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ANDREA INGLESE, La distrazione, Roma, Sossella 2008, pp. 113, € 12,00.
 
Le curve di Dubuffet muovono la maglia rigorosa – pilastri-contrafforti e sequenza delle finestre – del grattacielo. Questa l’immagine che riempie la copertina del nuovo libro di Inglese. Un’immagine di metropoli introduce alla ‘distrazione’, elemento costitutivo dell’esperienza urbana moderna, come mostrò Simmel nel 1903. Un fitto discorso sulla grande città si articola nel libro, che l’autore, riorganizzando una serie di plaquettes ed edizioni parziali, identifica come il proprio secondo dopo Inventari (2001). La forma della metropoli sembra presiedere addirittura all’idea di libro proposta dall’autore, se egli dichiara nella Nota conclusiva che «la forma del libro […] si manifesta solo alla fine», per cui non vi è progetto ma riconoscimento di un percorso: è un’indicazione preziosa, che può essere apparentata con la riflessione di Michel de Certeau in L’invenzione del quotidiano, dove si propone per l’esperienza moderna un modello basato sui percorsi obliqui e le modificazioni «derivanti da vicinanze successive». Tale prossimità di pensiero pare ancora più persuasiva quando si affianca una riflessione del pensatore francese, per cui lo spazio, «[a] differenza del luogo, non ha né l’univocità né la stabilità di qualcosa di circoscritto» («lo spazio è un luogo praticato»), con la conclusione della stessa Nota, dove si dice che «nel libro lo spazio governa il tempo». Vi è forse una ripresa del grande progetto di Petrarca, con la sua trasformazione della vita (il tempo) in un insieme coerente. Una ripresa non ‘umanistica’, vòlta a una forma riconducente tutto a Uno, all’Ordine, ma che si mostra oscillante e sussultoria. Alla distrazione non si contrappone l’attenzione, ma l’organizzazione di quanto viene percepito dentro un organismo mobile e disponibile. Alla reversibilità dei grandi progetti letterari della modernità (Petrarca compreso) si risponde con un processo formale che dà conto della irreversibilità. Vita come dissipazione. E restituzione necessaria di questa dissipazione, che, pur detta, resta indicibile, sempre ancora da dire. Finché c’è vita. S’interroga su questo il testo di apertura, Vita appunto, che parla di quella «calamità autobiografica» («Non posso non raccontare la mia storia») che impone al soggetto di farsi una propria storia e «inventare che ci sia [un] centro». Al dato dell’anagrafe, presuntuoso frammento che vuol pretendere per il Tutto-Io, si contrappone il «lato interno», il «ferimento», che altrettanto presuntuosamente si vuol ridurre a cicatrice, a serie ordinata di punti (è bene ricordare ancora una volta la meditazione di Ulrich appena sceso dal tram: il ‘benedetto’filo della storia è ormai smarrito…). In linea con un tema degli Inventari come la riduzione del soggetto a luogo di proiezione del flusso proveniente dallo schermo, Inglese continua la riflessione sull’organizzazione fenomenologica del mondo. Le percezioni, i dati dispersi raccolti tra pupilla e scatola cranica sono una presenza fissa che ruota tra il polo esterno del mondo che si offre disorganico alla percezione e il polo interno dellricezione corporea che a sua volta perde organizzazione, coerenza. Tra i due si stendono gli asfalti: «Tutte le nostre tracce ultime, / i reconditi sforzi, / le urgenze biologiche, / sono fissate lì, addormentate, / come in un glutine, in attesa / di un lievito che non verrà mai». Nel flusso disforico dell’attraversamento urbano (merci, informazioni, merci) «i nostri gusci di cemento» risultano «appena più longevi di noi», anch’essi privi del senso monumentale di un’architettura che, mineralizzandola in pietra, organizzi la vita. Nella contrapposizione agonistica al presente, Inglese fa assumere alla sua poesia un atteggiamento ‘gnomico’, una sapienza intrisa di tragicità corporea, come in un bel testo che si potrebbe definire un ‘envoi performativo’ (obbediente a quel tipo di atto linguistico che produce la cosa nel momento in cui la nomina): «Scrivi, mano esitante / una data, stendi le cifre, / poni il tratto tra giorno / e mese, poi tra mese / e anno [...] // Attendi il lusso / di avere spessore / e volume: un nome / legato a dei nomi, una rete / dunque / che ti tenga da qualche parte / sospeso / ancora un poco / lontano dal vuoto». Qui il soggetto riconosce la sua natura residuale, come di una sfoglia, per affidarsi alla compitazione del tempo, alla piccola incisione che sigla la temporalità umana e che dà volume, per «un poco», alla propria individualità, di cui si riconosce il carattere relazionale, «una rete / dunque», ed il suo esser ridotta a pura estensione di superficie. Eccoci tornati alla dichiarazione secondo cui in poesia è lo spazio a organizzare il tempo. La dispersione è fatale; il fluire del percepire non caglia in esperienza, se non quando ci si affida alla finzione del racconto autobiografico. Ma un’altra esperienza è realizzata attraverso lo spazio testuale, nella ‘distensione’ tra le pagine, dove si realizza un soggetto anonimo ed estraneo; non il «bambolotto tolemaico», come Gadda definiva l’Io, ma uno schema d’insieme che permette la registrazione disaggregata del proprio percorso. È un testo come E poi mi sono messo a guardare le scarpe che più di tutti dice che cos’è la poesia: un paio di scarpe su cui s’imprime la pressione degli asfalti e del calcagno, del flusso esterno e dell’insistere interno; quelle scarpe che «registrano / tutto lo sforzo dei passi, la concretezza / dello slancio, ogni metro, per gradini, prati, / ghiaie, lastre irregolari, asfalti monotoni». Il soggetto, entrato in casa, resta a piedi nudi, dimentico della «terra che sempre / [lo] tiene a posto, sul punto d’appoggio», e s’immerge nel torrente televisivo quotidiano. In copertina Dubuffet scompagina la maglia cartesiana dell’architettura; tra le pagine di La distrazione si realizza invece quello spazio residuale in cui si dà conto della dialettica tra lo scorrimento e il suo depositarsi, il suo essere insistente.
 
(Giancarlo Alfano)

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