« indietro MASSIMO GEZZI, L’attimo dopo, Roma, Sossella, 2010, pp. 104, € 12,00.
È sempre più difficile scrivere recensioni, perché è sempre più difficile – o forse lo è sempre stato – leggerne che rimangano impresse. Vi è uno stile rodato, e piacevole, per parlare di libri, e in particolar modo di libri di poesia. Il rischio di tale stile è però quello di essere buono per qualsiasi libro. È uno stile che si autosostiene, indipendentemente dal soggetto che lo esprime, e dall’oggetto che lo sollecita. Si vorrebbe, invece, che il recensore si compromettesse davvero con il suo oggetto di studio. Una vera arte della recensione implica un corpo a corpo: un recensore capace di esporsi, ingombrante, che si accampa con armi e bagagli nel testo che legge, non fingendo di decrittarlo a debita distanza. Capita invece che certi recensori, posti di fronte alla poesia, emettano densi fumi concettuali. Vogliono convincerci e convincersi che lì c’è molto arrosto. E vanno a costruire ciò che in genere una buona poesia disfa. Quelle architetture astratte, in cui scompare l’evidenza sensuale dei nostri quotidiani oggetti, la luce tremante dei nostri giorni. Poste ben in evidenza tutte le difficoltà del caso, proverò a parlare di un libro uscito nel 2010. Si tratta di un’annata abbastanza ricca, dal momento che ha visto la comparsa di diversi notevoli libri di poesia: L’invasione dei granchi giganti di Federico Italiano, Ulona di Edoardo Zuccato, I mondi di Guido Mazzoni e Shelter di Marco Giovenale. Parlerò de L’attimo dopo di Massimo Gezzi, perché, per diversi aspetti, è un libro che mi sembra muovere da un’idea o da un sentimento del genere poetico molto prossimo al mio. Ciò naturalmente non è indizio di nulla, quanto agli esiti della scrittura, e tantomeno può essere garanzia di affinità stilistiche. Qui siamo piuttosto sul terreno di quello che sia chiama ‘poetica’, ossia quel fascio di operazioni immaginarie che si destano in noi, quando andiamo a scrivere o a leggere un testo poetico. Detto in altri termini, Gezzi riesce a fare, e in un modo quasi sempre impeccabile, ciò che la poesia, oggi, come genere, può soprattutto fare: mettere in figura la nostra vita molecolare, che laicamente si disperde di continuo attraverso le maglie di più solide, ampie, narrazioni. Le poesie de L’attimo dopo sono di una monotonia disarmante. Vi è un soggetto che, con tenacia assieme vitale e riflessiva, impiega le sue energie espressive a valorizzare ciò che a me piace chiamare, con termine falsamente tecnico, infraordinario e che Georges Perec definiva come tutto ciò che accade tra un evento e un altro evento. Intervalli altamente densi, ma che non rientrano nella materia abitualmente narrabile. Qualche incipit: «Mi alleno così: imparo a numerare / le ombre che mi passano fra palpebra / e pupilla mentre dormo …», «Le linee verticali della grata, / le linee orizzontali della tenda / di alluminio: tutta qui / la cornice della cronaca / che porta non so dove, nel fiume della storia / o nelle secche dei sogni. (…)», «Non perdere di vista nulla: la luce / per un attimo più incerta di un lampione». Quest’ultimo attacco, è introdotto da un titolo esplicito: Comandamento. Gezzi immagina la poesia come postura, habitus, atteggiamento etico. Lo sguardo ‘lirico’ è frutto di un ‘allenamento’, di un ‘apprendimento’, è conseguente a una qualche forma di imperativo. Non è insomma nulla di spontaneo. Certo, siamo su un terreno eminentemente impolitico, prima di quella complessità di intrecci narrativi e di destini, di azioni e lotte, che costituisce l’universo degli affari umani. La poesia come postura dello spirito, come esercizio della mente, implica una dedizione per la prossimità: i resti, gli sfondi, gli scenari secondari e periferici, gli incontri casuali, «un po’ di ghiaccio secco sul selciato». Ora questo sforzo di tesaurizzazione si realizza contro e attraverso la transitorietà, che governa l’esistenza umana sotto il segno del ritardo: dell’attimo dopo («passano gli uomini, si arrendono allo spazio, / e nel farlo si convincono / che passare è il loro unico motivo / per essere nel mondo …»). La saggezza che la postura poetica esibisce è dunque questa: il destino mortale dell’uomo rende vane le passioni brucianti della contemporaneità: accumulare, essere visti, dominare gli altri. Allo stesso modo, però, restituisce importanza e intensità, a quanto appare del tutto irrilevante o estraneo a queste passioni. Se la vita e la realtà, nel binocolo rovesciato dei media, sono sempre altrove, remote, nella poesia esse sono raggiungibili ogni istante, sotto forma di traccia, scia, resto, alone. Tesoro fragilissimo, eppure evidente, interno allo spettro erotico di qualsiasi individuo, che ha di fronte a sé l’inesauribile materialità del mondo: «La materialità dell’esistenza / è cosa certa: nei pavimenti o sotto i letti / le matasse di polvere nascondono / organismi piccolissimi, i quali, al microscopio, / rivelano corazze o altre parti di carbonio». Ci sarebbe molto da dire, riguardo al modo in cui Gezzi realizza i suoi obiettivi: piegando la lingua alle esigenze di una figurazione nitida, e non sfuocando il mondo negli effetti poetici della lingua. Ma questo discorso esula dallo spazio concesso. A conclusione di questa lettura, vorrei invece segnalare un aspetto del libro che mi ha lasciato perplesso. Ad un certo punto, ho avuto l’impressione che l’innegabile maestria di Gezzi facesse tornare tutti i conti, sempre, forse troppo. Quasi che il processo di tesaurizzazione della prossimità non incontrasse mai zone di estremo turbamento, di non-senso palese, di delirio. Difficile dire se si tratti di un eccesso di mitezza e di controllo, oppure se ciò sia il frutto di un consapevole rifiuto di sregolatezze a buon mercato. Si avverte, però, di tanto in tanto, come il rischio di una compostezza precoce, quasi che un infallibile processo di sublimazione avesse già ripulito e stilizzato ogni ferita.
(Andrea Inglese)
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