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EUGENIO DE SIGNORIBUS, Poesie (1976-2007), Milano, Garzanti 2008, pp. 663, € 21,00.
 
Chi voglia fare il punto sulla poesia italiana contemporanea, riconoscerà che Eugenio De Signoribus è una presenza imprescindibile. Ne è prova tangibile il volume che ne raccoglie l’opera, con ricca antologia di contributi critici (Giudici, Pagnanelli, Bandini, Spagnoletti, Agamben, Capodoglio, Zublena, Morando, Zucco, Testa, Cortellessa, Luzzi, Zinato, Verdino, Bonnefoy). Non pochi lettori considerano De Signoribus uno dei più importanti poeti ‘civili’ della sua generazione, ove si pensi alle trasformazioni culturali imposte dalla società dello spettacolo. L’aggettivo ‘civile’ assume una sfumatura d’antan, quasi provocatoria: la parola della poesia, che non si inchina al mercato dei media, paga la sua indipendenza con l’esclusione, l’’invisibilità’. Ora, l’uscita in volume dei cinque libri fino a oggi pubblicati da De Signoribus (escluse «le prove che precedono o affiancano» Ronda dei conversi 2005, come Memoria del chiuso mondo, edito da Quodlibet, nel 2002, nonché altri versi d’occasione), ci permette di verificare la dimensione propria di un poeta ‘necessario’ come pochi nel panorama della poesia italiana. In poesia, non occorre frequentare i salotti di una grande città per misurarsi con l’Europa, e la poesia di De Signoribus, marchigiano – vive in un piccolo paese nella provincia di Ascoli – appartiene in pieno, per formazione e spessore, alla tradizione occidentale. Caproni e Giudici, per non dire di un grande poeta come Bonnefoy, appaiono radicati nell’opera di De Signoribus non meno di Volponi. De Signoribus dimostra una eccezionale coerenza e una progressione del suo disegno poetico che non sfodera solo la crisi dell’io lirico (o post-lirico?) dal suo limitato orizzonte soggettivo, ma getta lo sguardo ‘oltre’, nelle rovine contemporanee. Il punto di vista dell’autore sul proprio testo, che, a dispetto del de profundis decostruzionista, torna a proporsi nelle sue accezioni metaforiche, spingono verso una interpretazione ‘civile’, sull’onda di quel dantismo novecentesco che non guarda tanto ai contenuti o all’uso delle forme chiuse o agli aspetti citazionali e decorativi, ma assimila l’energia speciale della lingua e del verso («o nella più ribollente broda / dove sguazza in bolle di sozzura / a fauce aguzza un archetto truce») in quanto «accesso a una forma del tragico» (Luzzi). Di quel tragico la cui morte, già proclamata, si presenta nella storia delle forme artistiche come una incapacità commisurarsi alla ‘realtà’. Al soggetto tocca ascoltare e registrare, giudicare il mondo, lasciando un «vasto e indifeso me», per quanto possibile, in vece di un Io pieno di sé. Tale prospettiva si coniuga bene con una tensione non post-lirica, ma in dialettica fra lirica e anti-lirica: soprattutto nelle zone di confine dei suoi libri, in apertura o in chiusura, e negli interstizi fra una sezione e l’altra, De Signoribus non rinuncia a impostare la voce su un registro più intimo, con cui mitiga l’introversa, spinosa timidezza della parola poetica costretta a confrontarsi con il mondo e a rigettarne la tentazione lirica. Così leggiamo nella Promessa che apre la Ronda dei conversi: «tutto il male che posso sopportare / è cucito nelle più interne tasche // dammi anche il tuo, dammi / ciò che dal tuo volto traspare… // ti cammino accanto, ci sarò / quando mi perderai di vista // non sarò aspettato alla tua festa: / lo sopporterò finché avrò casa // altro ricovero non c’è / per chi è cucito nell’interno sé». Registro lirico nel senso più classico, come armonia del verso e, insieme, leopardianamente, senso del vero, e del suo «visibile nulla». Ma la cifra della poesia di De Signoribus (di cui si leggono, in Istmi e chiuse, accenti e sequenze dialettali, come vedé, nen vedé, e versi in una sorta di italiano basso medievale, quasi maccheronico, come l’incubata: «ego te male dico extra vagante»), si materializza nella tensione sintagmatica inedita, in concrezioni neologistiche e iuncturae acres (vi si sofferma Zublena), nell’accerchiamento sonoro di certi versi, nell’eco ribattuta in melodie e morse allitteranti, ora leggere («poniamo che la pioggia si concentri / in chiusa strada o stanza senza venti»), ora gravi («cuore di cerca più del Circasso svelle / strappa velina e pelle, scotta e gela»). De Signoribus guarda da anni (per riprendere il titolo di un libro di Massimo Raffaeli sulla produzione letteraria nelle Marche) oltre la siepe; quella siepe evidente in Case perdute (1986) come una solitudine murata. La lettura delle Poesie proietta l’intuizione di quel libro in un orizzonte più ampio e doloroso, e nello stesso tempo definisce la vertiginosa distanza da cui il poeta apre l’obiettivo per accogliere più luce e guardare meglio, da un punto di vista non esistenzialista, l’esistere. Una poesia difficile, perché non ha un luogo, ma un ‘altrove’ non residenziale (adatto, questo sì, a comprendere un altro grande poeta come Franco Scataglini, di cui pure non mancano tracce) ma mentale, profondissimo o altissimo, confitto nella parola con cui strania, tra figure allusive e reticenti ed ellittiche allegorie, la nostra storia. La storia non come paesaggio ricomposto sulle spoglie della modernità, ma come spazio, scheletrico panorama di uno schermo che filtra quanto resta della nostra capacità di esperire, in una grammatica globale, l’esistenza. È qui la lezione ‘civile’ della poesia di De Signoribus, la sua difesa estrema di una parola che non intende comunicare ma risvegliare, e liberare da altre civili ma insipide certezze: «domani chissà chi saremo, quale / nome in noi consisterà / quando qualcuno a sé ci chiamerà / o da distante ci additerà / come disdetti o strani…».
 
(Salvatore Ritrovato)

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