlò a lungo di un certo articolo critico, a suo giudizio discutibile e anzi francamente errato, dedicato a una poesia particolare di Philippe Jaccottet; io ascoltavo, annuendo ogni tanto. Non ebbi il coraggio, durante quella lezione sulla pubblica via, di confessare la mia totale ignoranza: non avevo mai letto Jaccottet, e Orelli presumeva troppo da me.

La curiosità e la vergogna prodotte dal dialogo bellinzonese mi spinsero a cercare qualche libro del poeta francese; capitai subito sull’antologia Poésie 1946-1967, edita da Gallimard dieci anni prima, e sul volumetto losannese, quasi un quaderno, Chants d’en bas, che proponeva un gruppetto di poesie poi destinate alla più ampia raccolta A la lumière d’hiver. Iniziando a leggere quelle pagine, non potevo sapere che avrei poi passato anni a tradurle; né che quei libri, e gli altri che avrei poi imparato a conoscere di Jaccottet, sarebbero rimasti quasi costantemente fino ad oggi sul mio tavolo o nelle immediate vicinanze, a portata di mano e non certo ‘soltanto’ per ragioni traduttorie. Ma, anche ignorando i futuri sviluppi di quell’incontro fortunato, mi resi immediatamente conto di avere scoperto un poeta eccezionale, e a me particolarmente congeniale; un poeta, per di più, che sviluppava ulteriormente, confondendo le carte che avevo faticosamente tentato di mettere in ordine, la mia percezione della poesia novecentesca. Rispetto alla luce spigolosa e filosofica di Bonnefoy (del primo Bonnefoy, di Douve), e alla sua sconvolgente geometria sintattica, i versi di Jaccottet sembravano proporre qualcosa di diverso, provenire dal basso di un’esperienza umilmente raccolta e indagata; ma così facendo l’autore rimetteva in discussione moltissime cose, un’intera tradizione nella quale ero cresciuto e mi ero formato. Si trattava di ricominciare daccapo.   

 

2. Credo di essere stato subito folgorato da una poesia in particolare, anzi dai suoi versi iniziali; che servono ora per mettere subito in evidenza il primo e principale problema che avrei dovuto risolvere più tardi in fase di traduzione. La poesia si intitola Notes pour le petit jour, e appartiene alla raccolta L’Ignorant, del 1958; e i versi in questione sono i seguenti:

 

Des femmes crient dans la poussière. Car chanter,

comment chanterait-on sous ces pierres friables?

[...]

Et c’est la chose que je voudrais maintenant

pouvoir dire, comme si, malgré les apparences,

il m’importait qu’elle fût dite, négligeant

toute beauté et toute gloire: qui avance

dans la poussière n’a que son souffle pour tout bien,

pour toute force qu’un langage peu certain.

 

In un recentissimo, poderoso saggio critico (Philippe Jaccottet. L’évidence du simple et l’éclat de l’obscur, Paris, José Corti 2003, pp. 415-16; ma si veda tutto il capitolo 11, significativamente intitolato Parler, chanter), Jean-Claude Mathieu si sofferma acutamente proprio su questi versi quasi programmatici. Nel paesaggio di rovine che la poesia tratteggia, le due polarità estreme sono rappresentate da due verbi: crier, che propone la realtà bruta, sofferta e in certo senso pre (o post) poetica, e chanter, che designa invece una modalità ormai impossibile, quella del canto. A metà strada, nella polvere dei giorni, si fa strada tenacemente l’unica eventualità ancora proponibile, quella del terzo verbo, dire, collegato sia all’idea di souffle (respiro, fiato, ma con una connotazione supplementare di fatica), sia alla realtà umile di un langage peu certain.

L’opzione del dire, che altrove prenderà il nome di parler, non corrisponde dunque né a quella del grido né a quella del canto; suggerisce invece una tonalità, un percorso linguistico e melodico più sommesso, più prossimo al mormorio, e costantemente in cammino.

E uno dei testi funebri contenuti in Chants d’en bas conferma e approfondisce l’osservazione:

 

Parler donc est difficile – si c’est chercher... chercher quoi?

Une fidélité aux seuls moments, aux seules choses

qui descendent en nous assez bas, qui se dérobent.

