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«UN ESERCIZIO DI RESURREZIONE»
Pascoli nella poesia di Valduga
 
(parte seconda)
 
di Francesca Latini





I quattrocento colpi: «Cento quartine»
 
Quanto in confusa e drammatica condizione si trovano le precedenti donne di pena delle ultime tre raccolte esaminate (prese dal sonno, o dall’infermità, o dalla morte stessa), tanto ritorna a dar aspra battaglia e sciolta al suo signore la protagonista di Cento quartine. Nella fulminea schermaglia, condotta sulle quattro rime alterne, non vi è modo di concedere un primato d’ascolto alle intime pensose ubbie, dal più lungo respiro, di tanta poesia pascoliana. L’argomento medesimo, si obietterà, richiede ben altri libri da cui esemplare tali mondane giostre di amanti (il Catullo della quinta quartina ci invita ad accordare su ben altri timbri l’orecchio). E tuttavia è proprio là dove lo scontro tra uomo e donna si sublima in duro certame poetico, che sulla reciproca dichiarazione di opposta ‘militanza’ dei due schermidori, canonica presentazione delle proprie insegne, la donna, ossia il poeta, prova ancora a riconoscere in Pascoli un esclusivo modello di pensiero e d’espressione. Nella prevista dialettica delle due parti avverse, femminina la prima (che riconosce la propria sudditanza di fronte a tanto sguardo di dominio) quanto maschile la seconda (invito a un immediato godimento sensuale), su cui prende avvio e su cui insiste l’intera centuria, si insinua a un certo punto, e nel breve arco di una sola quartina di sfida seguita dalla tradizionale risposta (non per le rime, ma per parole-chiave), la reale tenzone. Siamo alle quartine 20-21: «Per sogni d’ombre, per ombre di sogni, / per l’avanzo d’infanzia che mi avanza, / per questo niente vuoi che mi vergogni? / Per sogni d’ombre morte in lontananza?»– «’Non mi piace il tuo stile da mistero / e reciti te stessa molto male.’ / Il sogno è l’infinita ombra del vero / e spesso è piú reale del reale». Se la terragna filosofia dei sensi si traduce da parte dell’uomo in una stroncatura dello «stile da mistero» della amante, questa ne decreta e ne difende insieme l’esclusiva inattaccabile matrice pascoliana. Perché richiederle un ‘atto di dolore’, di pentirsi per questa poesia fatta di un niente effimero, della materia stessa dei mortali? Perché esigerne una gozzaniana vergogna, quando non si è preteso mai di andare oltre un «sogno d’ombra», pindarico emblema del nulla, già evocato nell’omonima myrica a dire la finitezza intrinseca di ogni esistenza umana, già lì tacitamente posto in confronto col simile enunciato del carducciano «prence» in agonia?[1] A patrocinio del proprio modus poetico emerge di seguito, per analogia di formule, altra memoria pascoliana: perché disapprovare il «sogno», «ombra del vero» sì, come giungeva al «Fine» delle sue innumere conquiste a dichiarare il condottiero Alexandros[2], ma pur un «niente che [...] occorre», ombra che per il fatto solo di sussistere comprova la presenza del vero, pertanto più del vero (da questa di pendente) reale?
La franchezza maschile torna a esternarsi, contro la femminina «domanda scriteriata» che la donna formula in tempestiva a un’ora tarda e di piacere («Sarà il dorso o la faccia della luna / non può girare mai verso la terra?», 72, 3-4). Gli smisurati campi celesti, coi loro ammassi globulari, risponde velenoso l’uomo, non sono cosa creata a diversivo del tedio terreno, tenuto a freno solo da un mutuo corrispondere di sensi carnali. L’espressione impiegata dall’amato, affine alle precedenti locuzioni di Corsia degli incurabili, che ho ricondotto a un Pascoli cosmico della Pecorella smarrita, della Vertigine e del Ciocco, «’Mucchi di mondi, grappoli di stelle... / sfoggio di universo mica per noi’» (73, 1-2), sembra questa volta memore quanto meno di un sintagma dell’Anima, lirica a cui il personaggio maschile non può che alludere se non per antifrasi, in quanto che nella sua prima parte l’ode si dipana in un delirio concitato di domande arcane sull’esistenza del soffio spiritale e sulla sua immortalità, mentre nella seconda si conclude appunto sulla certezza che il destino ultraterreno delle anime è quello di mutarsi in nuovi grovigli siderali: «Là stelle si uniscono a stelle: / son grappoli, nuvole, ammassi» (25-6).

Tout décade: «Quartine. Seconda centuria»
 
La voce pascoliana torna ancora urgente e vivida presenza nelle Quartine. Seconda centuria, non più tenzone carica di opposte smanie, ma assolo beffardo ed aggrondato insieme, in cui ricorre assiduamente il tema della crucciata consapevolezza del proprio inevitabile declino. La quartina d’apertura, la 101, a raddoppiare il dolore dell’epigrafe belliana, che già annuncia tale discesa inesorabile– «sicutèra in principio e nnunche e peggio»– presuppone una prima plausibile memoria pascoliana, un’eco oppositiva. Al di là di un esplicito riferimento al celebre attacco dantesco di Inf., III, 1-3, «Per me si va da un niente a unaltro niente» (1), non escluderei che la ripresa del termine-chiave alluda proprio a opposta iterazione pascoliana; penso al ben diverso vagabondaggio astrale, intrapreso anch’esso con piena coscienza dell’umana e universale «moribilità», eppur viaggio in cui si va «da spazio immenso ad altro spazio immenso» (II, 24) della Vertigine[3], qui dalla Valduga ulteriormente annichilito a un movimento di vacuità in vacuità assoluta.
Il senso di rovina che pervade ogni attimo vitale è espresso nuovamente– e siamo appena al terzo capitolo, alla quartina 103– con quei versi della Civetta che erano già stati ricordati nella Tentazione. Il sistema monometrico adottato impone ovviamente che la citazione centonatoria sia conciata tramite una giunta, zeppa esasillabica per mezzo della quale si dilata il quinario della saffica in un endecasillabo. La cosa interessante è che proprio a tale complemento è affidato il pensiero di maggior rilievo: «Morte che passi per il ciel profondo, / passi con ali molli come fiato, / con gli occhi aperti sopra il triste mondo / nel buio e nella luce addormentato». L’immagine si arricchisce insomma non di una futile aggiunta, se non fosse per motivi metrici, bensì di un ulteriore concetto: lo spietato volo radente del rapace che fa scempio delle innocenti vite addormentate è realtà immutabile, tanto che la beata greggia vagoli nelle tenebre giovannee, quanto che alfine abbia scelto la luce, luce che mai potrà impedirne il «sonno breve» del terreno passaggio, seguito da un similare eterno riposo.
