« indietro MIA LECOMTE, Terra di risulta. Poesie, con una nota critica di Gabriela Fantato, Milano, La vita felice, 2009, pp. 86, € 10,00.
‘Poesia dell’esperienza’ per usare un’etichetta ma non confessional, per escluderne subito un’altra. Eppure il libro di Mia Lecomte (Roma, 1966, «della generazione di carosello-e-poi-a-letto» come dice lei stessa, traduttrice dal francese, studiosa di poesia migrante, autrice di libri per l’infanzia) di testi ‘privati’, dedicati a una topografia e a una topica affettive, ne contiene parecchi. Ma sono testi corti in cui lo sviluppo potenzialmente effusivo del racconto è per lo più bloccato, colandolo in un’immagine-oggetto o perché la topografia proposta finisce per essere sempre di qualcun altro: «si attraversano luoghi sempre altrui» (apre il libro una citazione di Charles Simic, un classico dell’oscillazione tra appartenere e inappartenenza). Dai luoghi reali (posti di vacanza, le città di origine di amici internazionali), si estrae il codice sempre in fuga dei sentimenti («come a volte si crede qualcosa / come a volte si fugge»). Oppure si estrae un discorso meno privato, come la plaidoirie ecologista di Swissminiature, descrizione di un paesaggio alpino che tra cartolina, plastico del trenino e mercificazione propone istruzioni per «la manutenzione del paesaggio». Le figurine e gli «chalet dipinti» che lo riempono appartengono a quell’alluvione di oggetti che è il punto forte del libro. Un po’ perché questi tendono a prendere una vita propria che, se sembra quella di un libro per l’infanzia, il resto di fiabesco sembra restare incastrato tra infanzia e realtà, l’attesa andando delusa («il compleanno dell’elefante / alla fine si spegne per pochi», e, nella carne della memoria: «la maternità eppure non la ricordo»). Gli appendiabiti Reguitti, potenzialmente file di soldatini dello Schiaccianoci sono schiere immolate sul fronte «di giornate combattute senza grinze». Su fondale di vecchia Europa il bisogno di un’uscita sentimentale si rifà il trucco, alla Ripellino, in Carousel: «Cerchiamo capitali per poi chiuderci», in un serraglio di zoo tra una ridda di violini giganti e una giostra e «con un occhio far scorrere / lacrimevoli addii e con l’altro tutto interno di scordarli nell’istante / in cui batte la palpebra e dal centro il ritorno è scontato». La tensione tra vena sentimentale e oggettuale non è sempre allo stesso punto. A volte è l’autrice stessa che sembra intervenire per frenare l’una con l’altra decidendo di rimandare i conti con verità più pungenti in altra sede (cercando un innalzamento del tono attraverso un declamato luziano). Ma passa il messaggio chiaro di come il mondo domestico si protenda, almeno in immagine, verso il fuori, per desiderio di partecipare o capire sulla soglia di uno stupore per «quella neve che cade solo all’esterno».
(Fabio Zinelli)
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