« indietro AMELIA ROSSELLI E LA LIBERAZIONE DEL CANONE
di Lucia Re
Negli anni dopo il tragico suicidio di Amelia Rosselli l’11 febbraio del 1996, la fama di questa poetessa ha continuato a crescere in Italia e nel mondo. Jacqueline Risset ha definito la Rosselli «sicuramente uno dei più grandi poeti Italiani del ventesimo secolo.»[1] Nuove edizioni e traduzioni delle sue poesie sono state pubblicate, insieme a studi e monografie (se ne contano ormai una decina, e altri volumi sono in arrivo, molti di critici giovani e molti di donne) e a un volume intitolato Una scrittura plurale che raccoglie quasi tutti gli articoli, le prefazioni e i saggi cri tici della Rosselli.[2] Rosselli è stata la prima e sola donna ad essere inclusa nell’antologia ormai canonica di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, pubblicata nel 1978 e ristampata da Mondadori nel 2003 nella serie «Grandi Classici.» In questa antologia però, quasi a indicarne fisicamente la marginalità rispetto alla tradizione italiana del novecento, Rosselli si trova alla fine del volume, agli estremi margini del testo, seguita solo da Franco Loi, le cui poesie sono in dialetto milanese. Rosselli viene descritta nell’antologia di Mengaldo nei seguenti termini: «La suggestiva e spesso potente poesia della Rosselli era e resta un fenomeno in sostanza unico nel panorama letterario italiano, legandosi piuttosto ad altre tradizioni, l’anglosassone– tra metafisici e irregolari– e la surrealista francese [da] cui prosegue direttamente.»[3] La ragione della marginalità della Rosselli, a cui viene riconosciuto solo con qualche perplessità il diritto di appartenenza al canone poetico del novecento, viene quindi vista sostanzialmente come una conseguenza del suo essere ‘poco italiana.’ La posizione della Rosselli nel canone della poesia contemporanea risulta in effetti tuttora ambigua, ma proprio per questo significativa ed importante per capire che cosa sta succedendo allo stesso canone. Infatti, dare adAmelia Rosselli lo spazio che la sua poesia merita nel canone vuol dire cambiare anche profondamente l’idea stessa di canone.
L’antologia del 1996, Poeti italiani del Novecento, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, pubblicata nella canonica e canonizzante serie de «I Meridiani» di Mondadori, ha apparentemente confermato la posizione di spicco della Rosselli, ma circoscrivendola nell’area della neoavanguardia italiana, insieme a Pagliarani, Sanguineti, Giuliani, Balestrini e Porta. Anche qui tuttavia la Rosselli è l’unica donna, e il suo nome compare per ultimo. La Rosselli stessa avrebbe probabilmente avuto comunque dei dubbi su questa collocazione nel canone della neoavangurdia italiana, di cui fu spesso molto critica. Altri critici, in parte a causa dell’interesse di Pasolini per la Rosselli (fu lui a ‘scoprirla’ e a aiutarla a pubblicare nel 1963 le prime poesie), ritengono che la poesia della Rosselli rientri piuttosto in una linea pasoliniana di sperimentalismo. Ad ogni modo, forse proprio a causa di questa difficoltà a farla rientrare in categorie familiari rispetto alla tradizione poetica italiana del novecento, e persino rispetto all’Italia, rimane tuttora irrealizzata la pur ripetutamente ventilata ipotesi di dedicare alla poesia della Rosselli un volume della serie dei «Meridiani,» veneranda collana che costituisce una sorta di italica «Pléiade.»
La Rosselli non viene inoltre quasi mai menzionata nelle storie della letteratura italiana e nelle antologie dedicate alle scuole. Per quanto possano essere strumenti di conoscenza discutibili e fortemente ideologizzati, in Italia le storie letterarie e le antologie per le scuole rimangono i canali principali per l’imposizione e la propagazione di massa di una certa immagine del canone letterario. Infatti il canone letterario può in un certo senso definirsi almeno in parte proprio come quel patrimonio di testi e di autori che si ritiene necessario tramandare e far conoscere agli studenti delle scuole superiori.[4] Una recente antologia di saggi sulle scrittrici che si suppone siano ‘eccentriche’ rispetto al canone, intitolata appunto Le eccentriche, dedica invece un centrale e lungo saggio ad Amelia Rosselli, firmato dalla comparatista Ernesta Pellegrini.[5] Ecco quindi il paradosso: marginale o assente nel canone tradizionale essenzialmente maschile, la Rosselli sembrerebbe centrale invece in un canone ‘altro,’ cioè femminile. Ma le cose non sono nemmeno così sem plici, infatti persino nei ranghi delle ‘eccentriche’ la Ros selli viene presentata come marginale, perché considerata insufficientemente autobiografica e, soprattutto, eccessi vamente oscura. Rosselli viene quindi alla fine sospinta da Pellegrini verso i ranghi di un altro canone, transnazionale e illustre ma anch’esso fondamentamentalmente maschile: un canone che si può definire della follia: Rosselli apparterrebbe infatti alla ‘categoria del poeta folle’ insieme a Novalis, Rimbaud e Campana. Per quanto Rosselli amasse questi poeti, non c’è dubbio che avrebbe respinto anche questa categorizzazione.