Conforme processo elaborativo si rintraccia nella quartina 118, dichiarata memoria del noto canto La voce: «Oh! quante volte tu sei rivenuta / in tutti i cupi abbandoni del cuore, / voce imperiosa, smarrita, perduta / e senza un tremito di batticuore!». Gli elementi di maggiore importanza aggiunti per conseguire la misura dell’endecasillabo riguardano il distico finale. È qui che il soffocato flatus materno pascoliano si trasforma in ben altro segno di continua presenza memoriale, dunque ancora «voce» «smarrita» e «perduta» dopo tanto arduo viaggio per riaffiorare al ricordo, ma diversamente dalla dolce loquela della madre di Zvanî, «imperiosa», carattere che non pertiene affatto a questo personaggio, ma ad altra figura femminile del sistema oppositivo pascoliano: un piglio risoluto di comando contrassegna non la genitrice, né quella figlia che ne eredita mitezza e accoramento, la Maria non reale bensì sublimata di tante liriche; in qualità di «reginella» e dunque di reggente delle sorti di un’intera famiglia è Ida a possedere simile dote da Marta evangelica, che non a caso viene a costituire il primo elemento diversificante di quello che da dittico si muta in un tricolon aggettivale, plausibilmente sempre su altra sollecitazione pascoliana[4]. Detta la natura dissimile di questa assidua immateriale presenza, se ne ribatte la fermezza, ribaltando in explicit altro verso della Voce: quanto «l’accorsa anelante», l’Andromaca domestica, dimostrava nel suo tremore l’affanno quotidiano di ‘donna di dolori’, straziata per le sorti di un figlio ‘abbandonato’, tanto l’incorporea memoria di affioro non porta i segni di un donnesco panico che scuota nelle vene la persona; ancora dunque larva pascoliana nel suo ciclico ritorno nei momenti cruciali della vita di un poeta, ma, diversamente da questa, salda nel suo accorrere in soccorso verso colei che, sempre per gioco speculare, ben conosce tali tremiti cardiaci che ne cadenzano l’amorosa vita: il motivo torna appunto nel proprio autoritratto, la quartina 123: «C’era una volta il mio sogno d’amore, / tra l’asilo infantile e l’analista; / ma dentro il cuore sempre in batticuore / lo sogno ancora, stupida egoista»[5].
Si gioca di fino anche nella quartina 157, dove una labile memoria pascoliana s’intreccia con altra più esplicita eco petrarchesca-tassiana, incontro non fortuito, ma più che meditato: «Sorge l’aurora candida e vermiglia. / Perché ho voglia di piangere, papà? / La mia vita in un battito di ciglia / per un’aurora di sei anni fa». A un’alba che si colora delle tinte antiche dell’aurora omerica si consegnano le vesti altrettanto classiche di quella «primavera candida e vermiglia» di RVF, CCCX,3[6], stagione gaia per la natura tutta, ma grave di sospiri per il poeta sconsolato, esattamente come l’aurora che qui sorge tempestiva a rischiarare il mondo, screziando i cieli di porpora e d’opale, non tuttavia riuscendo a dar letizia a un’altrettanto addolorata amante. Ma tra le note di questo tipico tema occitanico s’insinua senza soluzione di continuità un più latente motivo pascoliano: la confessione si muta in interpellanza ad una cara ombra, ombra di un padre a cui si chiede ragione di quel pianto privo di perché che vela i giorni correnti della propria vita. A questo nume si rivolge pure un’invocazione, con insensata supplica: ci si dichiara disposti a rinunciare all’esistenza intera pur di rivivere una fuggita aurora di sei anni fa. La formula che indica, quasi rituale gesto d’incantesimo, il ratto scambio tra tutto il tempo a venire e un breve giorno del passato, «in un battito di ciglia», è calco della conforme espressione che, in un celebre capitolo epifanico di Myricae, annuncia, la fine di una narcosi esistenziale, quel male di vivere da cui miracolosamente si guarisce abbracciando in anticipo la propria morte, al comparire dell’idolo materno, all’apparire della «salute» propria: «[...] Ero guarito. // Era sparito il nembo del mio male / in un alito. Un muovere di ciglia; / e vidi la mia madre al capezzale: / io la guardava senza meraviglia» (Ultimo sogno, 4-8; a sua volta, agirà quale modello del tema pascoliano lo stesso automatismo paolino, là dove si parla appunto del passare a vita nuova, a vita eterna, cfr. I, Ad Corinthos, XV, 52: «In momento, in ictu oculi [...]»).
Nello spirito dell’opera, a commemorazione di una vita ormai lacera e consunta (intesa qual propria esistenza ma anche qual fulgido passato di un’arte riesumata con quotidiani esercizi di resurrezione) si levano i calici in un ‘brindisi funebre’: «Gloria di un tempo che non vive piú; / brindiamo con quest’acqua imputridita / agli angeli custodi di lassú, / alla vita che fu, anzi: alla vita!». La chiusa della quartina 173, salutazione al tempo trascorso, corretta in un augurio alla vita comunque ella sia, pare ancora una volta valersi di una memoria pascoliana. L’auspicio di una continuità dell’esistenza in ogni caso ripete un ben diverso grido di sgomento, urlo caduto nel vuoto di un cielo illimitato ma forse non eterno, che solo nel ciclico sfacelo dei suoi mondi può trovare una rotta per l’immortalità. L’eco che, ridotta, rimbomba, in quest’umile compagine terrena, nel piccolo diario di un tramonto individuale, deriva ancora da quella seconda parte del Ciocco altre volte tenuta a modello nel dire l’effimera sostanza umana, specchio riflesso d’illimitata vanità universale: «all’infinito lor volo li impenni, / anzi no, li abbandoni all’infinita / loro caduta: a rimorir perenni: / alla vita alla vita, anzi: alla vita!» (II, 217-20).

