« indietro MICHELE SOVENTE, Bradisismo, Milano, Garzanti 2008, pp. 247, € 19,00.
«Precari i platani, gli olmi, i salici piangenti, i pini». E altrettanto «precari i gesti [...] Precarie le facce e le case. / La precarietà è soprattutto una condizione dell’anima oltreché del corpo». Per chi vive su una terra che non sta ferma la precarietà è una condizione geologica e ontologica. La terra di Michele Sovente – sulfurea, inquieta, ancestrale a dispetto dei tempi – ha non poca parte nella chiarezza con cui egli avverte l’inarginabile forza della precarietà. Bradisismo, che è libro di qualità riflessiva, ha tra i suoi fulcri proprio la percezione e la rielaborazione intellettuale dell’instabilità: «salgono scendono ruotano / frammenti ocra e antracite». Il paesaggio è topica allegoria di una condizione personale, sì da giustificare l’analogia tra superfici diverse ma similmente oscillanti: «Il sismografo va / registrando ogni / sussulto della mia / crosta cerebrale». La percezione di sé appare quanto di più effimero si possa concepire – o liricamente rievocare, risalendo fino a Omero e Mimnermo –: «mi vedo come una foglia / che nel vento si logora»; «io nelle ombre mi perdo». Tornano, in Bradisismo, immagini e temi già da Sovente attraversati: le ombre – «Io e l’ombra. Io ombra» – che abitavano Per specula aenigmatis (1990), e l’«imperfetto equilibrio» di affetti e sostanze sotteso a Carbones (2002). È una poesia ancorata alla natale terra flegrea. I quattro fiumi dell’autoriconoscimento ungarettiano, diventano quattro laghi che, mantenendo qualità amniotica e stratificazione storica, segnano la mappa di una geografia esistenziale esatta e tersa: «Io nell’Averno mi perdo / nel Miseno mi scopro / al Lucrino chiedo quiete / nel Fusaro cerco la luce». Il valore paradigmatico di questa terra genera suggestioni immaginative di grande forza poetica e una pervasiva coscienza della caducità e dell’incertezza. La terra flegrea è palpitante, abitata da larve. La luce è affranta, le ossa tremanti. L’io messo a fuoco nel trittico centrale di Autoritratti è un «io sghembo io sdrucito io distratto»; si muove tra rottami e ha molti vuoti di memoria. Nella scelta di una dimensione personale consapevolmente dimessa, il soggetto poetico si muove nell’indeterminatezza, archivia l’effimero, sa di non potersi aggrappare a verità. La vita percorre tracce minime, il significato delle cose sfugge, il senso «occhieggia tra i vuoti, va / alla cieca, s’incista / nell’incongruo». Nulla permane immutato, le statue sono «smangiate dal vento», le impronte ingoiate dall’acqua. Gli elementi si avvicendano nella trasparenza, vengono gli uni dagli altri – «il sale / viene dal mare / il mare / viene dal tempo / il tempo / viene dall’acqua» – in una catena presocratica che ha come primo anello il «niente». Le sezioni in cui è articolato Bradisismo insistono, fin dai titoli, su costituenti basilari come sale, approdo, contrapposte rive, nave, acqua. La dimensione prioritaria pare quella equorea, del viaggio per mare – la nave dei pensieri –, che è tuttavia, in senso letterale e metaforico, un viaggio senza scampo né approdo. Il mare fa scaturire d’improvviso i ricordi d’infanzia e fa vedere «il mondo in un modo diverso», come racconta una prosa di folgorante bellezza, Vicino al mare...; ma è anche l’orizzonte tragico che apre lo sguardo a riflessioni sociali e politiche. È l’orizzonte in cui i «biechi traghettatori» prezzolati, gli «orribili caronti» che sono «pura emanazione di una cosmica strategia di morte» affogano gli «stranieri stremati», si liberano dell’umana zavorra consegnandola «alla fame sopraffina dei pesci». E nel mare resta la scia bianchissima di «un clandestino dolore». Il poeta sa di pronunciare frasi «sfatte» e di inciampare «in rottami quotidiani». Pur determinato a resistere, è in bilico come tutte le cose, è «al limite di crateriche / fenditure» da cui la sua voce si leva «malcerta»; sta «al confine» e non vede l’orizzonte. Finanche le parole che mastica possono avvolgerlo «come un ragno», trasformarsi in cupi «ragnipensieri», e tuttavia alle parole ricorre, a una lingua poetica che è, anzi, sostanza stratificata e terragna. Tre sono, da anni, le lingue in cui scrive Michele Sovente: l’italiano, il latino, il dialetto della natale Cappella. Non è una terna di per sé salvifica, ma è certo ampliamento delle possibilità semantiche e degli echi fonetici, testimonianza sul bianco della carta di una storia linguistica, ed è davvero una triplice scrittura, soprattutto là dove le tre lingue compaiono all’interno di un medesimo testo (Bianco e Quasi nebula). Non semplice traduzione, ma scrittura autonoma in lingue che si presuppongono e che meglio tentano di resistere, così sedimentate e variamente attinte nelle loro più ampie e vibranti sfumature di toni, alla mancanza di pietas dell’erosione onnivora.
(Cecilia Bello Minciacchi)
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