La strana vicenda della difficile e instabile canonizzazione delle Rosselli e i dubbi e le incertezze che essa tuttora provoca sono interessanti e importanti non solo per quanto riguarda la storia della ricezione della sua poesia, ma per la questione più vasta e quanto mai urgente del canone letterario e poetico. L’opera e la figura della Rosselli, e il suo stesso modo di avvicinarsi al canone, di farsene uno suo, e di immaginare una propria posizione e ruolo rispetto ad esso, sono infatti illuminanti, e aprono nuove prospettive per il futuro delle istituzioni letterarie che sembrano trovarsi ormai in una situazione di impasse.
I termini del dibattito odierno per quanto riguarda la letteratura e la poesia italiane sono infatti alquanto polarizzati. Dai numerosi convegni e volumi recentemente dedicati all’argomento del canone, si desumono posizioni opposte e anche paradossali. Da un lato molti critici e storici autorevoli di formazione tradizionale (e più che altro uomini) vivono la messa in questione del canone come una crisi epocale legata alla deriva postmoderna che starebbe eliminando non solo il pubblico ma il valore stesso della ‘vera’ letteratura.[6] Dall’altro la critica di orientamento femminista e/o post-strutturalista o neo-storico sembra considerare la questione del canone inattuale e persino su perflua.
Secondo la visione apocalittica dei primi, alla letteratura si starebbero progressivamente sostituendo da un lato forme inferiori di espressione identitaria e di testimonianza (di donne, minoranze etniche, omosessuali) e dall’altra la comunicazione massmediatica. Alla testimonianza si nega, con rare eccezioni, la capacità di farsi letteratura e poesia, o almeno poesia ‘vera’. Le università americane vengono indicate da molti come i luoghi della nefasta affermazione del femminismo, dei ‘cultural studies’ e del ‘politically correct,’ fenomeni che nel pretendere di dare finalmente ascolto e risonanza alle voci di gruppi storicamente marginalizzati, hanno contribuito a svalutare il canone tradizionale fatto da e di uomini bianchi, infliggendo un colpo mortale all’essenza stessa del discorso letterario che con esso si identificherebbe. Se tale visione degli studi letterari e culturali in USA può apparire, a chi lavora all’interno del sistema accademico americano, eccessiva, fuorviante e semplificatoria (i canoni tradizionali vi sono infatti– con rare eccezioni– vivi e vegeti, e i testi di donne e di minoranze sono tuttora ben lontani dall’avere assunto un’importanza centrale, così come donne e minoranze sono ancora in netta minoranza nel corpo docente non-precario), essa è tuttavia sintomatica di una tendenza italiana ad attribuire ad altri (spesso con rinnovate accuse di imperialismo culturale e politico) le ragioni di una crisi che andrebbero invece ricercate nella difficoltà che le istituzioni letterarie, accademiche e scolastiche in Italia hanno a rinnovarsi e a crescere.
Di fronte alla fioritura di possibili canoni alternativi, alla prospettiva di una definitiva caduta di un canone dominante, e alla messa in questione dei valori e dei criteri di selezione che definiscono che cosa rende importante e valido un testo letterario, si preferisce dichiarare finita la letteratura stessa, e defunti gli studi letterari. Sono pochi quelli che ammettono d’altro lato che «patiamo la degenerazione di un canone invecchiato»[7], o che il canone come istituzione spesso funziona brutalmente come una specie di mattatoio,[8] e che gli studi letterari non hanno purtroppo ancora offerto un rinnovamento simile, per esempio, a quelli storici. Mentre infatti gli storici si sono interrogati a fondo su che cosa sia la storia, che cosa costituisca un fatto o un avvenimento storico e che cosa meriti di essere archiviato, ricordato e raccontato, lo stesso processo deve ancora verificarsi– almeno a livello istituzionale– per la letteratura e per la poesia italiana.