3. Lo spartito pascoliano: «Requiem»
 
 E vengo a Requiem,all’origine della riflessione. Un primato, quello del modello pascoliano, che qui si spiega in ragione della penosa circostanza. Ma tutto è riconducibile a questo archetipo. La scelta metrica, per esempio, ottave che non fanno la loro prima comparsa in questa raccolta, essendo già largamente impiegate in Medicamenta, eppure esclusiva misura del poemetto, secondo quel canone pressoché unico che caratterizza una sezione myricea come Creature, trasposizione in lacrimose storie di orfani e morticini di tanta straziante materia autobiografica. La stessa divisione ‘petrarchesca’dell’opera, in una parte in vita e in una in morte, concepita come una serie di ‘anniversari’; la dedica del libro, offerto al padre, come al padre sono dedicate le Myricae; e poi quel triste rilevare di coincidenze cronologiche, date di morte che convergono con giorni di comune letizia, con il natale cristiano (invero nella cronaca familiare pascoliana è la madre a spirare nei giorni dell’avvento, motivo che torna in Colloquio, ma anche, figurato, in Creature, come ad esempio in Ceppo). A un secolo di distanza sorte vuole che un padre si avvii al suo declino: il giorno, il mese e l’anno che si stagliano nella dedicazione del poema («per mio padre / morto il 2 dicembre 1991») inducono al ricordo di date di cent’anni addietro, quelle appunto degli ‘anniversari’materni vergate in explicit dei sonetti (ossessiva cronologia di volta in volta aggiornata: nel primo «31 di dicembre 1889», nel secondo «31 di dicembre 1890», nel terzo «31 di dicembre 1891», infine in Colloquio «31 di dicembre 1892-1893»). Perfino l’epigrafe, citazione da An die Freude, l’Inno alla gioia di Schiller «Froh, wie seine Sonnen fliegen / Durch des Himmels prächt’gen Plan, / Laufet, Brüder, eure Bahn, / Freudig, wie ein Held zum Siegen» («Lieti, come i suoi astri volano / at traverso la volta splendida del cielo, / percorrete, fratelli, la vostra strada, / gioiosi come un eroe verso la vittoria») può essere accostata a quelle immagini d’epica familiare della Cetra d’Achille e della Cavalla storna che si rintracciano (come dirò più oltre) nei capitoli del poemetto (XXIV-XXV), allusivo paragone del padre che va incontro al suo destino di morte con l’eroe antico, fulgido negli ultimi raggi di un tramonto, scorcio del giorno con cui si identifica il crepuscolo esistenziale dell’uomo.
Ma se di un primato pascoliano è giusto parlare per Requiem, direi che l’azione, almeno nel primo componimento, classica petitio di perdono al padre compianto, nonché dedicatario, è condotta sul duplice registro petrarchesco-pascoliano, poiché a un Pascoli già evocante l’auctoritas petrarchesca, quella della medesima sede proemiale della Prefazione myricea, si intende fare accenno. Il motivo di una remissione dei trascorsi peccati nonché di una corrente colpevole afasia– «Anima, perduta anima, cara, / io non so come chiederti perdono, / perché la mente è muta e tanto chiara / e vede tanto chiaro cosa sono, / che non sa piú parole, anima cara, / la mente che non merita perdono, / e sto muta sull’orlo della vita / per darla a te, per mantenerti in vita»– richiama insomma tanto RVF, I, 8: «spero trovar pietà, nonché perdono» (topos avviluppato col tema dantesco-petrarchesco dell’incapacità a dire già ricordato[7]), quanto la sua lontana eco in apertura della raccolta pascoliana, tipico exordium antico seppur disciolto in una prosa schiva, da epistola familiare: «Di qualche lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono [...]». Lo scarto sta tutto nel fatto che tale captatio benevolentiae non ha come referente il lettore, escluso dalla privata confessione, ma il padre medesimo, quello a cui Pascoli nella Prefazione a Myricae non chiede un’altrettanto esplicita remissione delle colpe, ma il cui in vendicato sepolcro denuncia simile inettitudine filiale. Se tanto silenzio si espia con una chiara cognizione della propria miseria, gli errori trascorsi si emendano con un atto d’umiltà (interpretabile, d’altro canto, come un’ennesima prova di insufficienza esistenziale): lo starsene «muta sul l’orlo della vita», quasi a donare al padre giorni non più suoi, non può non richiamare simili tacite soste al limitare di certe figure pascoliane, che vanno purgando una colpa assurda, la quale sembra far tutt’uno con quella vita odiata eppur fruita contrariamente ad altri che non più la possie dono (questa la condizione del figlio poeta nei confronti dei propri cari morti), oppure con un peccato originale che esclude dalla comunità uomini reietti (penso ai protagonisti del Mendico o del Bordone), o ancora a quella condizione di morte a mezzo, limbico stato di creature non del tutto innocenti, poiché esse stesse responsabili di questo loro vacuo trattenersi non più tra i vivi, ma neppure tra le ombre sazie di memorie, come il fanciullo autobiografico del canto Giovannino[8].
Fa da sfondo alla lenta agonia quell’«estate dei morti» (esplicitamente rammentata in VI, 7) distintiva stagione pascoliana, che dai primi di novembre si prolunga fino ai giorni che precedono il Natale. Tutti i ragguagli temporali ricalcano ben note osservazioni naturalistiche sulla mesta stagione di trapasso: la «fronda ingiallita» della terza stazione (III, 6) rimanda alla myrica Dialogo, 7: «[...] se gli olmi ingiallano la frasca» (evanescenza di una vivida tinta anteriore a cui si paragona il trascolorare della cera paterna: «padre ingiallito come fronda al fiato / di tutto il vento freddo della vita», III, 7-8); il rapprendersi di un cielo livido, distante dai terreni martiri di IX, 5-7: «Anche il cielo come un mare di ghiaccio / si stringeva in sé immobile lassú, / sempre piú freddo, sempre piú lontano», evoca più di una squallida immagine di morte: la memoria corre al fatico X Agosto, in cui «immobile» (19) è reso per sempre il padre assassinato, riverso a contemplare un «cielo lontano» (10, 20), ma l’endecasillabo così nettamente diviso in due emistichi, «sempre piú freddo, sempre piú lontano», risulta eco, con minima variazione, da altro funebre capitolo, l’autocontemplazione sepolcrale di Ultimo sogno, 16: «sempre lo stesso, sempre più lontano»[9]. Il padre stesso, solido tronco che per più invernate resse alle brine esistenziali, «Oh padre padre, pianta valo rosa / che hai vinto tanti inverni di dolore» (XI, 1-2), è appunto assimilato a quegli emblemi di arborea fortezza destinati un giorno a cadere, favola sconsolata delle sorti umane (penso all’albero del Vischio o al Vecchio castagno, o alla Quercia caduta). Né vi è bisogno di incuorare il tempo, che a differenza del lento procedere nei giorni sementini della myrica I gattici, avanza a gran giornate, «Intanto il tempo tacito cammina» (XIV, 1)– e nondimeno identico lo stillicidio delle pene: «Il cuore sanguina, si perde il cuore / [...] / [...] / [...] / si perde goccia a goccia tutto il cuore» (XV, 1-5)– («e io che al tempo allor gridai, Cammina, / ora gocciare il pianto in cuore mi sento», 7-8). Tempo che inoltrandosi nella stagione invernale «[...] muove il cielo tacito e lontano» (XIV, 2), espressione che insiste ancora sull’aggettivo-chiave del X Agosto, a dire l’indifferenza della volta eterea, ma anche verso pressoché identico all’incipit di altra mesta myrica, Notte dolorosa, 1: «Si muove il cielo, tacito e lontano»; «e tutto è bianco» (XIV, 3) come di fronte agli occhi istupiditi degli innocenti passeri di Dialogo, 24: «E tutto è bianco e tacito al mattino», qua per la brina, nel paesaggio della myrica per una neve che metterà a dura prova gli uccellini, ma gelida rugiada che muterà ben presto anch’essa in tacito sfacelo nivale, «Sul bianco della brina a lenti fiocchi / si perde un po’ di neve silenziosa» (XVI, 1-2), come nell’ovattato fondale della triste nenia di altra myrica, Orfano, 1: «Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca». Persino la memoria dei passati giorni primaverili, presi a vessillo della trascorsa giovinezza del padre, «Quanto chiarore e verde gioventú / perduti con la neve sopra i cuori» (XVII, 1-2), è manifesto ricordo della conforme espressione che nel poemetto Le armi narra i diletti tutti percettivi di questo periodo di rigoglio: «odor di fresco e verde gioventù» (IV, 22).
