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Saffo e le altre. Le poetesse greche dell’antichità, a cura di TINO SANGIGLIO, Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione 2002, pp. 134, € 5,16.

 

 

In questo bel volumetto, curato con simpatetica convinzione, Tino Sangiglio si propone innanzitutto di colmare un vuoto culturale: la poca conoscenza, presso il grande pubblico, della produzione poetica femminile nella Grecia antica. In effetti, a parte la poesia di Saffo, di cui possediamo una notevole messe di frammenti e di cui in questi ultimi anni sono apparse diverse edizioni, anche divulgative, è esistita in Grecia una poesia al femminile, certo periferica (per motivi storico- sociologici) e sostanzialmente desultoria, ma non per questo meno meritevole di essere conosciuta. Infatti pur nel generale naufragio della tradizione testuale (in qualche caso, però, rinvigorita da fortunati ritrovamenti papiracei) le personalità di alcune poetesse risultano apprezzabili e talora ci troviamo dinanzi a pezzi di notevole valore poetico, come sottolinea più volte Sangiglio con malcelato entusiasmo (fino a giungere talora a una decisa contrapposizione con «l’oro di princisbecco» [p. 59] della poesia maschile, ciò che tuttavia non aiuta molto a capire perché delle poetesse ci sia giunto così poco). Opportunamente il curatore ha premesso alla raccolta un lungo saggio, che delinea il quadro storico-letterario della poesia femminile greca e tenta, attraverso l’analisi della condizione sociale della donna dall’età arcaica a quella ellenistica, di spiegare la scarsa presenza di voci femminili nella poesia greca. Nella Grecia arcaica e classica i valori politici e culturali della polis, nonché il ruolo assai marginale nella vita pubblica della donna, erano poco adatti al sorgere di una poesia femminile: le poche eccezioni si contano soprattutto in aree marginali, come Lesbo, la patria di Saffo, o la Beozia, patria di Mirtide (VI sec.), maestra secondo la tradizione del grande Pindaro e di Corinna. È con l’ellenismo che si creano le condizioni per una presenza più continua della poesia femminile: «solo allora si svilupperanno forme e tendenze poetiche capaci di dare risalto e valore alle istanze interiori dell’artista e quindi in grado di valorizzare anche le esigenze e le aspirazioni femminili» osserva Sangiglio (p. 20), che tende a stabilire un’equazione forse troppo diretta fra sensibilità femminile e poesia fatta da donne. Se esiste indubitabilmente una linea tematica «femminile» (risalente almeno a Saffo, comunque) che via via si caratterizza con più forza, va tuttavia sottolineato che la tradizione antica (i grammatici, i curatori di antologie di epigrammi etc.) è una tradizione «maschile» e che dunque è anche possibile che ci siano rimasti i componimenti più aderenti all’immagine che la società antica aveva della donna (e in ogni caso la poesia patriottica di Telesilla, i nomoi mitologici di Corinna, il poemetto di invettive di Mero rivelano uno spettro tematico ben variegato). Non è forse casuale che, come ricorda lo stesso Sangiglio (pp. 23-24), ci sia una discreta tradizione su donne, spesso etère, che, fin dall’età arcaica, avevano composto opere piccanti, «manuali» di filosofia e di pratica erotica, soddisfacendo così in modo del tutto atteso la pruderie di una società in cui la donna è sempre rimasta, nonostante tutto, ai margini. Ma non si deve pensare che la cultura greca fosse ostile alle poetesse, anche se (sempre a parte l’eccezione di Saffo) taluni entusiastici giudizi hanno il sapore dell’inaspettata sorpresa: Corinna (di Tanagra, Beozia; V sec.), autrice di epigrammi e di nomoi, componimenti lirico-corali, avrebbe sconfitto Pindaro ben cinque volte; Erinna (dell’isola di Telos; IV sec.) è celebrata con accenti grandemente elogiativi da Asclepiade, Antipatro, Leonida e addirittura in un epigramma anonimo è paragonata ad Omero e a Saffo (traduzioni in Sangiglio, pp. 65-66).