La critica femminista italiana, e l’italianistica di im pronta femminista sia in Italia che in USA che in Inghilterra e altrove, hanno, a cominciare dagli anni settanta, portato alla luce un continente sommerso e sorprendente di scritture femminili, e stanno continuando a farlo.[9] Si tratta di un contributo che potrebbe avere un ruolo chiave non solo nella comprensione dei processi storico-culturali di formazione del canone e di gerarchizzazione dei generi letterari e delle scritture, ma anche nel processo di riconfigurazione e trasformazione del canone stesso. Un canone letterario infatti non è più concepibile come un monumento ouninsieme di monumenti inerti ed eterni, ma è un campo di forze che vivono, crescono e cambiano in reciproca tensione e in sintonia con i rapporti di potere e di genere, i valori culturali e le esigenze di una comunità immaginaria.[10] La natura immaginaria della comunità ‘nazionale’ vuol dire non solo che essa è un’elaborazione culturale e ideologica necessariamente instabile, ma anche che, pur con lunghi e sostenuti periodi di apparente coagulazione e stabilità, essa è sostanzialmente ambivalente e transitoria. Il monumentale canone ottocentesco della letteratura italiana fu formato e tramandato da alcuni uomini di potere per formare e tramandare un’identità culturale che potesse essere detta ‘italiana,’ basata sull’idea della in discussa superiorità (e spiritualità) maschile e la naturale debolezza (e corporalità) femminile, reprimendo inoltre ooccludendo istanze etniche, sessuali o linguistiche alternative. Neanche il futurismo riuscì a intaccare il canone ottocentesco, e anzi, nel tentativo di negarlo totalmente finì per essergli indissolubilmente legato e per assorbirne l’ideologia nazionalista e discriminatoria. Il primo momento storico in cui tale canone (e l’idea uniforme di identità nazionale e linguistica ad esso connessa) furono sottoposti a un processo di sfaldamento e ripensamento fu il secondo dopoguerra, con il neorealismo e il recupero di Verga e di Gramsci. Non è un caso che alcuni tra i grandi, innovativi scrittori italiani del novecento, tra cui Calvino, Pasolini e la stessa Amelia Rosselli, affondino le loro radici in parte proprio in quel sommovimento tellurico e critico che furono il neorealismo e il gramscismo. Il neorealismo e il gramscismo infatti misero in crisi il canone ottocentesco e il suo autoritario paternalismo.
In realtà, un nuovo canone del e nel novecento italiano non si è mai veramente formato o stabilizzato, almeno per la prosa, come si può vedere dai testi e programmi scolastici italiani, in cui tuttora mancano indicazioni precise o stabili e si riciclano schemi storiografici e generazionali stantii e luoghi comuni sul fatto letterario, mentre manca un qualsiasi tentativo di dare agli studenti un senso critico del canone come processo istituzionale e storico ideologizzato e in continua evoluzione. Anche il canone poetico novecentesco è tuttora instabile e controverso, e certo non solo per ragioni di prossimità temporale al presente. I tentativi più recenti di sintesi del novecento letterario italiano, anche quelli proposti da editori che in altri settori sanno essere innovativi e vivaci, appaiono deboli e per molti versi scontati, e solo apparentemente aperti a fenomeni quali la globalizzazione e l’internet.[11] Francesco De Sanctis non ebbe problemi infatti a canonizzare scrittori del suo stesso secolo, addirittura suoi contemporanei, contribuendo a costruire una immaginaria identità nazionale per ‘l’Italia’; Benedetto Croce dopo di lui fece altrettanto, ma ricordando e recensendo (contrariamente a De Sanctis) anche le scrittrici sue contemporanee, non stancandosi però mai di metterne in luce, in quanto donne, la supposta inferiorità ‘naturale’ e l’incapacità di elevarsi al di sopra della di mensione corporea, con effetti per la gerarchizzazione del canone e dei generi letterari e la marginalizzazione della scrittura femminile che, pur attenuandosi nel secondo do poguerra, durarono almeno fino agli ultimi anni ’60.[12] La crisi del canone di cui siamo testimoni all’inizio di questo millennio è quindi paradossalmente la crisi di un qualcosa che non c’è, o che comunque non ha più, almeno dal periodo del ’68 in poi, trovato il consenso e il riscontro nella comunità allargata dei lettori, degli insegnanti e degli stu denti, e degli scrittori, che aveva avuto e in una certa misura ancora ha il canone tradizionale ottocentesco.