Tratteggiata una cornice stagionale in tutto affine alle dolenti descrizioni pascoliane dei tanti autunni che portano impressi i segni del declino, ovvero dei tragici istanti dell’agonia paterna, anche la narrazione del lento avvicendarsi del martirio, la minuziosa analisi dei pietosi atti e del padre verso la figlia e di questa verso il morente, appaiono a ben guardare non immediata e disadorna trascrizione di una cronaca infelice, ma, al contrario, ottima dipintura a fresco su una sinopia già tracciata dal maestro.
«Una lacrima sola e ti piegavi / rugiada di sereno e di mestizia»: al difficile trattenersi del pianto filiale, «unico istante di abbandono», di cui al padre si chiede discolpa (V, 1-2, 8), il morente reagisce con duplice e avverso sentimento: e confermandosi nella sua piena consapevolezza e riuscendo ancora a nutrire un filo di speranza. È la «sola»[10] ambigua lacrima della figlia a indurlo a questa doppia affezione, poiché «rugiada di sereno e di mestizia» insieme. Da rilevare che l’espressione «rugiada di sereno» discende direttamente dalla Prefazione di Myricae, qui chiosa figurata di una vita che, in opposizione al pensiero leopardiano, si vuole «bella» comunque, come «dolcissima madre» e non matrigna è detta la natura «che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti»: «[...] ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta». Su questo andromacheo sorriso lacrimoso, su un pianto che reca in sé le tracce del tormento espira un forte anelito di consolazione, su questa tipica pietas antica, attacca il mesto racconto degli ultimi giorni paterni.
In dignitoso colloquio solitario col proprio dolore, il padre, rinuncia ad esternare pene che aggraverebbero ancor più l’angoscia della figlia: «Sedevi e ragionavi al tuo dolore» (VI, 1), meditabondo gesto che se da una parte ci fa intravedere meste e quiete figure già prigioniere eterne della morte, quale l’ombra posata della Tessitrice[11], dall’altra rimanda ancora al modello alternativo e complementare, al Petrarca di RVF, I, là dove è il poeta a ‘piangere’e ‘ragionare’(5) sulle sue disavventure, atto che coincide con l’esercizio poetico medesimo. Ma alla memoria riaffiorano anche immagini di altri appartati colloqui, penso al dialogo di Rachele e Maria in Digitale purpurea; «Siedono [...]», così attacca il poemetto che propriamente emerge in tutta la sua evidenza nell’ottava seguente, poiché anche il padre, come le collegiali di un tempo, nello stillare inesorabile delle ore che ne precedono la fine, ritorna col ricordo ai «cari anni lontani» (VII, 1) («[...] In quell’ora hanno veduto / la fanciullezza, i cari anni lontani», III, 2-3), ai tempi in cui erano vivi quei «suoi morti» (e il sintagma non potrebbe essere più tipicamente pascoliano, sono i «miei morti» del Giorno dei morti, 19, o di altra myrica quale I gigli, 20)[12] con cui ben presto si ricongiungerà.
Il dolore è dunque trattenuto tanto dal padre quanto dalla figlia, «e il pianto resta qui, dentro la mente, / non si piange dagli occhi, il pianto vero / è invisibile, qui, dentro il pensiero» (XV, 6-8), dissimulato sì, secondo quel nobile principio pindarico che un certo Pascoli atteggiato in posa di savio antico sembra più affermare che mettere in pratica (lo ritroviamo solennemente dichiarato nell’ode La piccozza, e pure altrove)[13], ma anche in nome di quel buon senso misericordioso che da sempre governa i rapporti familiari. Gesti di delicato tatto domestico come il tossire silenziosamente, «e tu tossivi dentro te pian piano» (IX, 8), «Tossivi dentro te di tanto in tanto / e pensavi che fosse una mancanza» (X, 5-6), sono quegli stessi atti dettati da un’identica sensibilità in umili personaggi pascoliani: come Molly dapprima così poi anche la nonna tossirono sommessamente per non destare preoccupazione nei congiunti: «[...] e tossiva un poco, ma soltanto // tra il rumore dei licci e della cassa», «Tra il rumore dei licci e della cassa / tossiva, che la nonna non sentisse» (Italy, c. I, VIII, 24-5 e c. I, IX, 1-2), «[...] Ecco, ha la tosse / che avevi tu. Tosse ogni tanto un po’. / Sta lì nel canto come non ci fosse» (Italy, c. II, X, 7-9)[14], pietosa azione perennemente ripetuta da che mondo è mondo, ma solo con Pascoli assurta a dignità di rilevanza poetica. Più raffinato ancora il recupero di altra memoria myricea, nel decimo capitolo, dove si insiste sempre sul motivo della dissimulazione (questa volta da parte della figlia) delle proprie pene: «Per quella tosse quanto abbiamo pianto! / ci toglieva anche l’ultima speranza, / dava al pianto già pianto un nuovo pianto, / senza rumore, accanto alla tua stanza» (X, 1-4). Se a una prima semplice lettura intendiamo unicamente che l’angoscia si rinnova in lacrime continue di fronte al male che s’avanza inesorabile, ricondotta l’espressione «pianto già pianto» al suo modello, ovvero ai Tre grappoli, possiamo leggere sotto altra più artata prospettiva il capitolo: non di un mero crescendo di pianto indotto dal tormento si tratta, bensì di versare lacrime già sparse dall’intera umanità vessata, poi ché immanente è il dolore nella natura dei mortali; questo l’assunto del breve ‘pensiero’myriceo: «nel nero sonno vi gila, da un canto, / sappi, il dolore; e alto grida un muto / pianto gia pianto» (6-8)[15]. Volendo sottilizzare, non siamo solo di fronte a lacrime contingenti e individuali che rinnovano un eterno universale affanno: il «pianto già pianto» di Requiem è tale anche perché pianto filiale di poeta che vuole, in questa sua sventura esclusiva, modulare la propria corda del dolore su altra filiale trenodia poetica.
