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GIACOMO TRINCI, Senza altro pensiero, Torino, Nino Aragno Editore 2006, pp. 70, € 14,00.
 
Riservato colloquio di un poeta che col suo dire disteso, ininterrotto flusso di coscienza, scopre alla madre «cosa da molti anni / chiusa dentro»; questo, il registro lirico della raccolta, in cui, se la struttura metrica che traspare è quella del sonetto petrarchesco, è tuttavia sonetto già impiegato da un Pascoli dei più intimi capitoli (i tre Anniversari di Myricae e Colloquio), tempi affrancati dal pudore dell’adulto, e destinati all’inespresso ego del figlio. Il segno che allude a una continuità di confessione, taciuta in vita, ora con la parola scritta rivelata, sta tutto in quella congiunzione (in minuscolo, come sempre a seguire il punto fermo riprende il fabulare della psiche) su cui il libro si apre: «e il dato sbriciolato scorre», tratto che non potrebbe essere più esplicito richiamo ad un’usanza poetico-filiale, a quel serale intrattenersi coi defunti di Pascoli. Resta, lingua speciale dell’esclusivo dialogo, il canto che da viva la madre richiedeva al figlio: «mi facevi cantare ed io cantavo / per far mostra di te che mi mostravi», arie di un bel canto operistico, il cui agile metro, le cui rime scontate, giocoso mezzo un tempo per conquistare approvazione, sostanziano l’odierna poesia dell’uomo e sono un debito contratto con colei a cui tal canto è dedicato e prima guida a cui si deve la propria «attitudine poetica»: «fragile gola – madre – mio portento». Sull’incondizionata chiusura di questa relazione, che informa l’intera raccolta – 54 liriche esclusivamente intese a evocare una madre ormai lontana (seppure divisa «da un niente»), col tradizionale «tu» montaliano (pronome-senhal con cui sempre un Pascoli dei riti a vespero si rapporta con l’ombra della madre, nelle sue cicliche epifanie; si pensi, oltre ai ricordati capitoli myricei, alla Voce e al Ritorno a San Mauro) – non è permesso nutrire dubbio alcuno, per quanto si possa essere illusi da quella pluralità di astanti («canto per voi») che sempre a un Pascoli dagli intenti collettivi sembra ispirarsi, all’oraziano cantore di Odi e inni («Per voi io canto»). Immediata giunge la correctio: «canto per te – che tu non vada / e resti nel tuo vento / in questi versi che respiro, e vivo», per quel soggetto lirico, unico ed ossessivo, che solo basta ad incarnare un sistema di ricordi sensoriali («gli odori i passi i suoni i vivi accenti / gli abbracci le carezze le cadute / canto per tutto […]»). Midolla segreta di umili piante, che traggono linfa dal corpo sepolto, non più osservato col compiaciuto senso della putrefazione tipico di capitoli quali La voce, ma recepito nella sua mutazione vegetale («ogni filo dell’erba trema te»), nel suo distacco di morta la madre è strumento per comprendere il mistero dell’assenza: «e non sapevo che il morirti è questo», da parte del superstite che avverte nella sua essenza il vivere terreno: «che vivo la penuria della vita» (maestro di tali figure etimologiche e di un uso transitivo di verbi intransitivi il poeta di Colloquio). Se ha ragione Massimo Gezzi («L’indice») ad accostare Senza altro pensiero ai Versi livornesi, a un Caproni cantore ‘innamorato’ della giovane Anna Picchi, l’atmosfera ctonia di tali apparizioni della madre che torna a visitare il figlio col suo bagaglio di memorie rusticane (è, quella di Trinci, una provincia in cui campagna e realtà cittadina convivono, pasoliniano quadro di un’Italia antica già violata, a rappresentare la quale ben si presta l’accumulatio petrarchesca che annovera canoniche presenze e nuovi elementi: «[…] fra bus ed auto / fra volti ed erbe poggi e campi e voci»), presuppone come archetipo primo il Pascoli delle catabasi domestiche. Echi e motivi si colgono nella loro finalità allusiva: il flatus del fantasma resta tale («chissà se soffia smarrita la voce»), ovvero il tocco della morta è evanescente al pari dell’appello dell’accorsa: «sfinito quel tuo tocco e non c’è altro. / adesso è andato quando scrivo ‘adesso’»; «con un fruscìo di gonna» si segnala ancora il «patuit dea», in un elenco che rivela il plazer della sperata epifania: «fruscìo di stoffe passi tossicchiare / leggero toni bassi sussurrìo […] eri tu». Fatale il dissolversi del sembiante della donna, tema degli Anniversari, qui riaccostato al suo plausibile modello foscoliano: «smarrito guardo chi non riconosco. / sei tu, ti dico, misurando appena / quello che mi rimane del tuo viso / quando ti penso ancora dentro il tempo. / questo di vita tanto mi rimane». Frasi di un lessico familiare codificato in Colloquio sembrano ripetersi in eterno: «la luce che mi hai dato e che non vedi» («La vita / che tu mi desti […]»); come gli addii tra vivo e morta paiono reiterare i saluti di Commiato: «adesso ti prepari per andare / come se niente fosse il mio partire», «ognuno andava per la propria strada / come si deve fare fra maturi». Così, là dove a carezzare piano lo spettro, è un figlio pieno di premure, le stesse della amente delicata, la madre dell’Aquilone («quella notte in un sogno che svaniva. / sfumava lieve quando ti toccavo / le mani e poi ti carezzavo piano / per non farti sparire e cancellare»), non possiamo che prendere atto di quanto davvero il canzoniere, che Trinci dedica alla madre, proceda – scambiando a volte i ruoli degli attori – in un dialogo continuo con l’officiante i riti di una recondita religio familiare.
 
(Francesca Latini)

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