 

Ma una poesia di questo tipo, mormorata, sommessa, volta a registrare quelle emergenze dell’esperienza vissuta che salgono dal profondo, è destinata a porre non pochi problemi al traduttore: problemi di intonazione, problemi di ritmo. Ecco dunque delinearsi una difficoltà, ma anche una scelta del traduttore, che tra i molti aspetti del testo deve spesso identificare quello che gli pare centrale e irrinunciabile, e sul quale sarà necessario concentrare tutti gli sforzi. Traduzione come forma di interpretazione, dunque. La questione dell’intonazione tocca principalmente il lessico e la sintassi; si trattava, per cercare di tradurre quelle poesie, di ritrovare nel linguaggio poetico italiano uno strato espressivo similare a quello usato da Jaccottet; parole e frasi apparentemente umili, quasi quotidiane, eppure leggermente, quasi impercettibilmente più alte, più solenni; una solennità dissimulata, un’intensità espressiva che rifugge da ogni effetto speciale, ma che pure si manifesta continuamente. Più complessa la riflessione sul ritmo, che non è mai facile definire esattamente, in assenza di regole metriche fisse. Se si dicesse che il ritmo della poesia di Jaccottet è spesso ampio e lento, meditativo; che i suoi versi non si esauriscono mai in se stessi, ma fluiscono, come seguendo il mormorio del ricordo o della meravigliata osservazione di una scena reale o immaginaria; che in quel fluire, in quel passare senza bruschi salti da un verso all’altro, o meglio da una parte di verso a una parte del verso successivo, sembra di ascoltare il respiro profondo del corpo e della mente; se si dicessero tutte queste cose, si proporrebbe forse un’immagine vaga eppure comprensibile della poesia in questione. Ma, per un traduttore, una simile vaghezza è ancora paralizzante, e non basta. Philippe Jaccottet che, pur essendo anche un critico notevolissimo, non ama molto parlare in termini tradizionalmente critici e tecnici (e men che meno quando è interrogato sulla propria opera), ha spesso utilizzato la riflessione su oggetti non letterari per parlare di letteratura. E uno degli oggetti da lui frequentemente scandagliati è il paesaggio (basterebbe ricordare, tra i numerosi altri, il volume di prose Paysages avec figures absentes: e non sarà poi sorprendente osservare che tradurre quelle prose pone dei problemi in sostanza identici a quelli di cui si sta qui ragionando; segno che il ritmo, appunto, si snoda attraverso le parole e le frasi, non limitandosi alla dimensione del verso). In una pagina della Semaison che risale al 1966, l’autore riflette su un concetto a lui particolarmente caro, quello di vrai lieu. Un vero luogo è un centro che riesce a stabilire un rapporto con un insieme; quando ci troviamo, quasi per caso, in uno di questi luoghi, scorgiamo con stupore dei resti: pietre in rovina, piccoli muri crollati, tracce di precedenti insediamenti, talvolta antichissimi. Ciò che rimane di un ordine, o di più ordini, ormai quasi scomparsi, ma non del tutto cancellati; non delle vere rovine, solo degli indizi, dei suggerimenti che permettono al viandante di sentirsi a proprio agio, di ricominciare a respirare. Quando ho letto per la prima volta questa pagina, ho pensato che potesse esistere un’analogia tra i luoghi descritti e l’andamento ritmico dei versi di Jaccottet; anche in quei versi, così solidali con il ritmo del lettore, si possono trovare i resti di un ordine, e i frantumi di una tradizione (quella del canto, appunto) antica, oggi forse impossibile, eppure ancora presente. E presente, si badi bene, non grazie ad un montaggio postmoderno, una specie di mixaggio divertito di misure canoniche; non in virtù di un progetto architettonico che ha preceduto la scrittura; piuttosto perché l’eco di quell’ordine risuona ancora dentro di noi, e orienta, vagamente, la scrittura (e la lettura). Da qui l’ipotesi di operare nella versione italiana in modo analogo: lasciando che l’eco della tradizione ritmica e persino metrica parlasse dal suo passato nei versi, facendo capolino a tratti, in forma di frammento, di breve passaggio melodico che unisce due o più versi. Né la metrica dissimulata o allusa ironicamente, né il neometricismo; qualcosa di più profondo, come una musica indefinita che sale dalle macerie di qualcosa.

 