Col modello ci si raffronta anche in termini speculari. Così nell’undecimo capitolo, che attacca e chiude su ben due echi dal Giorno dei morti; significativo che le parole del morente Ruggiero siano qui pronunciate dalla figlia, forse perché il carattere del rapporto che si va descrivendo è esattamente opposto a quello lasciato intendere nella myrica. Mentre il padre pascoliano, ombra negletta, nel giorno della commemorazione dei defunti, invoca da parte dei figli superstiti un pio ricordo e non può farlo che con un grido d’appello disperato a cui segue una testimonianza del proprio fervido affetto, sentimento neppure ottenebrato dall’improvviso abbattersi della morte, «– O figli,– geme il padre [...]», «O figli, figli! vi vedessi io mai! / io vorrei dirvi che in quel solo istante / per un’intera eternità v’amai» (64 e 73-5), in Requiem è la figlia che, vedendo venir meno giorno per giorno un padre tanto amato, lo invoca con il corrispondente duplice richiamo e gli confessa il suo perenne amore: «Oh padre padre [...]», «in quel solo momento e senza fiato / per un’intera eternità ti ho amato» (XI, 1, 7-8)[16].
Leggeri, discreti i gesti d’intesa, di mutua pietà: l’attendere mano nella mano l’assalto del dolore– «io con la mano tengo la sua mano» (XIV, 4)– ricorda la vicinanza nelle tribolazioni quotidiane che, sotto una posa di canonica preghiera, nasconde una più forte comunione domestica nella Voce, 31: «la tua mano nella mia mano»; il taciturno scrutare nell’occhio del morente l’‘atropo’ che ne annuncia la prossima fine: «tu avevi un’ombra nera den tro gli occhi» (XVI, 3), inquieto rilevare di un segno mortifero, evoca, per antitesi, l’affine osservazione dell’ultima e unica impronta di vita nel corpicino cereo del collegiale dell’Aquilone, 46-7: «Tu eri tutto bianco, io mi rammento, / solo avevi del rosso nei ginocchi»[17]; quel farsi la voce «sempre piú velata» (XVIII, 2), sì perché flebile e resa tale dall’infermità, ma parimenti perché voce d’uomo il cui di stacco dalla terra è ormai realtà certa: «velata» infatti riverrà, se tornerà a farsi udire, non più che soffio impercettibile giunto da «cupa lontananza», di consanguinea carità ricolmo, secondo tradizione pascoliana («voce velata, malata, sognata» è quella della squilla notturna nella notte santa di Ceppo, 24, che fa tutt’uno col richiamo di una madre perduta, come «velata» è una delle voci della camerata dell’Aquilone, 39– con ogni probabilità quella del fanciullo morto anzitempo–, «Voce velata dalla sepoltura / voce nuova, eppur nota ad ascoltarla» è quella dell’amato fratello Luigi nel Giorno dei morti, 107-8).
Lo sfacelo del corpo impedisce funzioni vitali: «Tu non potevi piú nemmeno bere»; ma non cancella nel cuore di padre quelle premure che da sempre lo possiedono: «e chiedevi com’era la mia cena» (XIX, 5-6). Annotazione nuda di un altrettanto spontaneo moto d’affetto, sì, eppure vi si scorge l’esile traccia di precedenti funebri tele pascoliane. Penso da una parte al nocchio che stringe alla gola il «piccolo padre», il fratello maggiore Giacomo del Giorno dei morti, 161-2, durante la sua terribile agonia tifoidea, che gli strappò a mezzo la parola (del resto anche nelle ultime stazioni di Requiem il padre perde analoga mente l’uso della lingua, rimanendogli lucida– di contro alle pietose richieste della figlia– la sola facoltà intellet tiva, cfr. XXI, 2-4: «e volevi parlarci e non riuscivi / e sen tivi la morte anche alla gola / e non potevi dirci che morivi... »)[18], penso altresì all’analogo quadro della madre, che pure affievolita dal tracollo imminente, si preoccupa delle sorti dei figli, non interrogandosi sul lontano destino che toccherà agli orfani, bensì badando a minimi dettagli quotidiani, a un misero vestiario invernale non potuto al lestire: «e tu, tra i ceri, con la morte accanto, / sentendo gli urli della tramontana, // parlavi, ancora, delle due bambine; / cui non potevi, non potevi, in tanto, / cucire i piccoli abiti di lana» (Colloquio, IV, 10-4)[19].
Smarrita la favella, il padre, come un «eroe del dolore» (ma della gioia pure, si pensi all’epigrafe schilleriana), s’instrada verso i regni della luce. Se gli ultimi tempi di martirio sono visti come l’anticamera di «un giorno che non ha mai sera» (XII, 7)[20], non più assetato della dolce aurora, in quanto alle soglie della fonte eterna, il padre guarda e parla al mondo ormai distante in quella fulgida lingua dei risorti che ne riscatta il buio dell’agonia terrena: «Anima sola senza piú parole, / parli la luce lucida del sole» (XXIII, 7-8). Con minima mutazione (basata sul verbo che mette in rilievo l’importanza della nuova divina facoltà locutoria), la chiusa dell’ottava ricalca un endeca sillabo-chiave dell’Immortalità. Ma non di un’eco fine a se stessa ancora una volta si tratta: il poemetto, che svolge ben altro soggetto da questo privato lamento familiare e che, come denunzia il titolo, affronta un tema universale quello della conquista della perennità, presunto esclusivo onore dell’aedo, che per mezzo del suo strumento umano, immateriale, può sperare di raggiungere eterna fama–, affiora di prepotenza in Requiem, in questo attonito interrogarsi sommesso di poeta sul fine del proprio mandato artistico, in questa dolorosa prova di figlia di fronte all’umano mistero della morte: «[...] Ma quest’opera serena, / fatta d’anima pura e di parole, / beltà dal tempo e dalla morte ha lena: // vive la vita lucida del sole» (II, 4-7). Come insomma il morente sembra ormai prossimo ad innalzarsi a nuovi cieli perennemente illuminati, è a questa stessa «lucida»[21] lingua degli immortali, tanto perfetta al punto di rinunciare all’uso delle medesime parole, che la figlia, ancora tra i terreni, in qualità di poeta, non può che mirare.
Non importa, o solo per un poco ancora, che verso l’uomo, come nei confronti di ciascun mortale, il sole emani un’algida divina imperturbabilità– e sono ancora le chiare note del X Agosto a risuonare in extremis, nel capitolo XXIV– «Il sole vivo sulla tua agonia... / il sole vivo, immobile e lontano... » (1-2); l’apoteosi paterna è ormai compiuta e la si narra in ultimo con le parole d’epica domestica della Cetra d’Achille, mito diretto sì di quell’eroe rutilante in armi che non può sottrarsi al suo destino fatale, ma, in fondo, pure sublimazione eroica di quello stesso epilogo paterno che nella Cavalla storna è descritto tramite identici dettagli, una cornice crepuscolare che fa tutt’uno con la morte intrepida dell’uomo: «Nell’azzurro e nell’oro, nella gloria / d’oro del mezzogiorno risplendente, / come un eroe va verso la vittoria, / sacro, immobile innominabilmente, / varchi la notte e fermi la tua storia, / e fermi il sole d’oro eternamente» (XXV, 1-6): «fulgido, in armi, come Sole, andando / al suo tramonto [...]» (La cetra d’Achille, 19-20)[22]. Semmai è da notare come al padre ‘cristiano’di Requiem riesca quel prodigio a cui non giungono né l’intimo Achille del conviviale né l’epico Ruggiero del canto: entrambi sono attesi da una sera perenne, prolungamento di quel vespero che li vede morire e che languidamente raffigura il loro stesso dissolversi. Qui, della «gloria» di un divino «mezzogiorno», del riverbero di questo panico momento diurno, fatto di quelle tinte stesse con cui si erano identificati la gioia e l’amore, l’«oro» e l’«azzurro», il padre, riesce, novello Giosuè, a fermare l’inesorabile trapasso, finendo così per ‘vivere’ in eterno «la luce lucida del sole».
