« indietro EMILIO RENTOCCHINI, Del perfetto amore, con una nota di Marco Santagata, Roma, Donzelli 2008, pp. 95, € 13,00.
Pensando all’amore, alle sue occasioni e alle sue modalità, ai suoi gesti e alle sue circostanze, risulta quasi scontato immaginarlo agire nella sua ambientazione naturale – quella notturna – che emblematicamente lo avvolge e alimenta. Così avviene nei sonetti Del Perfetto amore di Emilio Rentocchini, immersi indistintamente con le loro vicende nel buio, nella sera, nella penombra, e anche quando le notti trascolorano nelle albe di giorni incalzanti, questa luce ritrovata d’atmosfera non dirada tuttavia una zona oscura della comprensione, poiché quanto più le argomentazioni dei versi sondano pensieri minuziosamente analitici, «esperienza da entomologo», e logicamente organizzati, da «esegeta di sogni», tanto più rimangono scoperti spifferi, spiragli di risposte incompiute come fari abbaglianti nella nebbia, che invece di aumentare la visibilità rendono la coltre più fitta. I fatti, le situazioni dei testi con i propri interrogativi di valenza esistenziale, fin nei minimi termini, restano irrisolti perché irrisolvibili, «sapendo di non essere che stampi / larve di fango stese ad asciugare / il proprio tempo, lingua, e silenzio / che riassorbe il detto e annienta l’ente». Non si può giungere a spiegazioni definitive, permane sempre qualche «spigolo» ineliminabile, quello ad esempio – presagio ironico di metonimica «tragedia» – «del wafer che si sbriciola / senza potersi sciogliere nel tiepido / del latte zuccherato [...] / che toglie ogni purezza alla mattina». Rileva bene in nota Marco Santagata la «circolarità perfetta» di questo, per sua definizione, «canzoniere» (ma del Petrarca non vi è altro che la scelta del sonetto quale prototipo di forma espressiva e un rapporto di coppia immerso nel quotidiano), aperto dall’esergo di un distico shakespeariano in lingua originale e concluso con il medesimo distico pronunciato per bocca di Giovanni Giudici. Va aggiunto che potrebbe apparire azzardato scegliere di cimentarsi idealmente con il grande drammaturgo, la cui poesia ha contribuito a cambiare il modo di parlare e intendere l’amore, avendo così a fondo indagato temi quali l’interiorità, la mancanza, la sottrazione e la perdita, il dolore per un sentimento non corrisposto o covato in segreto perché ‘sconveniente’. La competizione però viene elusa: qui non c’è tormento, casomai appagamento e la voglia di comunicarlo, perlomeno di esprimerlo. Se nei sonetti di Shakespeare domina l’aspetto intellettuale del sentimento d’amore, in questi emerge sì l’aspetto intellettuale, ma dell’atto fisico d’amore. «In me il suo coito acuto è come il canto [stilema di gusto sanguinetiano] delle sirene liquide di vento: / divina vanità... mare... ritorno». Oltre al cuore e alla mente, topos amoroso è dunque anche «la scintilla del clitoride», motore e propulsore concreto e tangibile di momenti di ispirazione poetica. Significativo è un brano, «Se per amarti devo non amarmi», di evidente contorsione shakespeariana: dopo un susseguirsi di premesse, di protasi spinte al paradosso, viene constatato infine che «allora – cioè qui adesso – mentre scrivo / imparo a sillabare l’infinito», ossia il processo esattamente inverso rispetto alla presa di coscienza dell’io amante in Shakespeare, il quale spesso non si accontenta di trattenere solo un frammento cosmico, ma vuole quasi abbracciare l’intero universo, o confondersi in esso, come per estasi e risarcimento di un amore mancante, di un’affettività amorosa a senso unico. Smesso «il gergo della città», «controcanto» e «coro di un amore impressionante / racchiuso nel suo limite ideale» (il dialetto), per provare a reperire «un’altra verità in un’altra lingua» (l’italiano), si fanno labili i punti di contatto con i lavori precedenti, (Otèvi e Giorni in prova); anche la forma metrica è mutata, dall’ottava al sonetto. Eppure il tono rimane lo stesso, commistione di annoiato disincanto e distacco, scrittura nel presente, sospensione onirica (o visionaria), malinconica routine rotta dal cortocircuito di intuizioni lessicali, silenzio mistico e misterioso, incombenza del sacro, del divino vitalizzato dall’impatto con un attimo (atto o pensiero) profano (o pagano). Basta il confronto tra le affinità di «Un èmm ch’al péssa o al préga l’è listèss» (‘Un uomo che piscia o che prega è la stessa cosa’) dei Giorni in prova e il «Credo» di questo libro: nel primo testo «la prua d’ogni sô idea adrê ch’la crèss / l’alèga l’ètra spènda e a la reinvèinta» (‘la prua d’ogni sua idea appena sboccia / allaga l’altra sponda e la reinventa’), nel secondo «tenere in mano il centro del tuo orgasmo / per poi mandarlo a mente mi fa uomo / che recita in segreto un proprio credo»; in un caso l’uomo «l’è nêa tratgnìr al fiê/ per fèrla còuntra al mur dl’eternitê» (‘è nato per trattenere il fiato / e farla contro il muro dell’eternità’), in quell’altro «ecco perché si prega al buio / con le palme al cielo, ed il tuo corpo ecco / secernere liquore d’infinito / sopra le mani».
(Giuseppe Bertoni)
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