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FRANCO BUFFONI, Roma, Parma, Guanda, 2009, pp. 175, € 13,50.
 
«Roma con i suoi orizzonti che provengono / da altri orizzonti più remoti» è il cronotopo ricco, stratificatissimo, che Franco Buffoni delinea nel suo ultimo libro di poesia intitolato alla città nella quale da un decennio abita con sguardo e cuore di «vecchio longobardo assente». In Roma il rapporto con i luoghi e con la storia assume una dimensione fondativa: non basta dire che è un libro dedicato a una città, è piuttosto il libro in cui una città viva e vissuta si mostra nel suo presente – e nelle sue attuali contraddizioni – in tutti i suoi più stretti legami col passato, fin da quando «erano tante Rome disperse nei villaggi». Un passato di fasti e di rovine: la Domus Aurea per caso riscoperta nel Rinascimento, «l’archeologia industriale / Tra Piramide Cestia e San Paolo» dove rifugiarsi «come in un film di Ozpetek», la memoria degli Horti Ceasaris dove «il dittatore ospitò Cleopatra» e Villa Torlonia dove un dittatore più recente ospitò Hitler, le catacombe esplorate da Antonio Bosio nel Cinquecento, il Gianicolo su cui Galileo salì col telescopio, e il Celio «coi Santi quattro / I battisteri del Celimontano / Gli affreschi di età imperiale / E le viscere di San Clemente / Dove a parcheggio illimitato è il tempo». Nei versi di Roma il tempo ha tutta la sua corposa consistenza di pulviscoli e di luce, ha le imprevedibili curvature d’ombra del barocco romano, la scabrosa nettezza e la forza d’impatto dei particolari sbalzati in primo piano da Caravaggio. Ha la consistenza della storia che non si può – non si dovrebbe – disconoscere o ignorare. Dolorosamente, via Rasella si svela d’un colpo in una singolare omissione della memoria pubblica: «vi ho cercato lapidi segnali. Nulla, / Fuor che nero fumo vecchie insegne / Imposte del tempo dell’agguato, / Qualche ciottolo scheggiato», ciottoli e fumo essendo unici elementi evocativi dell’attentato per la valenza oggettuale (correlativa) del nero e delle scheggiature, e per la sequenza esplosiva delle dentali sorde. La marca connotativa più forte in questo libro di Buffoni è la trasparenza con cui pone in cortocircuito passato e presente, un procedimento limpido, asciutto e di grande efficacia. Esemplare è un testo che immette la memoria agghiacciante delle Fosse Ardeatine nell’ordinaria quotidianità di una strada affollata: Siamo tutti un po’gibollati all’Ardeatina. L’evidenza fisica – ché sempre la poesia di Buffoni ha consistenza palpabile –, l’essere schiacciati e ammaccati («gibollati»), il soffocamento dato dalle «cinque corsie dove al massimo / Dovrebbero starcene due», i disagi della privazione e della fatica di chi va presto al lavoro stridono, nella loro semplice banalità, con il tremendum dell’eccidio: «senza caffè alle sette di mattina, / Alcuni furono finiti col calcio del fucile / Sono stati trovati col cranio sfondato / Erano ubriachi alla fine gli assassini / E sbagliavano la mira, / Uno era qui accanto all’uscita ostruita / Si era trascinato in agonia». Sotto il profilo poetico e concettuale il tessuto è stringente: il collettivo ‘noi’ dell’attacco («Siamo tutti») e la prossimità degli avverbi («qui accanto») ci impongono di non distogliere lo sguardo, di fare i conti con la storia, e di farli ogni giorno. Anche quando è prevalentemente puntato sull’oggi, lo sguardo di Buffoni è sempre etico e memore della lezione lombarda di Sereni e di Raboni. A tratteggiare il carattere del suo impegno civile bastino, nell’ultima sezione, tre immagini di semplicissimo candore, tre esemplari profili di dignità: «Il trenino delle famiglie arcobaleno» che «Luccica e avanza al centro / Della manifestazione»; due donne che si scambiano «un’effusione / Un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra»; e una coppia di giovani «puliti timidi e raggianti / Dritti sulle sedie col menù». Tutti i luoghi percorsi da Buffoni in Roma sono carichi di valenze plurali, letterarie ed emotive: così le prime due sezioni, Quella stellata sopra il Foro Italico e Quando i maschi si svegliano insieme, nella loro cifra