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EDOARDO ZUCCATO, Ulona, Rovigo, Il ponte del Sale, 2010, pp. 85, € 13,00.
 
La poesia di Zuccato è da tempo felicemente orientata verso le forme lunghe. Prima di dire della novità di questo libro ricordiamo cosa si intende. Il momento descrittivo paesaggistico, che macina insieme elementi memoriali e di riflessione morale, non si cristallizza nella forma lirica propria di molta poesia dialettale del Novecento. Si svolge invece per forme distese, con quadri territoriali larghi. Prosodicamente il verso libero può lasciare il passo all’endecasillabo narrativo (metro infatti quasi esclusivo in questo libro). Il movimento analitico dello sguardo cerca sempre di collocare i dettagli in un insieme naturale più grande. Si tratta della ricetta che impasta il sublime col triviale di cui il segreto appartiene alla poesia inglese dai poeti romantici (Zuccato è studioso di Coleridge) a Larkin. Un esempio: «Adess che nön semm rivâ in có a la piana / l’è ùa da turnà innanz in Valmuréa / in dua ga s’é vanzâ ’na feruvia / e nanca pü ’na brisa de scighéa. / La lüna la pâr ’na fesa d’aj / bütâ dent in dul padelòtt dul scür» (‘Adesso che siamo arrivati alla fine / è ora di tornare avanti i Valmorea / dove rimasta una ferrovia / e neanche più un briciolo di nebbia. / La luna anzi sembra uno spicchio d’aglio / buttato nel pentolone del buio’). Se il dialetto milanese di provincia di Zuccato ha saputo diventare in qualche modo, un inglese letterario, la sua fondamentale caratteristica è comunque quella di una piena aderenza alla matrice del parlato (il che non è scontato per la poesia dialettale, anche ottima, che ha rivestito spesso di dialetto la sintassi dell’italiano poetico). È lingua viva (o quello che ne resta), variazioni su frasi fatte, insulti, invettive fino alla bestemmia («che mi só no ’se digh a chi ca dis / che Diu ’l gh’é pü: peró gh’é ’l porcudiu / sicür ’me l’or ...», lo aveva già fatto il Gadda di La madonna dei filosofi). Certo anche in questo gioca una certa stilizzazione che poggia sulla tradizione della poesia milanese: dalle tirate antifrancesi del Porta alle canzoni milanesi della mala ed è un registro che Zuccato ha indagato da vicino nelle traduzioni milanesi da François Villon (in collaborazione con Claudio Recalcati). Del resto, la distanza tra parlato e ‘effetti di parlato’ è talvolta minima, tanto che una sequenza mimetica come «ul s’ ciopp ... cur ... l’ho catâ ...! và töll ... » (‘il fucile ... corri ... spara ... l’ho preso ... vai a raccoglierlo’), somiglia tantissimo alle catene parlate tendenzialmente monosillabiche di Carlo Porta. Veniamo ora alla storia raccontata nel libro. Il fiume Olona attraversa una fetta di Lombardia, il varesotto, la Brianza, passa sotto Milano, si divide in tre rami principali uno dei quali si getta nel Po. Il fiume stesso è un personaggio che parla del suo viaggio nella storia e nel territorio: nelle stratificazioni di entrambi, secondo il metodo geo-archeologico sviluppato dalla poesia di Seamus Heaney e introdotto in Italia da Franco Buffoni. Il fiume Olona ha visto guerre, scontri preistorici, le campagne romane, è stato a sua volta dissanguato dalle bocche insaziabili degli stabilimenti. L’attraversamento è descritto in quattro quadri dove prende la parola una galleria fitta di personaggi: reali, tipici, storici. Appare in Brianza l’ombra di Gadda che prende appunti linguistici dagli insulti della cugina Pipina (che lo trafigge: «che tant par ti ul dialett l’é cume i donn, ta fenn sens e te pó no scüsà senza», ‘Che tanto per