3. Ciò che ho tentato sin qui di descrivere rappresenta tuttavia solo una delle caratteristiche della poesia di Jaccottet; forse la più visibile, certo quella che prima di ogni altra ha attirato la mia attenzione di lettore e, conseguentemente, di traduttore. Ma non l’unica, appunto. Anzi, quando ho riletto l’opera di Jaccottet con l’occhio (spaventatissimo) del traduttore, mi sono subito accorto che, da semplice lettore, avevo sottovalutato proprio l’aspetto opposto, che pure è ben presente in quei libri. Una vena di rarefazione estrema, di totale concentrazione linguistica e ritmica, attraversa infatti la poesia di Jaccottet, emergendo qua e là come una concrezione cristallina, o occupando addirittura l’intero paesaggio di un libro come Airs (che non mi sono mai ritenuto in grado di tradurre). Così, se la mia prima esperienza come traduttore mi aveva condotto agli Chants d’en bas, accingendomi a un lavoro più ampio (la traduzione per Einaudi de L’Effraie e de L’ignorant, cioè di due intere raccolte) mi sono subito scontrato con cinque brevi poesie che non sapevo da che parte prendere. Si trattava, per la precisione, di cinque sonetti; e appunto questo mi metteva in imbarazzo. Come si deve tradurre un sonetto? Non ci avevo mai pensato, e non sapevo cosa fare. Ho deciso di chiedere consiglio proprio a Giorgio Orelli, e sono andato a trovarlo con alcune prove di traduzione. «Vedi», mi ha detto più o meno, «un sonetto è come un ciottolo lisciato e polito dall’acqua di un fiume; è perfetto nella sua minuscola lucentezza. Quindi, se devi tradurre un sonetto, devi scrivere un sonetto». Così ho provato a fare, con tutta l’incertezza del caso; ottenendo talvolta dei risultati che mi parevano soddisfacenti; spesso dovendomi rassegnare a perdere qualcosa per strada. Un esempio fin troppo facile di traduzione impossibile è dato dalla prima quartina di uno di questi sonetti:

 

Tu es ici, l’oiseau du vent tournoie,

toi ma douceur, ma blessure, mon bien.

De vieilles tours de lumière se noient

et la tendresse entrouvre ses chemins.

 

A parte la difficoltà iniziale di mettere a fuoco il significato di quelle vieilles tours de lumière, che si sarebbe risolta leggendo più attentamente l’intera opera dell’autore, in cui la trasposizione in torrioni luminosi degli alberi di un bosco illuminati dalla luce che filtra attraverso il fogliame ricorre con una certa frequenza, il problema irrisolvibile era determinato dalla scomposizione fonicosemantica che attraversa la quartina: il verbo tournoie si trasforma scindendosi in tours e noient.

Ecco dunque la povera traduzione italiana:  

 

Sei qui, volteggia l’uccello del vento,

tu mia dolcezza e ferita, mio bene.

Sfuma la luce di antichi torrioni,

la tenerezza schiude i suoi sentieri.

 

Un caso, spero, felicemente opposto riguarda invece due versi di un sonetto successivo:

 

Même quand tu bois à la bouche qui étanche

la pire soif [...]

 

Dicevo poco fa che ero andato a trovare Giorgio Orelli con qualche prova di traduzione; e quella relativa ai due versi in discussione suonava così:

 

Anche se bevi alla bocca che toglie

ogni arsura [...]

 

Il commento di Orelli mi prese alla sprovvista: riteneva che si trattasse di un’ottima traduzione, e che si vedeva che avevo capito. Non sono certo, adesso, di averci pensato coscientemente prima; ma da quel momento sarei stato senz’altro più avvertito dell’importanza fondamentale dei suoni. Cosa piaceva a Orelli? La libertà apparente che mi aveva spinto a trasformare la pire soif in arsura; libertà lessicale che nascondeva una più profonda fedeltà all’espressione fonosemantica, mantenuta grazie al nesso /RS/. Forse, ancora una volta, Orelli mi dava fin troppo credito; fatto sta che avevo imparato qualcosa di essenziale.

 

4. L’ultimo punto che ho rapidamente toccato aprirebbe un discorso vastissimo: quello legato al difficile equilibrio tra libertà espressiva e fedeltà sostanziale che ogni traduttore deve di volta in volta cercare. Ad essi si collega, naturalmente, la doppia partita di perdite e profitti che la traduzione inevitabilmente conosce. Invece di trattare diffusamente l’argomento, propongo un esempio a mio avviso abbastanza interessante. Qualche tempo fa, ho cominciato a tradurre un saggio di Jaccottet intitolato Autriche, e dedicato appunto alla cultura austriaca, soprattutto alla letteratura, al teatro e alla musica. È appena necessario osservare che Jaccottet, che ha tradotto integralmente Musil in francese, conosce perfettamente la realtà che nel saggio descrive. La traduzione di quest’opera non mi sembrava porre particolari problemi; per una volta, avevo a che fare con una scrittura abbastanza scorrevole, molto descrittiva, molto comunicativa. L’unica preventivabile fatica era costituita dalla frequentissime citazioni; Jaccottet citava in francese, spesso dalle proprie traduzioni, o comunque da quelle correnti; e io avrei poi dovuto cercare nelle edizioni italiane degli scrittori austriaci in questione i passi equivalenti. Ma all’inizio di questo lavoro, mentre mi trovavo in vacanza, ho provato a tradurre per conto mio il primo capitolo dell’opera, tanto per farmi un’idea di ciò che mi aspettava; e poiché non avevo sottomano le traduzioni italiane necessarie, quando ho incontrato la prima citazione da Musil ho deciso di tradurla provvisoriamente io dal francese, ben sapendo di fare un esercizio assolutamente inutile. Nella lunga citazione, tratta da L’uomo senza qualità (II, 98), si descrive la fragile situazione identitaria del cittadino austro-ungarico, che non sa bene definire se stesso. Un passo del brano ha subito attirato la mia attenzione, perché poneva virtualmente un problema traduttorio non indifferente. Eccolo:

