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STEFANO RAIMONDI, Interni con finestre, Milano, La Vita Felice, 2009, pp. 112, € 13,00.
 
La città come protagonista della riflessione poetica non rappresenta una novità nella traiettoria di Stefano Raimondi, visto che già nella raccolta La città dell’orto (2002) questa faceva capolino dietro il canto dolente e ispirato dall’agonia del padre e si delineava come il luogo rarefatto, «malabolgia fatta a cerchio», «in cui le cose crescono serrate», e dove l’accenno all’orto – universo dell’affetto, dell’intimità – apriva boccate d’aria nell’universo urbano. Lo sguardo sulla città presente in Interni con finestre sembra riprendere il cammino figurativo della precedente raccolta, pur se affondando maggiormente nel sentimento di sconcerto e di ricognizione rivolto verso le rovine e le macerie umane che popolano anonimamente gli angoli e le ombre della città. Vediamo: «nella città si muore con le scarpe addosso [...] Fuori fa freddo e le sirene si sentono ancora roteare nelle orecchie, come fossero gorghi di strilli incrociati». Lo sguardo del poeta è ricettacolo di immagini e suoni, flâneur postmoderno che si destreggia tra la catasta di sollecitudini visuali – oggetti abbandonati, facciate minacciose, panchine solitarie ecc. Ma questo sguardo non è gesto voyeuristico, non fugge dalla sua intima necessità umana. Non si tratta di descrivere e dire per diminuire un peso, una possibile colpa vissuta da una società passiva che assiste allo smantellamento dei valori civilizzatori. Al di là dello sguardo, la scrittura è testimone di un ascolto, di un gesto di accoglienza dell’altro, sia questo l’anonimo gesto di un suicida, la cui storia sconosciuta assume nuova vita nelle riflessioni della voce narrante, sia il travestimento quotidiano che tuffa l’individuo nell’invisibilità mentre varca la porta di un tram. In tal senso, questa poesia in prosa di Raimondi – volutamente marginale, come osserva Mauro Germani – mantiene accesa la tensione che riflette la natura del rapporto tra l’individuo e la sua storia, la società in cui vive. Identificando nelle sfacettature urbane l’alienazione dell’individuo che non sa tradurre i codici culturali e sociali in cui vive, per mezzo di metafore a volte dure, acide, altre volte tenere, Raimondi condanna l’alienazione e l’esilio in cui vivono le persone e le cose: «È un taglia e incolla la città, dove le cose vanno in scena insieme, come niente: riflesso su riflesso, ombra dopo ombra. Ognuno ha il suo nome tatuato, il suo rione da portarsi via. La bocca si muove sopra un polmone di sangue scuro, mentre i bambini pregano dai parchi i palloni infilzati sulle cancellate». Il tutto suona attutito, come musica da camera (si ritorna al titolo, Interni con finestre), e con discrezione la voce poetica ci avvicina all’esperienza umana, al dolore che non è reso noto, e che quindi si trasferisce sulle facciate degli edifici, nei dettagli della città che, come un grande essere vivo, manifesta sintomi di un malessere sociale. Raimondi non compie un’eroica presa di posizione, e non ci propone uno sguardo pietoso sulla condizione umana. Si mantiene su questo filo di separazione, teso, ricco della maturità poetica e filosofica dell’autore, che non ricorre a ovvi eccessi emotivi e metaforici, e nemmeno si limita alla radiografia ragionata del mal di vivere. Un luogo intermediario, un frammisto di contenuto rammarico e ostinato tono da cronachista – come lo definisce Milo de Angelis – attribuiscono a questa nuova raccolta un qualcosa di minaccioso, di temibile, come se sulla città pesasse l’imminenza della distruzione o come se la città fosse superstite di un atto travolgente. Per queste ragioni, Interni con finestre si presenta come una raccolta poetica sintonizzata pienamente sulla tematica della ricerca esistenziale e profondamente umana della sopravvivenza. La poesia di Raimondi ci ricorda che l’individuo s’incastra in questo gioco crudele che è la città anonima: «È stato il buio a nascondere tutto il quartiere delle nicchie, anche quella volta. Il guardiano di notte, quella notte, si è incastrato nella scena. Sembrava un fantoccio». Oppressione, come uno dei sentimenti più presenti nella raccolta, a voler dimostrare la necessità adorniana della poesia di darsi, ancora e ancora, come resistenza innanzi a un mondo che, in un batter d’occhio, si dimentica di noi e dunque «si finisce col guardare il buio dentro le palpebre».
 
(Prisca Agustoni)
 

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