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ROSARIA LO RUSSO, Penelope, Napoli, Edizioni d’If 2003, pp. 29, € 3,00.

 

Il forte segno teatrale che connota il poemetto Penelope di Rosaria Lo Russo è già nella organizzazione del testo e nella sua scelta discorsiva. Al centro della scena poetica, protagonista di una narrazione monologante, è infatti il reinventato personaggio di Penelope, che riscatta la passiva fedeltà assegnatale dal mito («zitta zitta come s’usa») con una riappropriazione dei fatti e della parola. La scrittura poetica nasce da un gesto primario di straniamento del mito, dei ruoli da esso codificati, delle parti da esso ripartite tra chi parla e chi è parlato. Il monologo di Penelope, revenger’s play, capovolge il punto di vista della narrazione mitica: l’appropriazione del proprio linguaggio e della propria soggettività riscrive e riscatta l’archetipo di una muta fedeltà e virtù in un personaggio nuovo, sfaccettato, molteplice. Il gesto con cui Penelope fermava il tempo, il ciclico scomporsi e ricomporsi della sua tela, si traduce qui in un linguaggio iterativo, che sui ricordi, sull’attesa, sulla messinscena della fedeltà, trama la propria amarezza. Il personaggio- narratore di Penelope, tutto risolto nel proprio monologo al cospetto di uno «straniero» in cui finge di non riconoscere Ulisse, dà al testo una forte connotazione teatrale. A differenza del soliloquio, il monologo è infatti il discorso dell’io essenzialmente teatrale, in cui la presenza dell’‘altro’ (pubblico, lettore, straniero) si fa condizione alla parola e alla ricerca di verità soggettiva. Perché Penelope possa dunque emergere non più come muta comparsa ma come vibrante protagonista del mito, è necessario qualcuno che ascolti la sua «lamentazione». A determinare il personaggio e la poetica del testo è soprattutto il modo e il ritmo della scrittura, sinuoso e aspro, mobile e iterativo, vivacemente sperimentale. Penelope parla di sé e della propria storia non solo attraverso i motivi narrati (il paesaggio e lo spazio dell’Isola, i ricordi nuziali, l’attesa, la rabbia, la ribellione), ma soprattutto attraverso un’intensa connotazione linguistica, entro un racconto fondato su un’ampia gamma di toni: regale e dolente, sprezzante, ironico e straziato. Penelope coincide col proprio stesso linguaggio e in esso solo consiste. La retorica del testo e quella del personaggio si fondano vicendevolmente: si pensi ad esempio a come il topos dell’‘attesa’ che connota il personaggio sia alluso dai frequenti sintagmi temporali che legano i versi come refrains variati e mossi («Da vent’anni velata pattuglio questa casa / [...] / Oggi che scade la tariffa agevolata del ritorno / [...] / Ogni notte mi penetra la schiena questo pungolo di trapano trivello»); o si pensi a come le antitesi che attraversano il personaggio (fedeltà e furore, pazienza e disprezzo, innocenza e astuzia) trovino espressione nella fitta trama di avversative che attraversa il suo monologo: il frequente ma segnala nel testo lo scarto, la contraddizione, il movimento inverso del flusso di coscienza, e funziona come scansione delle scene e dei nuclei tematici («Ma quando mi distraggo e infrango il rito / [...] / Ma quando mi smarrisco e perdo il filo»). Demistificante, furioso e dolente, il discorso di Penelope contraddice ogni idea di univocità, contrapponendola natura  multipla della soggettività all’edificante coerenza del personaggio, e lo sguardo e la parola dei condannati al silenzio alla autoritaria verità del mito. E   condensando il proprio senso in questo fecondo straniamento, Penelope sembra infine alludere allo stesso compito della poesia.

 

Caterina Verbaro

 

 

ALESSANDRO RICCIONI, Chiedimi il rosso, Castel Maggiore, Book editore 2003, pp. 71, 10,50.

 

Terza tappa del percorso poetico di Alessandro Riccioni, dopo Sottopelle (1998) e Di quarzo e terra (2002), la raccolta inaugura una tonalità più riflessiva e analitica. A dispetto del vitalismo evocato nel titolo dalla sigla del ‘rosso’, il libro riduce le tonalità ludiche che nei primi due testi caratterizzavano un fitto intrigo fonico e ritmico, per lasciare emergere il rapporto di straniamento tra l’io e il reale: «È questa diagonale all’improvviso / questa ferita verde all’orizzonte / che mi cancella la certezza / di un passo svelto e prepotente. / Come una ruga nuova sul tuo viso / dice e non dice l’esistente / gioca e pronuncia la bellezza / quando combaciano le impronte». Un discorso unitario e iterativo si avvita attorno alla metafora del ‘rosso’, come a un enigma da sciogliere e verificare. I segni sono letti nella presenza archetipica di buio e luce, entro minimi passaggi cromatici, alla ricerca di un ‘rosso’ essenza segreta delle cose. A fronte di un linguaggio rigorosamente medio e quotidiano, la parola scandaglia la natura occulta dell’oggetto, alla ricerca di un luogo di verità, secondo la lezione simbolista di tanto Novecento poetico. È dunque alla forza visionaria della poesia che nel «corpo prosciugato» dell’oggetto cerca il senso, che rimanda la metafora del rosso, ovvero dell’‘altro’ nascosto, della dissonanza, dell’antitesi che fonda ogni apparente unità. La metafora cromatica ha il compito di evocare un’‘utopia del poetico’, la nostalgia di una piena dicibilità. Accanto a questa, metapoetico è anche l’altro polo semantico del testo, quello dialogico. L’allocutivo «chiedimi » del titolo funziona come refrain ‘litaniante’, propiziatore di una catena comunicativa in cui l’io e il tu si sostanziano a vicenda attraverso la parola e l’ascolto. Non nel solipsismo sacrale di un dire assoluto, ma nella relazione con l’altro la poesia può tentare la propria verità, un condiviso «luogo rosso da cantare».

 

Caterina Verbaro

 

 

 

 


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