L’ultimo capitolo della prima ‘parte in vita’ non può che innalzarsi quale canonica ‘preghiera’a un’ombra a cui richiedere continua protezione come a un divino nume familiare, come a quei «poveri morti» pascoliani riscattati dal penoso e terrificato silenzio di tante cantafavole borghesi e popolari, ed elevati al ruolo di vigili e clementi dei faventes, senza timore alcuno chiamati a convivere nelle intime esistenze dei superstiti. In contraccambio di questo sovrumano patrocinio, una concezione quasi sacrale del magistero in cui entrambi i figli eccellono: ambedue si impegnano a sciogliere un «cantico della morte» e dell’amore a quella «patria del perdono» da cui intendono ricevere forza e ristoro benevolo, e a cui riescono infine a confessare ciò che un comune «pudore» filiale, pur avessero par lato «piano», in vita, non avrebbe mai potuto far loro dichiarare ai propri cari, «senza vederli arrossire».
Scandite sulla data del funebre evento, anno per anno si susseguono le ottave di commemorazione. Continua per tanto il colloquio esclusivo col Pascoli mortuario, non solo quello dei mesti ricordi degli infiniti lutti familiari, ma anche l’onirico poeta delle visitazioni al regno dei defunti, degli insensati, struggenti conversari del «Ritorno a San Mauro», qui ridotti, essenzialmente, in un assolo del superstite, che tuttavia si ritrova a dire cose «da molti anni / chiuse dentro» al padre, già confessate in simile concitazione d’affetti alla perduta madre di Colloquio e della visionaria sezione dei Canti.
Se ho avuto modo di rammentare già l’incisiva figura etimologica del primo ‘anniversario’ (2 dicembre 1992) «che vivo la sua vita seppellita» (6)– e riconnetterla al corrispondente tropo del Giorno dei morti (cfr. la nota 39 della parte prima), osserverei come la situazione dei rapporti tra padre e figlia sia piuttosto quella che domina la scena di Colloquio, là dove ritroviamo altra simile figura etimologica, condotta sempre sui termini verbali e nominali ‘vivere’-‘vita’, in tutto corrispondente al contesto del primo capitolo ‘in morte’ di Requiem: «[...] È uno sforzo così mesto / viverla senza te questa tua vita!» (II, 1-2). Entrambi i superstiti si ritrovano, infatti, a godere di una vita, non voluta almeno nel caso di Pascoli[23], ma comunque intesa quale non individuale e autonoma esistenza, sibbene tempo sottratto proditoriamente dalla morte ai propri cari e con segnato ai figli. Da questo indubbio stato di perplessità di scende primamente un senso di colpa, quasi che il vivo si senta reo di un’indebita appropriazione ai danni del defunto; ma poi da tale grado di derelizione, incitati dall’ombre che invitano a «benedire la vita che è bella», i salvati si convincono della loro suppletiva missione: continuare a vivere in nome degli amati morti («Adesso vivile le nostre vite!» si afferma nel quarto ‘anniversario’, 2 dicembre 1995, 6). Certo si tratta di un’esistenza non comune, ma signoreggiata da una vocazione intensa, essa stessa dunque reinterpretata, in seguito al grave affanno, come strumento esclusivo per consolare le ombre perdute e trarne plauso e senso al proprio esistere. Come pertanto il figlio-poeta di Colloquio, in un’improbabile ipotesi di ritorno dal mondo dei morti della genitrice, le promette di tramutare con la propria arte il mondo rendendolo novello agli occhi della donna, così anche la figlia-poeta di Requiem si rivolge proprio al simulacro paterno, pregandolo di poter riottenere quella facilità di canto cristallino di un tempo, in fondo perduta per i troppi spasimi provati in vita, e non in ultimo per questo lutto inconsolabile, a cui si vuole sì sciogliere un cantico sublime, ma con l’aiuto di tanto nume custode: «[...] fammi trovare / favole di pietà versi d’amore... / Versi d’amore come ai miei vent’anni» (2 dicembre 1993, 5-7). Ora, se i «vent’anni» sono quelli di una personale primavera colma di speranze e stimoli poetici, universali tempi di chimere, l’espressione discende non a caso da un canto quale Il bolide, meditativo capitolo del «Ritorno a San Mauro» in cui il poeta ripercorre con la memoria i suoi giovanili anni pieni di attese immaginarie, di brame di giustizia, a cominciare dal tramontato sogno di vendetta: «[...] A’ miei vent’anni [...]» (7).
Doppi gli echi nel terzo ‘anniversario’, ansiosa prece all’ombra a cui, prima che la sorte possa ricongiungere nel mondo ultraterreno padre e figlia, si chiede di poter portare in vita un nonnulla che ne sia prova indiscussa di un senso ragionevole. Se l’ottativa formula dell’incipit («Oh, prima ch’io ritorni là con te») richiama il vaneggiare fidente di Commiato, in cui il figlio con più assurda pretesa esigerebbe o di raggiungere la madre anzitempo e dimorare nel freddo soggiorno dei morti, o che questa tornasse a stare nel mondo dei viventi– «... Venir con te? [...]», «... Tu venir qui? [...]» (11, 17)– le postulationes della supplica ricalcano tanto la simile formula implorante del medesimo canto: «Fammi aver qualcosa [...]», «Fa che possa [...]» (2, 6)– «ma fa che ritorni a sperare!» (38), quanto la conforme richiesta espressa nel Viatico, canto di un uomo agnostico che, tuttavia, ha bisogno di aggrapparsi a un pur labile senso esistenziale per trattenersi in vita: «[...] e il paese / gli porta qualcosa che chiese, / [...] / [...] // qualcosa che in tanti e tanti anni, / cercando tra gioie ed affanni, / ancora non poté riporre / da portar via con sé. // [...] / [...] / al niente, al niente che gli occorre, / a un piccolo perché» (13 24)– «fammi avere qualcosa da portare / un piccolo qualcosa dentro me» (2-3).
