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NANNI BALESTRINI, Caosmogonia, Mondadori, Milano 2010, pp. 95, € 14,00.
 
Caos e cosmos, due termini in contraddizione, fusi in Caosmogonia, ossimoro che appare l’esito di quello ‘sfinimondo’ che Nanni Balestrini aveva descritto nella sua precedente raccolta (Sfinimondo, Bibliopolis, Napoli 2003). Non è difficile rilevare l’importanza di Caosmogonia, e misurarne la coerenza e la continuità, rispetto all’opera complessiva del poeta. D’altra parte, è opportuno segnalare qui i suoi punti critici, i momenti di scarto, in rapporto a una realtà storico-politica che, negli ultimi anni, ha confutato ogni ingenua lettura riduttiva della complessità, e vanificato ogni sforzo di tenersi a distanza dalla minaccia che i mezzi di informazione («da cui è scomparsa l’espressione», in cui «la diffusione ha preso il sopravvento», «siamo pieni di mezzi di comunicazione // ma non c’è più comunicazione / definitivamente in mano ai mercanti…») portano alla conoscenza e al sapere. Se l’interesse della società dello spettacolo e dei consumi è tutt’altro che dire la verità, la poesia può accontentarsi di restare entro un sacro recinto di ‘simulacri’? Certamente no. Ma attenzione al ‘pubblico della poesia’. Si badi, cioè, di non accontentarlo senza invitarlo ad «ascoltare veramente» la poesia, così come scriveva anni fa Balestrini nel prologo epico alla vita della signora Richmond: questo pubblico «ama la poesia / perché vuole essere amato», investe sulla lettura per sentirsi in fondo «rassicurato / del suo profondo amore per se stesso», e però ignora quale «disperata impossibilità e inutilità» ha questo suo amore, dal momento che, se lo sapesse, «si prenderebbe a schiaffi dalla mattina alla sera / brucerebbe tutti i libri sulle piazze / si butterebbe in un canale / o finirebbe i suoi tristi giorni in un convento». Alla poesia, per farsi ‘ascoltare veramente’, non resta che far capire che il linguaggio non è innocente, e che il significato delle parole (simile a quello degli oggetti) è determinato dall’uso. In questo libro, fermo restando che il motore della poesia, come dell’arte del Novecento, è il ‘montaggio’(che non vuol dire solo cut-up, ma anche «vedere la vita») esplicitamente tematizzato nella terza ‘godardiana’ serie di testi, Fino all’ultimo (Au bout du souffle?), tradizione e innovazione si scontrano ridisegnando un nuovo patto linguistico che non si risolve con formule di non belligeranza o di convivenza pacifica ma coatta, ma si ripropone come oltranza provocatoria verso ogni abuso o svuotamento di senso e stana il lettore dal suo rassicurante orizzonte d’attesa. In tal senso, Caosmogonia smentisce subito ogni fallace prospettiva sulla sua ‘compiutezza’ («un’opera su un’opera come tutte le mie opere indeterminata / un gioco senza scopo un’assenza di finalità»), e afferma per contro le possibilità di un linguaggio che spezza il convenzionale circolo ermeneutico e disloca, fra gli strati di vuoto asfissiante, negli interstizi di lucida afasia, un ‘io’ decentrato, capace di asserire «io non ho niente da dire», ripetendo quanto, ne Il pubblico del labirinto, Balestrini aveva sottolineato: «non ho proprio niente da dire, / ma ho voglia di dirlo». È un avvertimento di senso che non cambia la rotta della poesia in vista di un favoloso approdo mistico, onde dissolvere ogni disperazione nostalgica o mortuaria. Così come il ricordo – compreso quello falso – non è che il frutto di una particolare stimolazione neuronale, ora la parola appare come la sintesi ‘fisica’, cioè filtrata dai sensi, di un elaborato elettrochimico del cervello, e ogni verso schizza sulla pagina descrivendo un moto mentale frenetico e impassibile, come in un elettrocardiogramma. Caosmogonia, dopo le tre sinfoniette iniziali (Tre studi per un ritratto di F. B., Empty Cage, Fino all’ultimo), intese a mietere dal linguaggio anti-mimetico di grandi artisti (Francis Bacon, John Cage e Jean-Luc Goddard) il frutto di una concezione anti-lirica della poesia, afferma nelle due sezioni centrali (Lalinguafuori e Atti pubblici) la sostanziale ‘irresponsabilità’ della poesia, cioè la sua incapacità a rispondere alle domande sul senso, se non abbandonandosi agli spasimi giocosi e angoscianti di una scrittura semiautomatica, in cui le parole, vissute come flussi opachi di segni, si combinano e si sommano, si azzerano e si embricano intorno a un nastro invisibile che scorre al centro della pagina, ora alternando, in Lalinguafuori, gruppi omogenei di versi, ora scheggiando, in Atti pubblici, rivoli di distici e frasi che intercalano pause e scatti, vocaboli esplosi e disarticolati (come «ri», «rivol», per dire «rivoluzione»). Il poeta non deve illudere nessuno («odio le incombenti / strazianti immaginarie / cartografie dell’anima»), compito suo è di muovere la parola alla rivolta contro l’obiettivo dell’io che mente per farsi perdonare, contro l’idea che il lettore accetti la menzogna per farsi amare. Che cosa resta delle «sparpagliate spaurite / barcollanti senza / variazioni senza / senso parole in fuga senza / destino clonate»? Perché non buttare via la «zavorra» dell’esperienza e non puntare a un’altra «messa in scena» della scrittura? Sembra allora che tutta la raccolta sia una sorta di prologo alle Istruzioni preliminari che chiudono, con un’acrobatica prova metrica (sestina doppia e caudata di 13 stanze, in cui i versi 2, 4 e 5 di ogni stanza riprendono puntualmente quelli della precedente), il libro e ne dissigillano il senso, anzi il dissenso, adottando un registro epico-gnomico: «il nostro mondo sta scomparendo / i tramonti succedono ai tramonti / si può sentirne lo strappo silenzioso / scorrere il sangue la vita che fugge / su fogli di carta corrosi sbiaditi / accarezzando le parola ancora visibili…» Ecco l’umana, errante visione ‘caosmogonica’ dell’universo. Al «vecchio mondo» ne subentra «un altro»: sarà una lotta (ecco «scorrere il sangue la nuova vita che arriva») dall’esito incerto. Alla poesia tocca preparare l’attacco a una società che formatta le coscienze rendendole incapaci di superare la «palude della sintassi» e di utilizzare criticamente la «scrittura come un flusso non come un codice»; e se è troppo presumere che dica la verità, essa potrà almeno contraddire ogni presunta verità.
 
(Salvatore Ritrovato)

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28 maggio 2021
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