 

Qu’on se figure un chat-huant qui ne sait pas s’il est chat ou hibou, un être qui n’a aucune idée de lui-même, et l’on comprendra que ses propres ailes, en certaines circonstances, puissent lui inspirer une angoisse sans remède.

 

Come tradurrei, mi chiedevo (per una volta in modo del tutto disinteressato), il termine chat-huant, che in italiano designa il barbagianni? A quale animale dalla doppia natura potrei pensare, in modo da mantenere il gioco proposto dall’immagine francese? Dopo un po’, ho pensato al pipistrello, una specie di topo volante (e molti dialetti italiani danno appunto conto di questa duplicità) che tra l’altro non è un estraneo nella poesia di Jaccottet (un pipistrello svolazza nella notte di Portovenere, splendido testo de L’Effraie). Un pipistrello, dunque, che non sa se è un topo o un uccello: poteva funzionare.

Tornato a casa, ho ripreso il lavoro più seriamente; e ho cercato il passo di Musil nella versione di Anita Rho offerta da Einaudi. Ma ecco quel che ho trovato:

 

Ci si immagini un roditore che non sa se è uno scoiattolo o un ghiro, un essere che non ha un chiaro concetto di sé, e si capirà che in certe circostanze gli può venire una tremenda paura della propria coda.

 

Incuriosito da questo bestiario così mutevole, ho provato a consultare l’altra grande traduzione italiana, curata da Ada Vigliani per Mondadori:

 

Ci si immagini uno scoiattolo che non sa se è una lepre o un gatto delle querce, un essere che non ha alcun concetto di sé, e si capirà che in certi casi può assalirlo una terribile paura della propria coda.

 

Le ragioni di queste discordanze zoologiche sono suggerite da una nota della stessa Vigliani, che osserva due cose. Prima di tutto, Musil gioca qui con i due possibili nomi tedeschi dello scoiattolo, Eichhörnchen e Eichkatze: ci troviamo dunque di fronte a uno di quei passaggi ben noti ad ogni traduttore, in cui i nomi della fauna (o in altri casi della flora) pongono un problema difficilissimo. In secondo luogo, lo stesso gioco di parole è utilizzato in un altro punto del romanzo, durante un famoso monologo di Moosbrugger: per questa ragione, la traduttrice ha deciso di segnalare in nota sia il problema sia la concomitanza, optando per una traduzione quasi letterale.

Malgrado queste precise spiegazioni, resta al lettore qualche dubbio. Intanto, nelle due traduzioni italiane va persa la verosimiglianza dell’immagine: perché mai un roditore non dovrebbe sapere se è uno scoiattolo o un ghiro? Ancora meno perspicua l’altra versione: uno scoiattolo che non sa se è una lepre o un gatto delle querce: cosa significa? E, in ambedue i casi: per quale ragione il roditore/scoiattolo dovrebbe temere la propria coda? Assai più efficace la soluzione di Jaccottet, in cui il rapporto tra la duplice natura dell’animale (gufo e gatto), i dubbi identitari e il terrore di fronte alle ali risulta chiarissimo a prima vista, proprio come nell’originale tedesco.

Eppure, a ben guardare, Jaccottet è, dei tre traduttori, quello che si prende la massima libertà, allontanandosi maggiormente dallo scoiattolo musiliano; ma proprio in questa libertà di trasformazione è insita la più sottile lealtà nei confronti del significato profondo dell’immagine. Bisogna ancora aggiungere che Jaccottet, di fronte all’analogo gioco di parole utilizzato da Moosbrugger, traduce diversamente, indicando in nota la difficoltà linguistica. Ciò significa che egli ha deciso di privilegiare, nel passo testé discusso, il valore espressivo delle parole, considerando secondario o trascurabile l’eventuale richiamo all’espressione usata da Moosbrugger in un’altra zona del romanzo.

Non si possono certo giudicare tre traduzioni di questa mole a partire da una sola immagine; nel caso specifico, tuttavia, la versione francese risulta contemporaneamente più creativa, più efficace e più fedele. E, per finire, questo piccolo esempio mi sembra riassumere bene un lungo discorso teorico sulle difficoltà (e sul fascino) della traduzione.


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