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AI, Dread, New York, W.W. Norton & Company 2003, pp. 123, $ 22,95.

 

‘Ai’, che in giapponese significa ‘amore’, è il secondo nome e nom de plume di Florence Anthony, autrice di sei volumi di poesia dove ha elaborato il monologo alla maniera di Robert Browning per interpretare testimoni scomodi del vivere sociale. Non c’è scampo né consolazione nella poesia di Ai che c’impone di tenere gli occhi ben aperti sulle perversioni della mente umana, su una realtà che preferiremmo non vedere o nascondere dietro la facciata gentile della nostra quotidianità: omicidi, suicidi, corruzioni ed efferatezze domestiche e pubbliche, genocidi, violenze etniche, abusi di ogni genere in nome di poteri economici o politici, o semplicemente perpetrati da menti malate. Ci porta nelle zone estreme della psiche umana, fuori da ogni accettabile norma civile e ad esclusione di ogni altra esperienza, fra vite disperate che trovano l’unico riscatto nella violenza per dirci senza mezzi termini che anche questo è il mondo, che è traumatico e terrificante, che il male è sempre dietro l’angolo. «Hell is only as far as your next breath», dice un suo personaggio del 1986, «and heaven unimaginably distant. / Gate after gate stands between you and God, / so why not to meet the devil instead? / He at least has time for people». In una lingua asciutta, senza fronzoli, spesso ripresa dalla strada, i testimoni del male raccontano il loro inferno di terrore inflitto o subito. Sono killer tratti dalla cronaca nera, prostitute, poliziotti, psicopatici, neri e bianchi negli scontri razziali, veterani del Vietnam e della Guerra del Golfo, figure anonime o storiche come Trotsky, Zapata, J.F. Kennedy ed il suo assassino.

Nata in Texas nel 1947 e cresciuta per lo più a Tucson, in Arizona, Ai ha una complessa identità etnica. Giapponese da parte di padre, afroamericana, irlandese e indiana, della tribù dei Choctaw dell’Oklahoma, da parte di madre, ha trovato in questa sua mobile identità la matrice per interpretare i suoi personaggi. Dall’educazione cattolica provengono le sue immagini apocalittiche ed una riconoscibile fraseologia religiosa; dalla sua subalterna estrazione sociale attinge invece le storie e le figure di emarginati narrate nei  suoi libri i cui scarni titoli ci portano subito al cuore delle sue tematiche: Cruelty (1973), Killing Floors (1979), Sin (1986), Fate (1991), Greed (1993), Vice (1998), a cui è andato il National Book Award, e questo nuovo libro, Dread, terrore. Qui il male è rappresentato dal lupo cattivo della fiaba di Cappuccetto Rosso, come suggerisce il dipinto di Doré riprodotto in copertina. I personaggi sono i sopravvissuti a traumi infantili e narrano il momento in cui la fiaba ha smesso di essere un gioco innocente per assumere inquietanti connotazioni morali. In Fairy Tale, un pilota americano della seconda guerra mondiale ricorda una sua azione militare in Giappone: «I am alone, yet I know the wolf’s returned to haunt me / as I stop the car by the side of the road. / When I close my eyes, / I remember watching with horror and relief / as the kamikaze’s burning body / shot from the wreckage of the plane / and dropped into the ocean below [...] The kamikaze was only a man / and the wolf, I must admit at last, is me». Nella chiesa cattolica dove cerca assoluzione apprende più tardi dell’attacco alle Torri Gemelle, ovvero del ritorno del lupo. L’immagine dei corpi che si gettano nel vuoto si sovrappone a quella del kamikaze da lui ucciso: «Rather then let death come to them, / they went to him, / their clothes billowing in the wind, / making them look like the kamikaze / in a fiery tailspin. / I kneel staring at the altar, trying to connect the dots of my life / and not getting anywhere, / as mother looks at me with a wolfish grin ...». Lullaby torna sullo stesso motivo: «Run my child. Don’t delay. / The beast is beating on the door / with rifle butt and fists. / Soon his boots are stomping / on the floor, as if he’s cold / and trying to warm his feet. / He hasn’t had a thing to eat for days / and tears bread from your sister’s hand / before he shoots her in the head...». Nel testo eponimo, Dread, una donna poliziotto di New York che ha perso il fratello nel crollo dello World Trade Center intreccia racconti della vita dei bassifondi a quello della tragedia della sua famiglia quando il padre uccise la madre e si tolse la vita, una tragedia da cui il fratello, alcolizzato, non era mai uscito: «I dread finding him and dread I won’t / as I choke from the fumes less poisonous / than the hope that keeps me awake at night, / but I can’t give up [...] When I call his name, / my voice is swallowed up by the roar of machines [...] the white noise/ I hear in my nightmares / that always begins at the scene of a shooting / that occurred during a domestic disturbance / between a man and a woman in Queens / that left two teens bereft of a mother and father [...] so that now the one left behind is frightened / by her utter loneliness... ». Il libro si chiude con due lunghe sequenze. La prima, The Greenwood Cycle, inizia con l’emozionante racconto di giovani sopravvissuti ai violenti scontri razziali del 1921 a Tulsa, in Oklahoma: «I thought I was dreaming, / when I saw the sky fulla black smoke, / but I wasn’t, no, ‘cause I pinched myself / and it hurt / and I knew we were gonna suffer / for somebody’s sinfulness. / ‘Just like Jesus,’ you said, Mama, / when you screamed, / ‘Run, daughter, run, / white men are comin’, they got guns’...». Nell’ultima parte sentiamo la voce di uno sceriffo che codardamente non soccorre Miss Mary, la vecchia nera che lo coccolava da bambino, quando muore linciata da un ragazzo bianco al grido «Another one dead». Le cinque sezioni del testo finale, The Psichic Detective, sono recitate da un esperto nei crimini più efferati la cui caparbia ricerca dei killer ha origine nel senso di colpa per l’omicidio irrisolto della sorella di cui è stato testimone: «Somebody like me has to go down into hell with them / and bring them back,/ even though they’re radioactive with an evil / that clings to your skin». Dread è anche il più autobiografico dei libri di Ai visto che diverse poesie raccontano vicende della sua famiglia a cominciare dalla sua storia di figlia ‘bastarda’, nata dall’incontro casuale della madre con uno studente giapponese.

Si prova fastidio a leggere questi versi, lo stesso che fa esclamare allo pschic detective, «I just want to shut the door on the evil / that greets me each day with its pants down, saying, Look at it, look at me / and see yourself». Ma si prova anche ammirazione per una poesia che con coraggioso impegno morale e civile illumina le zone proibite della psiche umana i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti nelle piccole e grandi tragedie quotidiane.

 

[Antonella Francini]


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