storico-culturale, gli spogliatoi e le docce, i campi sportivi, i lanci di giavellotto e le prese dei lottatori, rivelano una vitalità fisica pasoliniana, una passione omoeroica, una «gloria di tanti desideri» seduttiva e solare come il Mediterraneo. Ma se a Pasolini rimanda il «fanciullo intempestivo» che ha «occhi borgatari / Della steppa / Sull’asfalto marchetta di piazza Cervantes», a Penna rimandano certe ricorrenze cromatiche, certo «azzurro» delle sezioni IX e X, penniane nel nitore delle descrizioni e nelle allusioni all’arte, carissima a «lui che in quadri commerciava». Si schiude qui una Roma olfattiva oltre che visiva e tattile, una Roma di qualche decennio fa, intravista in spiragli di cortili, lungo «scale dei palazzi», percepita in un «odore di minestrone» o tra «profumi di lacca parrucchiera». Immagini di lirico realismo che davvero rimandano a quel «maestro della poesia semplice», per dirla con Porta, che era Penna. A legare idealmente Buffoni a Penna corre anche l’amore per l’arte, la sensibilità alle suggestioni pittoriche, utilizzate, in Roma, non come potenziali vie centrifughe, ma come precise forze centripete. Nelle sezioni mediane Caravaggio, Van Eyck, gli architetti e i pittori che lavorarono a Roma portano al centro, portano inguaribilmente al cuore di Roma, vissuta a volte da Buffoni «come una grande quadreria». Al cuore di Roma, ai suoi sotterranei, portano anche le volte della Domus Aurea visitate da pittori come Raffaello e Pinturicchio che proprio da quelle aule mediarono la moda delle grottesche. Ciò che più sembra interessare Buffoni è la sovrapposizione culturale e la relazione tra epoche. Tre sono i momenti emblematici in «Sodomito» vergò un giovane collega: la Domus che un imperatore scaltro ed esorbitante come Nerone volle immensa e superba di un lusso corrotto fino al Kitsch; il Pinturicchio che, fattosi calare per osservarne gli affreschi, lasciò sulle volte la propria firma offrendo a un collega invidioso l’occasione di aggiungervi l’insulto «sodomito»; il salto alla nostra contemporaneità nel soprannome ‘Pinturicchio’ che Gianni Agnelli aveva dato al calciatore Del Piero, parallelo al ‘Raffaello’ che aveva assegnato a Baggio. Fatti distanti nel tempo, intersecandosi, finiscono per illuminare obliquamente l’oggi, la superficialità e l’arroganza dei dominatori e dei ricchi; le diverse forme di committenza che attraverso i secoli il potere ha finanziato. Il tutto tenuto sul basso continuo di una vitalità sempre tesa, vibrante: dall’imperiale reggia esagerata di sfarzo e di vita, ai «giovani pittori [...] maschi» che vi si calarono per studiarne colori e stucchi, al calcio e alle sue accensioni di sensualità. La storia, in Roma, è intessuta di arte e di letteratura, ed è posta in connubio con la scienza, secondo quell’attenzione vigile al progresso – attenzione illuminista, non romantica – che è propria di Buffoni. In questo senso va inteso il portato civile delle sue denunce, siano quelle degli eccidi che Roma compì a Fregellae come Cartagine distrutta, o dei guerrieri sassoni destinati a orsi e coccodrilli nell’arena; siano quelle della stolta durezza Vaticana che gettò «in ginocchio il vecchio Galilei / Dinanzi ai cardinali tronfi e bolsi»; siano certe dipinte immagini di tortura, la «lingua strappata alla radice», e le streghe e «i libri eretici nel fuoco». Là dove Leopardi sconta la sua realtà di suddito pontificio con passaporto della Reverenda Camera Apostolica, o Keats inorridisce per le fucilate con cui nelle paludi Pontine un «cardinale uccide gli usignoli», vive e agisce il nucleo etico più caldo della poesia di Buffoni. Quello che combatte contro la violenza e le pratiche censorie dell’oscurantismo e cerca i segni dell’uomo sepolti nei millenni, oltre i «sette strati» di Urkish, riconoscendo il concetto del tempo profondo nell’intuizione con cui il «contino Giacomo» immaginava «immensamente lunga / La storia dell’umanità», e celebrando il «ridicolo e il grottesco delle Operette / Per eccellenza armi illuministiche / Contro antropocentriche metafisiche».
 
(Cecilia Bello Minciacchi)

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