« indietro ANDREA ZANZOTTO, Conglomerati, Milano, Mondadori, Lo specchio 2009, pp. 201, € 14,00.
Non è curioso e non è per caso che in mezzo alla platea poetica contingente e circostante i versi di ultima generazione più freschi e malleabili, fluidi e armonici, di umile curiosità appassionata («O autocatture di gloriole / tenui rosee procacità per grasse erbe femminee / nutrite d’altri lattici per altre fantasie fruttuarie»), senza vanterie autocelebrative, agili e creativi mai statici («e stasi eternamente in azione»), schivi, quasi mai forzati e scontati, sussurri di cantilene suggerite mai sentenziose («e far par tuti i canton, far diaolin / a altre parolete: contente de sé / tochetin de parole par dir / quant che ’sto medo taser l’é de meraveie, / – tute da tirar nude, inpignì» ‘e far da tutte le parti diavolini di intirizzimento / a altre parolette: contente di sé / tocchettini di parole per dire / quanto questo mezzo tacere è di meraviglie, / – tutte da tirar nude, ricolmo’), li scandisca un arzillo ottantanovenne «prillante nel / nero nulla beato», abbandonato, a cavallo del millennio, al «rotolio degli zeri del duemila». La giustapposizione, talvolta, sulla pagina del testo di due o più soluzioni/varianti di brani che non si escludono a vicenda, semmai si accumulano, si stratificano in ipotesi, complicando un’univoca interpretazione e mostrando in fieri la ‘costruzione’, o distruzione o alterazione di una lassa, di una strofa, di un verso; oppure gli echi consapevoli, tesi al confronto con altre voci poetiche (come l’atmosfera magrelliana nel passo «Scende la sera e si confonde / col rumore del forno a microonde // (ripresa microonde)», ripassate dal suo orecchio e mano inconfondibili, sono solo due esempi della inossidabilità della verve sperimentale zanzottiana, in linea con altre della sua epoca, a cominciare da quella, pur per strade e soluzioni diverse, del compianto Sanguineti, il quale nel 2005 durante un viaggio in macchina di ritorno a Genova, fissando il panorama alla sua destra, una miscela di bosco, giardino e campi coltivati, mi rivelò che in quell’intreccio di natura lui vedeva incarnata la poetica di Zanzotto, mentre la sua la ritrovava nell’urbanesimo spinto di Toronto, città multiculturale, avanguardia della civilizzazione, dove il pensiero si erge nel cemento, vetro e acciaio dei grattacieli e si dirama nella razionalità dell’asse viario. Il decennio occorso per sedimentare i Conglomerati fa dire a Stefano Agosti che la «genuinità» di questo «vino» è attestata dai «depositi sul fondo del bicchiere», a dispetto, aggiungiamo, di tanti bocconi testuali espulsi neppure masticati, raccattabili su marciapiedi frequenti. Anche il nostro autore, con autoironia da senex, si offre in una «menzione» che diviene «minzione», ma questo atto biologico conclude tuttavia il processo di un metabolismo corporeo completo da cui il carotaggio linguistico di ogni singola parola non si sottrae. Siamo al preludio di una parte del volume incentrata sul 25 Aprile, occasione per ricordare il dover resistere perché «l’abbandono non è / né morte né liberazione / l’abbandono è crollo disarticolazione», ed anche per fare la conta dei protagonisti sopravvissuti con i quali, a malincuore, è inevitabile specchiarsi. La simulazione autobiografica dà spazio a momenti di appannamento, di oblio, di piccoli presagi – scaramantici per la verità – di «alzaimer» come viene traslitterato, quasi a prenderne le distanze. E quando si addensano i vuoti di memoria («peste da distrazhion», «mal del desmentegon [smamoratezza]» del «me pore [povero] bignami ’l perzh [che perde] pagine») e gli sbagli «a far numeri de telefono», quando si raggrumano inciampi linguistici (il «testo pésto», di condimento oscuro, è un «peso»), pare intervenire a supporto la lingua del dialetto di casa, originaria e indimenticabile che tappa falle, colma lacune, esprime i tanti «indicibili» e «inauditi» sparsi nel volume. Parlando un dialetto giù alla buona tutto è ammesso: raddrizza da ruzzoloni e ribaltoni, dà senso a un piroettare per perdita d’equilibrio in cui il corpo roteante diviene perno del mondo che gli gira intorno a trottola (con «l’ultimo rebalton, / [...] ò girà / su de mi sbrissando [scivolando] deventando perno / de un mondo par mi pì fermo.»). Si crea così un mondo immaginario e immaginifico ma sostanziale – in quanto affondato nelle «RES» che «raspiamo, assembliamo» «subito dannate, bestemmiate» – e inattaccabile (come certi paesi, «San Fris, San Mor», abbarbicati fra «erte propaggini» preservati da «divini tronchesi» cementiferi con l’aiuto dei toponimi tronchi del parlato locale) dalle brutture del mondo ‘civilizzato’, «abbondante di cancri, di morti, di non sorti / eppure risorgenti», in agguato dietro ogni angolo di «STRADADEL MURO» (Wall Street) coi suoi traffici, mercati, commerci dai meccanismi tanto fragili e fittizi che basta «l’occhio duro» o un colpo di tosse di «Alan da Grespan», sorta di demiurgo dell’economia, per fare prima crollare e poi risalire la Borsa. E la la beltà? Dov’è finita la «beltà»? «Là dall’inizio dell’infinito slargo / là sul più lieve dolcore dei fondi / cullati, trafilati, impigliati, trafumanti.» D’egloga e bucolico vive lo stupore, intatto e ingenuo ogni volta, nei confronti di una natura fluente di riposti e minuti miracoli quotidiani rigenerati ininterrotti: «La nebbiola si fa tutta argenteo splendore / [...] / cresce, e non pare, non ha affanno né destino / sola vaga sabbia del mago sabbiolino». Ma poi «là sotto sotto, giù sulle autostrade nella bassura / tra i miracoli in cui la galaverna si scatena mai superata / tam tam tamponamenti / [...] si tritano macchine [...] / anche questo è gioioso / siamo qui per – appoggiati alla più sacrosadica beltà – dare il suo luogo anche ai farsi dell’aldilà.» Idillio elegiaco contemporaneo sono i «grandi miracoli / anticiclonici» guidati da leggi di cinismo politico, finanziario, sociale, ambientale, grazie alle quali «ogni gloria / vuole la sua cenere». I conglomerati litici – rocce d’era preistorica a caratterizzare una scrittura di stratificazioni e blocchi compatti, conglomerati lirici autosufficienti se e quando provvisori, impastati di natura primigenia, fiera, inscalfibile – rotolando di era in era giù giù fino al presente, si compattano con le scorie di «tanfo e grandine e cumuli di guerra», i conglomerfinanziari del nostro tempo, ridotto «a così maligne ore / da chiedere implorare / il ritorno della morte / come male minore».
(Giuseppe Bertoni)
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