Nell’introduzione Sangiglio delinea brevemente le caratteristiche di ognuna delle poetesse antologizzate, segnalando anche quelle che sono per noi poco più che nomi (Mirtide, Balbilla, Cleobulina, Edila): la sua disamina si ferma all’inizio dell’età romana, nella quale invero la percentuale di donne dedite alla poesia non aumenta affatto. A questo panorama val la pena di aggiungere qui la menzione di una poetessa tardoantica, l’imperatrice Eudocia, che nella prima metà del V sec. d.C. si dedicò intensamente all’attività poetica, componendo parafrasi esametriche di libri biblici ma anche un poemetto assai interessante, il S. Cipriano (anch’esso dipendente da una redazione in prosa) che racconta la storia di un Faust ante litteram e che è stato finemente tradotto qualche anno fa da Enrica Salvaneschi. Teso a ricercare le realizzazioni poetiche compiute della sensibilità femminile, Sangiglio ha buon gioco nel dedicare le pagine più cospicue all’analisi del sentimento amoroso di Saffo, delle quale è sottolineata l’originale e archetipica forza descrittiva, di Anite (di Tegea, Arcadia; VIV sec.), autrice di epigrammi su temi quotidiani e minimali (epicedi di animali, descrizioni bucoliche, accorati epitafi di giovani spose) e soprattutto di Nosside (di Locri Epizefiri; inizio del III sec.), cantrice di un amore più gioioso e meno angosciato rispetto a quello di Saffo.

L’antologia, con testo a fronte (non sempre però secondo le edizioni più attendibili), reca le traduzioni di Saffo (fr. 1 Voigt, 31, 16, 49, 47, 48, 81, 94, 102, 112, 130, 137), di Corinna, di Prassilla, dei tre epigrammi di Corinna più una ventina di versi della Conocchia (un epillio esametrico, l’opera più famosa della poetessa, purtroppo rimastoci solo in malconci frammenti papiracei), gli epigrammi di Anite, Mero e Nosside. Nella resa italiana Sangiglio dà prova di fluidità di scrittura, particolarmente a suo agio con gli epigrammi, di cui in genere è offerta una resa aderente a una medietà sintattica e lessicale che privilegia la leggibilità. Il risultato è quasi sempre buono (talora più scorrevole dell’originale): come esempi possono valere Anite, AP 7.190 «A un grillo, usignolo dei campi arati, / e a una cicala, abitatrice delle querce, / la piccola Mirò costruì questa tomba comune / versando lacrime di bimba / quando la Morte spietata le rapinò / i suoi due cari balocchi», oppure Nosside, AP 7.414 «Quando passi, fatti una bella risata e poi dimmi / una buona parola: sono Rintone di Siracusa, / un piccolo usignolo delle Muse, ma con le parodie / tragiche mi sono guadagnato un alloro tutto mio». Talora il traduttore va troppo oltre nella tentazione di esplicitare il testo (come ad esempio in Anite, AP 7.215: «giaccio / senza vita sulla sabbia fradicia della spiaggia», laddove l’originale è più severo κεîμαι δε ραδιναν τάνδε παρ’ ήϊóνα, «giaccio su quest’umida spiaggia»; o nella banalizzazione della sintassi di Erinna, AP7.710.3), ma la qualità della traduzione non si discute (molto buona è anche la resa del celeberrimo inno ad Afrodite di Saffo, ad esempio). Non mi trova d’accordo invece la tendenza (peraltro di consolidata tradizione, se si pensa ad esempio a Quasimodo) a tradurre in modo compiuto i testi frammentari, che dà inevitabilmente risultati fuorvianti: è il caso, ad esempio, del frammento della Conocchia di Erinna (pp. 98-101), per cui oltretutto sono accettate interpretazioni discusse come quella della tartaruga ai vv. 16 sgg. (e in generale il quadro che Sangiglio dà della poesia di Erinna è poco informato delle recenti acquisizioni critiche). È insolito inoltre l’uso, nell’introduzione e nelle note, della grafia moderna (il solo accento acuto) per i termini greci antichi. Ma l’autore ha inteso fare non un lavoro di filologia, bensì di valorizzazione di una tradizione culturale: in tale senso l’operazione gli è pienamente riuscita.

 

(Ginafranco Agosti)


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