te il dialetto è come le donne, / ti fanno ribrezzo e non puoi farne a meno’), a Milano, tra i resti del Verzée, interviene uno spaesatissimo Carlin Porta, a San Zenone Pavese sbuca dal nebbione il Giuann Brera. La novità del libro è insomma quella della sua polifonia, di cui Zuccato parla nei termini di una «bruegheliana ‘cumédia da cìrcul’». E si tratta certamente della realizzazione di una vena di teatralità, già presente nella sua poesia, e che può contare su modelli forti quali Stròlegh di Franco Loi, ma anche tutto l’ultimo Raffaello Baldini (sulle cui orme poi anche Nadiani). Più forte del carnevale, ci sembra, è il Purgatorio. I personaggi di questo mondo solitario y final si muovono in un’atmosfera purgatoriale, e la risata, quando c’è, è postuma, beckettiana. Insomma un viaggio di ombre con l’intensità di un poema oratorio, in parte in fortuita consonanza con il romanzo di Laura Pariani, Milano è una selva oscura, uscito sempre nel 2010, dove il vagabondaggio del barbone Dante nella Milano del giorno della bomba di piazza Fontana mette insieme oleografia meneghina e l’accelerazione della storia italiana. Il congelamento della vena padano-bruegheliana dà insomma al libro una forza aggiunta. Ma c’è un ultimo aspetto che si vuole sottolineare. Si è detto della fortissima aderenza agli stereotipi del parlato che tutti insieme formano quello che si suol definire ‘saggezza popolare’. Mettiamoci anche una coincidenza cui dare valore simbolico: Edoardo Zuccato è nato a Cassano Magnago, come Umberto Bossi. La Lega Lombarda promuove un ritorno al dialetto nel segno di un’accentuazione identitaria, con l’astuzia di arrogarsi il supposto coraggio di dire quello che pensa la gente. Ci sono, ci sembra, in questo libro alcune risposte utili al riguardo. L’ombra di Brera ammonisce «Dadré di muntagn gh’é ’na terunàja / ca finiss pü, un stival strasc strüsâ / dent in dul mar e tacâ sü sü Europa / cul ciod rügin da Milâ picâ dent / in daa pianüra ... » (‘Dietro le montagne c’è una terronaglia / che non finisce più, / uno stivale marcio strascicato / nel mare e appeso all’Europa / per il chiodo ruggine di Milano piantato / nella pianura’). Sotto le montagne vuol dire sotto le Alpi, non sotto gli Appennini: detto in lombardo, gli italiani siamo tutti legati a uno stesso destino, tutti terroni, ci si riscatta insieme oppure niente. La discesa nel parlato significa discesa negli umori antropologici del Nord, non solo nelle sue grasse padanità letterarie. Tocca le radici del come scatta la valvola mentale per cui un cervello diventa leghista. Tocca quel qualunquismo dell’opinione che in sé, prima di venire strumentalizzato, può nascere dal germe di una semplificazione di genio, conoscenza in pillole. Si prenda la sintesi fulminante della battuta: «gh’é dré rivà l’Islam / sa pó pü mangià ’l salamm» (‘sta arrivando l’Islam / non si può più mangiare il salame’). Può dirla dei Turchi un personaggio della Commedia dell’Arte e può dirla chi gira lo spiedo alla festa della Lega. La differenza è tra il riso e la paura, o meglio, nel ridere della paura. La parodia dell’altro è un po’ conoscerlo. La parodia, prima che un soggetto per tesi di dottorato, è quel riso e ringhio primario che stabilisce un terreno di incontro: un’aggressività che avvicina l’altro con una velocità che non è data alle buone maniere e alle convenzioni sociali. Nello spazio limitato di una parodia appunto, in buon e vecchio dialetto lombardo a cui è meglio non rinunciare per lasciarlo a quegli altri.
 
(Fabio Zinelli)

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