« indietro Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2010, pp. 279, € 18,00.
Giunta al Decimo quaderno, la serie curata da Franco Buffoni accoglie quest’anno sette poeti, introdotti da altrettanti critici o autori noti: Corrado Benigni (da Mario Santagostini), Andrea Breda Minello (da Maria Grazia Calandrone), Francesca Matteoni (Fabio Pusterla), Luigi Nacci (Lello Voce), Gilda Policastro (Aldo Nove), Laura Pugno (Cecilia Bello Minciacchi), Italo Testa (Umberto Fiori). Lo stile è più o meno sicuro, talvolta in cerca di un centro ritmico, di un preciso equilibrio, ma in tutti originale. Il primo, nell’ordine alfabetico in cui gli autori si succedono, è Corrado Benigni, avvocato. È un dato, quello professionale, necessario per parlare di una poesia che ha il suo nucleo tematico nella giustizia: ossessione, meta inattingibile qualora le si dia il valore metafisico di ‘verità’. Invece, scrive Benigni, «a che serve sapere il dettaglio chiamato verità / se anche accelerando / saremo pur sempre nel centro di un giudizio, / di un finale? Lo stesso». ‘Giustizia’ diventa allora quasi un’antifrasi, la metafora di una condizione impossibile. È sottile il filo su cui cammina questa poesia, che corre il rischio di cadere ora nel gorgo dell’allegoria, ora sul terreno piatto dell’attualità, per via di un lessico giudiziario-mediatico sempre però riscattato da una lapidaria astrazione. Andrea Breda Minello non imita ma piuttosto rivive le ‘sue’ autrici: Ingeborg Bachmann, la Rosselli, Nelly Sachs cui sono dedicati i versi seguenti: «Una / Parola / che è / Lago // Una / Foresta che è / Isola // Una / Zolla che è / Nuvola // Nessuno / Aizzerà lepri / A masticare margherite // Per amore – / Sei nata al giorno // Tutto per amore –». Il monologo si sviluppa attraverso uno stillicidio di versicoli, che lasciano nella pagina lo spazio bianco, silenzio e mistero. «Come se dietro le coseparole» scrive Minello in Prima che giugno porti l’estate «Ci fosse / Solo silenzio / E un sereno sgomento / A condurci – incerti – verso altri luoghi». Dal silenzio e dal mistero discende anche la vena di Poemetto cristico, in cui il palinsesto dell’esperienza amorosa affiora attraverso un’imagery di natura mistica e acquista così un nuovo senso. Di altra natura è l’esperienza che ‘racconta’ Francesca Matteoni. Racconta, sì, perché la sostanza tematica della sua poesia dipende dalle coordinate di spazio e di tempo che individuano la posizione delle cose nel mondo e nella memoria. Come osserva Pusterla, il segreto di questa poesia è la relazione tra l’aspetto del mondo narrato e le risonanze che stanno dietro quel mondo e dietro i paesaggi: la Sambuca pistoiese e la Lapponia, scenario della serie intitolata Higgiugiuk la lappone. La parola poetica si collega al contesto attraverso una dinamica di riconoscimento e quasi di creazione, per cui le cose esistono attraverso la nominazione. Come in (gretel): «Appennino è solo una parola / sulla nebbia lentissima di faggi / le luci elettriche da un tetto all’altro / il fumo delle stufe che piega le cortecce. // Dici volpe, daino, gheppio». In ode SS, il «poememoriale» di Luigi Nacci, il primo aspetto che emerge è l’artefatta struttura del macrotesto. Nacci si rifà al topos del manoscritto ritrovato; il curatore fittizio prende la parola nella nota finale e scrive di aver rinvenuto nella località di San Carlos de Bariloche, in un giorno significativo (il 12 settembre 2001), un memoriale in versi, iniziato da anonimi camerati tedeschi e proseguito da tre gerarchi delle SS rifugiatisi in Sudamerica. Tra i testi vi sono anche dei madrigali che contengono versi di canzonette popolari triestine, istriane, dalmate, argentine. L’effetto straniante provocato dal dialetto suggerisce una sorta di familiriazzazione della prospettiva. Non vi è alcuna intenzione, beninteso, di dare delle SS un ritratto oleografico o peggio apologetico, ma semmai di svelare l’umanità del carnefice, rendendone ancor più intollerabili le colpe, proprio perché non riguardano un’entità altra, ma la natura dell’uomo da tutti condivisa. Del resto, come non riconoscere in questi versi terribili le voci anonime delle nostre comunità insofferenti: «ah se fossimo giovani / spareremmo agli zingari / per festeggiare»? Nei versi di Gilda Policastro, l’io si espone al contatto con una realtà vissuta in prima persona, ‘registrando’ in presa diretta le voci degli altri. La ‘vociferazione’ insensata degli anonimi serve anche come sfondo, dal quale si staccano i frammenti di un discorso doloroso e necessario. È in particolare nelle poesie per la madre che lo sforzo di spiegare, di sfogare i motivi di avvilimento di una generazione si mescola al dolore privato. In questo, le parole dei ‘maestri’ – magari rivoltate –sono d’aiuto, perché da un lato danno la possibilità di controllare l’espressione oggettivandola; dall’altro sono una risorsa per condividere il pathos con il lettore. Trovano spazio, così, il leopardismo di Precari («mamma mia com’eri bella, / col futuro vago in mente, / non così vago poi, con i tre figli») o l’esplicito (anti)montalismo di Invernale («Ma tu non sai / cosa sono le folaghe / e se vai non ritorni, no, / ché non vai per tornare, / non torni mai, con le folaghe / che non sai»). La poesia di Laura Pugno «poggia su una correlazione dialogica primaria», come scrive Cecilia Bello nell’introduzione. «Un tu-io che risolve una distanza identitaria […] in una sintesi dialettica». L’allusione è ai versi iniziali di madreperla: «tu-io sei quella che rimane / corpo quasi identico / visibilità estrema del da te / non visto». La correlazione risolta in una sintesi permette di considerare le poesie della Pugno come una sorta di ‘canzoniere’ rarefatto, dal quale cioè siano state sottratte le circostanze. Il racconto dell’esperienza scolora nel bianco, si raggela fissandosi nell’immagine della perla. La Pugno ricrea così un mondo levigato («un mondo prima del mondo», oppure un ‘dopo’ senza tempo), in cui la poesia può sopravvivere (e far sopravvivere) alla sottrazione: «c’è un dopo che non verrà letto / e non verrà pronunciato / accètta adesso, che s’incompleti / che sia tagliato / o sciolto, come in acqua». Ciò che per Laura Pugno è la perla – simbolo ossessionante e Leitmotiv – nella poesia di Italo Testa è l’ailanto, albero di origine esotica introdotto in Europa nel Settecento. Nell’introduzione, Umberto Fiori definisce l’ailanto quale «estrema germinazione di myricae e gelsomini notturni». Ma si potrebbe risalire fino alla ginestra leopardiana, dal momento l’ailanto è capace di erompere dai margini e dai luoghi inospitali: «Ailanti […] / vi lascio correre sui bordi incolti / dietro le massicciate, addosso ai muri». Solo che, a differenza della ginestra, l’ailanto non ‘sta’, non si limita a resistere, ma si insinua nel paesaggio e turba il soggetto.
(Niccolò Scaffai)
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