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ELISA DAVOGLIO, L’orlo di Galois (n>4), Roma, La Camera Verde, 2010, pp. 36, € 15,00.
 
Con L’orlo di Galois Elisa Davoglio prosegue la propria ricerca tra poesia e semantica scientifica, che già ha dato ottimi risultati in testi precedenti (come, ad esempio, Lethal Dose 50, del 2008). In quest’opera una serie di testi in versi va a comporre un unico oggetto poetico ispirato da un personaggio della storia della scienza: Évariste Galois, matematico francese morto nel 1832 a soli 20 anni di età in un duello che, spiega l’autrice stessa, «accettò per salvare l’onore della donna amata». L’importanza scientifica di Galois, come le note di apertura e di chiusura ricordano, è dovuta alla celebre teoria di Galois, di cui «uno dei piú grandi risultati» rinvia al sottotitolo del libro: «n>4 esistono polinomi di grado n che non sono risolubili da radicali». Benché utilissime, le due note di apertura e di chiusura potevano forse essere condensate in una sola, data la presenza di altri, peraltro interessanti, paratesti: una foto di un manoscritto di Galois, un testo in francese dal suo diario e una poesia di chiusura. Nella breve, intensa citazione da Galois, cosí come nella nota di apertura, il lettore può ritrovare le ragioni di uno degli elementi piú originali del libro della Davoglio: la ripetizione ossessiva dell’esergo «non ho tempo» all’inizio di ogni testo. Come spiega sempre l’autrice nella nota introduttiva, Galois cercò di radunare per iscritto i principali aspetti della sua teoria la notte prima del duello, giustificando qua e là le lacune delle sue dimostrazioni con l’annotazione a margine: «je n’ai pas le temps». L’originalità del dispositivo che potremmo definire esergo anaforico non è esclusivamente formale: il libro della Davoglio distorce con maestria il vettore temporale che è evocato dall’esergo stesso, riuscendo a rendere da un lato la frenesia notturna del giovane matematico al lavoro, e, dall’altro, dilatando, rallentando e verbalizzando fino a rendere poesia gli interstizi «psico-temporali» minimali prodotti dai ricordi, dai pensieri e dalle sensazioni di una persona sull’orlo, appunto, della morte. Orlo che diventa bordo della pagina su cui, in realtà, non solo Galois, ma tutti noi vorremo scrivere «non ho tempo», consegnando allo stesso tempo i nostri pensieri al tempo che verrà. Il libro della Davoglio vuole rendere giustizia alla morte di un uomo, rievocando nella scrittura poetica non solo il suo pensiero per cosí dire «pubblico», ma anche i movimenti dell’intimo, le paure, i desideri, le incertezze e le rimembranze che accompagnano la nascita enigmatica di un’opera intellettuale, sia essa matematica o poetica. Dal punto di vista dell’efficacia del linguaggio forgiato dall’autrice, i risultati migliori sono quelli in cui tale distorsione psico-temporale e l’incontro parallelo tra poesia e semantica matematica producono dei veri e propri corto-circuiti del pensiero, che diventano in sede poetica corto-circuiti verbali e dell’immaginario, nei quali il dato matematico si fa esperienza del vissuto o filtro di lettura del reale e della sua ineluttabilità: «andrò a male / come quando prendevo il largo / tendente verso finito», o ancora: «ho consumato gli addendi e i fattori / l’equazione è in equilibrio sulla carne», «un moscerino entrò nei fattori invertiti / sotto la lingua», «dopo l’alba abiterò una città di Babilonia / per scrivere cifre in cunei / per allora coltiverò lo zero». In tali corto-circuiti si inserisce quella che ci pare un’espressione chiave dell’opera: «smacco da non farsi formula», verso conclusivo del testo a p. 22 che dice non solo la vittoria contingente del tempo sul pensiero, ma anche e soprattutto l’irriducibilità dell’enigma dell’esistenza. Similmente, la conclusione del testo seguente: «se la formula si abbarbica sulle tende / a togliermi il mistero della salvezza» condensa con intensità la sovrapposizione identitaria tra astrazione e contingenza, tra l’ignoto e la ricerca per la conoscenza, tra il pensiero della morte e il pensiero tout court.
 
(Alessandro De Francesco)
 

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