Triste il distacco che rende evanescenti i tratti di un volto non più scorto. Sul motivo del primo Anniversario pascoliano, «e già gli occhi materni io penso a vuoto; / e il caro viso già mi si scolora» (10-1), la figlia implora gli «angeli del tempo», indiscussi signori del ricordo, di farle rimembrare l’estinto sembiante o se non questo di farle al meno udire un soffio d’accento salvifico, sottratto al trino peso del tempo, della croce (vessillo di pena e emblema insieme di altra religio che non ammette intimi riti domestici di comunione eterna coi defunti) e della terra, impedimento primo che coi suoi «amari bocconi» colma la bocca e blocca ogni più flebile fiato: «Oh! angeli del tempo, io vi scongiuro, / ridategli il suo volto e la sua voce, / [...] / [...] / che senta la sua voce, vi scongiuro, senza più tempo, senza terra e croce» (2 dicembre 1997, 1-6).
Invocato ancora soccorso dal nume per affrontare carnali spasmi e stenti dello spirito, al padre suo ‘benedicente’ la figlia promette di ritornare col pensiero alle epoche della loro felice comune esistenza, a una purezza d’animo che ne consenta alfine l’ammissione alla divina presenza, quando si schiuderanno anche per lei le porte del regno luminoso: «E nella mente dove c’è ogni cosa / tornerò a quando era vamo felici, / stringerò la tua mano che conduce / al coraggio, e nel regno della luce» (2 dicembre 1998, 5-8)[24]. Preghiere sì scandite da secoli «con un sospiro eternamente uguale», e tuttavia non suppliche dirette a santi e a patroni di un pubblico culto, ma intimi appelli e colloqui con ombre deboli e smarrite, padri e madri implorati di un aiuto terreno e di un futuro ricongiungimento: i solleciti scongiuri e le richieste del figlio di Commiato («– Ma dimmi, o madre, dimmi almeno, / se nel tramonto del suo giorno / tuo figlio si deve sereno / preparare per un ritorno! / [...] / [...] // Ricorderò quella preghiera / [...] / tuo figlio risarà qual era / allora che glieli insegnavi: / s’abbraccerà tutto all’altare: / ma fa che ritorni a sperare! // A sperare e ora e nell’ora / così bella se a te conduce / O madre, fa ch’io creda ancora / in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce!», 27 42), le devote familiari liturgie ungarettiane della Madre («Come una volta mi darai la mano», 4); riti dunque il cui ultimo fine è un risaldarsi eterno delle due parti infrante.

NOTE
 
 1 Cfr. Jaufré Rudel (Rime e ritmi): «Contessa, che è mai la vita? / è l’ombra d’un sogno fuggente» (73-4). Dall’immagine carducciana, che ha, rispetto a quella pindarico-pascoliana, in più un elemento, il motivo della fuggevolezza, deriva (seppur ulteriormente annichilita dal tropo della morte) l’ulteriore argomentazione sull’inconsistenza della propria illusione poetica, non solo s??a? ??a? ma «sogni d’ombre morte in lontananza».
2 Cfr. Alexandros (Poemi conviviali): «il sogno è l’infinita ombra del Vero» (II, 10).
3 Si rammenti come del verso del nuovo poemetto si ricordi anche l’Ungaretti negli Ultimi cori della terra promessa, XVI, 4-5: «Da quella solitudine di stella / a quella solitudine di stella», debito già segnalato da Ossola, cfr. C. Ossola, Ungaretti, Milano, Mursia 1975, p. 156.
4 Alludo alla conforme terna di attributi che accompagnano altra voce di madre celeste, «velata, malata, sognata» nella myrica Ceppo, 24, verso di cui si recupera, oltre all’unità metrica endecasillabica, l’identica scansione prosodica (si tratta di un endecasillabo dattilico).
5 Tutto su un opposto registro di rapporti è insomma condotto questo sistema di memorie pascoliane: a tremare è la figlia poeta, che dispensa le sue ambasce d’amore per un uomo assente, e che, al contrario dell’orfano querulo sempre in credito rispetto ai perduti consanguinei, si pone il problema di ritornare ella, qual ‘prodiga figlia’ (quartina 116), presso le donne dolenti di casa, ponendosi così sull’orme di altro figliol prodigo, quel d’Annunzio paradisiaco di Consolazione e del Buon messaggio, a cui Pascoli sembra rispondere col controcanto di Colloquio, malinconioso pianto di un ‘abbandonato’. Quanto alla misteriosa presenza che di continuo viene a farsi udire prossima al poeta, il carattere ‘imperioso’ che le viene attribuito potrebbe far pensare alla figura del simulacro paterno (simile, ma speculare rispetto all’ombra della Voce), si veda in seguito il ritratto vergatone in Requiem, XXI.
6 In effetti la trasposizione della dittologia petrachesca dalla stagione di zefiro all’ora mattutina è già operata da Tasso in Ger. lib., VII, XXV, 7-8: «E vede in tanto con serene ciglia / Sorger l’aurora candida e vermiglia». Si osservi, inoltre l’identico impiego del verbo ‘sorgere’ e soprattutto la rima con la parola «ciglia». Insomma, di certo anche il luogo tassiano riecheggia nella quartina valdughiana, avviluppato col suo archetipo petrarchesco e con l’imprevedibile innesto pascoliano.
7 Le tracce petrarchesche dell’ottava d’esordio sono labili, ma molteplici, a cominciare dall’incipit, «Anima [...]» che più che ri chiamare RVF, CCCV (sebbene l’anima invocata lì come nell’ottava è quella del caro compianto), rimanda all’appello alla propria anima di RVF, CCIV, poiché è in questo sonetto che, in antitesi, il poeta rammenta le proprie facoltà intellettive e affabulanti, negate quest’ultime in RVF, CCCXXV, 97, allorché si impiega il medesimo aggettivo «mute» in relazione alle «lingue», qui attribuito a una «mente» che fa pensare, d’altra parte, alla «mia sorda mente» di RVF, CCXC, 9. Capacità di intendimento che trova riscatto da questo suo silenzio in una distinta e chiara consapevolezza, che a sua volta è plausibile memoria del «conoscer chiaramente» di RVF, I, 13, ancora il sonetto proemiale, occasione al poeta di ricordare una sua passata condotta, «quand’era in parte altr’uom da quel ch’io sono» (4), criticato contegno di sempre nell’ottava di Requiem: «e vede tanto chiaro cosa sono» (3).
8 Del resto quel paragone col «mucchiarello d’alga presso il mare» che fa dell’ectoplasma fanciullo di Giovannino, 7, un essere «solo soletto», in tutto simile all’«anima compagna» del fratello Luigi del Giorno dei morti («come ti vedo abbrividire al vento / [...] // [...] sembra che tu sia / un bimbo ignudo, pieno di sgomento, / che chieda, a notte, al canto della via», 110-4) se è immagine di infinita tristizia in tutto corrispondente a questo autoritratto della prima ottava, è pure condizione specularmente provata dal padre nelle ultime sequenze di vita: «ti vedo, solo, solo e senza amore» (II; 5). «Soletto su l’orlo di un lago», al tramonto della propria esistenza, se ne sta pure il protagonista del canto Il mendico, 1.
9 La variante si spiega ancora una volta in nome della necessità di mutare messaggio: se nella myrica il figlio, stanco del male di vivere, si allontana dall’esistenza che gli appare qual fiume eracliteo, acqua che scorre ininterrotta e che perenne dura, qui, al contrario, la vita che sembra avanti tempo distaccarsi dal padre, ne porta i segni dell’imminente rigore mortuario. La clausola «sempre più lontano» è comunque cara a Pascoli, che la impiega anche in altro capitolo myriceo, Il bove, 3 e in Italy, c. II, XII, 9. Quanto all’aggettivo che discende direttamente dal X Agosto, «immobile», è poi riproposto anche in XIX, 2.
10 Non escluderei che anche questa non trattenuta stilla di dolore sgorghi dall’infinito fonte lacrimale della poesia pascoliana, penso alla «povera lagrima sola» di un canto come La poesia, 50 (seppure intenderei quel «sola» nel senso di ‘negletta’, non ‘unica’), e soprattutto alla solitaria goccia di pianto composto, di fronte alla miseria, versata dal poeta nel canto Fanciullo mendico, 3-4: «Una lagrima sparsi, una sola, / per tante sue povere pene».
11 A sedere nella Tessitrice è propriamente il poeta, ma la fanciulla è già assisa sulla panchetta del telaio. L’atto di sostare seduti, per meglio ragionare sull’intera propria esistenza, è un modo per interrompere un percorso che da qui in avanti sarà, seppur dolente, almeno più consapevole; sosta così a meditare sulle proprie sorti anche il ramingo della myrica In cammino, 1: «Siede [...]».
12 Ma l’espressione torna variata in tanti modi; penso ai «cari, cari suoi morti» del canto La tovaglia, 40, «a’ suoi morti» di altro capitolo della medesima raccolta, Tra San Mauro e Savignano, 61, alla formula più volte impiegata «cari morti», il cui aggettivo appare quale una risemantizzazione dell’omerismo che ha semplice valore di possessivo.
13 Cfr. La piccozza, 16-20: «piangendo, sì, forse, ma piano: // piangendo quando copriva il turbine / con il suo pianto grande il mio piccolo, / e quando il mio lutto / spariva nell’ombra del Tutto». Ma si vedano anche il canto La poesia, 85 e il nuovo poemetto Il prigioniero, 3. La fonte antica dovrebbe essere appunto Pindaro, fr. 42, 1 (Stobeo, Florilegio, CIX). Del resto, in epilogo alla prima parte del poemetto, l’amato padre verrà ringraziato anche per aver insegnato alla figlia «come si muore» (XXVII, 6), esperienza di cui l’uomo ha fatto dolorosa prova, evento sì inatteso che non risparmia neppure giovani ed imperite esistenze, ma che può indurre anche le più indifese creature a ‘far tesoro’ di questo saggio estremo (la clausola deriva dalla Figlia maggiore, 11-2: «ché lo seppe, misera, un giorno, / come si muore!»).
14 La clausola «pian piano» riconduce comunque ad altro luogo pascoliano, La voce, in cui si descrive altro delicato gesto materno verso un figlio che non si vuol turbare esternando dolore, neppure sentendosi legittimate da un credo ufficiale a sconcertare ulteriormente un uomo già provato dai triboli della vita: «Ma voleva dirmi, io capiva: /– No... no... Di’ le devozïoni! // Le dicevi con me pian piano» (27-9) (atto soave che sarà in seguito ripetuto, perché dettato da identica sensibilità sororale, da Maria verso il poeta infermo, cfr. La mia malattia, 37-40).
15 Il tema si rintraccia anche in altri luoghi pascoliani, cfr. nei Poemi conviviali, Psiche, I, 29-30 e Il cieco di Chio, 84-6; nei Carmina, Nemorini silvula, V, 11, e Crepereia Tryphaena, 13-4.
16 Recuperando specularmente il copione pascoliano, già parziale ricordo dell’incontro ultraterreno tra Enea e Anchise, l’archetipo sembra ricostituirsi nelle sue due parti scisse: quelle duplici, monodiche invocazioni ai figli in Pascoli, nella Valduga al padre, riecheggiano il polifonico duplice grido di Aen., VI, 689, 693 e 695, 698, là dove Anchise appella per due volte col vocativo «nate» il figlio, a cui due volte risponde con la corrispettiva esclamazione, «genitor», Enea. Si rammenti che il verso 75 del Giorno dei morti è già riproposto nella Tentazione, IV, 16.
17 Si rilevi che nell’ottava la parola «occhi» è in rima con «ginocchi», ulteriore indizio di memoria, seppur vaga, del poemetto pascoliano.
18 L’impedimento a parlare diviene poi, con la morte, condizione fissa determinata da quella «terra» «cattiva» che riempie la cava bocca del defunto nella Voce.
19 Analoga sollecitudine circa il mangiare del figlio (qui in Requiem messa ancor più in rilievo dal fatto che il padre non possa più bere) è quella sempre dell’ectoplasma materno della myrica Sogno, 7-8, che pur di apprestare un misero pasto serale al figlio ‘di ritorno’ dal mondo dei vivi, neppure si fa vedere da questo.
20 L’idea di un mondo ultraterreno inondato da luce perenne, tradizionale visione paradisiaca, è agli antipodi dell’omerico concetto di un luogo dove «non è che sera», fatto proprio da Pascoli in quel vesperale viaggio ai morti che è «Il ritorno a San Mauro», cfr. soprattutto Mia madre, 28-9: « ...Come non è che sera, / madre, d’un solo dì?».
21 L’aggettivo «lucida», se proviene direttamente dal verso del poemetto, potrebbe invero essere stato suggerito anche da quell’identico attributo con cui Pascoli altrove definisce, non a caso, sempre la portentosa facoltà espressiva del poeta: «Tu, poeta, nel torbido universo / t’affisi, tu per noi lo cogli e chiudi / in lucida pa rola e dolce verso» (I due fuchi, 1-3).
22 Nella Cavalla storna l’identificazione tra crepuscolo del sole e agonia paterna è condotta non tramite un manifesto paragone, ma per mezzo di una più velata analogia: «lo riportavi tra il morir del sole» (43).
23 Allo sdegnoso rifiuto dell’orfano di Colloquio– «[...] La vita / che tu mi desti– o madre, tu!– non l’amo» (I, 13-4)– la Valduga risponde piuttosto con un sentimento di inadeguatezza: «che vivo inutilmente e inutilmente» (2 dicembre 1992, 7).
24 Si osservi, oltretutto, l’identica rima «conduce»-«luce».

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