Il più importante momento di aperta contestazione del canone– un canone pur tuttavia già assente o latitante– si è avuto nel secondo novecento prima con la neoavanguardia, e poi con il ’68 e l’affermarsi del femminismo. La neoavanguardia, proprio per il suo anticanonico tentativo di azzerare in modo assoluto il valore letterario, e di confondere poesia e discorso mass-mediatico o pubblicitario, ha finito però, nonostante la lucidità critica di alcuni teorici,[13] per non avere un impatto di rilievo sulle istituzioni letterarie. Pur ironicamente canonizzata essa stessa (spesso anzi auto-canonizzata) nelle antologie poetiche del novecento, la neoavanguardia si è rivelata sterile, poco leggibile e chiusa in se stessa, priva della risonanza e della forza di diffusione che invece ebbe il futurismo, il quale creò una sua pur idiosincratica tradizione alternativa.
La teoria e la filosofia femministe, che dagli anni settanta in poi ha raggiunto in Italia livelli molto alti (basti citare i nomi di studiose italiane o italofone quali Carla Lonzi, Adriana Cavarero, Patrizia Violi, Luisa Muraro, Rosi Braidotti e Teresa De Lauretis), ha invece, anche attraverso il dialogo con teorie femministe e post-strutturaliste di altra provenienza e transnazionali, fornito i presupposti per un ripensamento e una critica dei valori egemonici propugnati dai canoni tradizionali, sia filosofici che letterari, e dei criteri usati per la canonizzazione. La critica femminista ha potuto quindi non solo cominciare a portare alla luce un grande continente sommerso di scritture femminili che vanno dal medioevo al novecento, ma, alla luce della teoria e dell’analisi testuale e contestuale, ha potuto iniziare a proporre nuovi modi di valorizzare, capire e amare questi testi non solo in quanto documenti o testimonianze, ma anche in quanto esempi di un diverso tipo di letterarietà. L’attenzione alla specificità di genere ha favorito inoltre il recupero e la valorizzazione di generi letterari precedentemente considerati minori, e non pertinenti per il canone, quali i diari, le lettere e le scritture di tipo confessionale.
Se e come questi valori alternativi potranno essere proposti a delle nuove generazioni di studenti e di lettori e da esse riconosciuti validi e importanti resta ancora in larga misura da vedere. Infatti, con rare eccezioni (quali il programma di dottorato in storia delle scritture femminili dell’Università di Roma La Sapienza), la critica e la didattica di stampo femminista e post-strutturalista non si sono, almeno in Italia, impegnate, né, a parte alcune sacche e pieghe eccezionali all’interno delle istituzioni, hanno trovato a dire il vero ascolto e un autentico riscontro sul terreno tradizionale dell’italianistica nella scuola e nell’università, e tanto meno su quello della canonizzazione attraverso le istituzioni letterarie quali le antologie e i libri di testo.
Il senso di assedio e apocalissi espresso a più riprese dai critici tradizionali che temono un assalto al canone letterario italiano simile a quello che, secondo Harold Bloom e altri, ha travolto il canone di lingua inglese, si rivela essere dunque un fenomeno paranoico. Più che a un ripensamento critico e a un sovvertimento, allargamento e riconfigurazione del canone dominante– più o meno indebolito o assente–, il femminismo italiano si è infatti per ora impegnato a un rifiuto del canone stesso come principio autoritario e ‘maschile’. L’esempio più recente di questa presa di posizione è il volume Oltrecanone. Per una cartografia della scrittura femminile, a cura di Anna Maria Crispino, che raccoglie gli atti di un convegno sul canone del 2000 della Società Italiana delle Letterate (Roma, Manifestolibri 2003).[14] (È da notare che né di questo convegno, né delle ricerche di queste studiose, si dà alcun conto nel volume Un canone per il terzo millennio appena citato). L’idea di una cartografia molecolare e diffusa viene sostituita da queste studiose a quella di canone, e il progetto di fondo è quello di costruire non un canone alternativo o supplementare ma reti di genealogie elettive femminili.
Un tale sapere e il senso di comunità culturale che ne deriva per le donne che vi partecipano sono certo preziosi, ma ci si può chiedere se non sarebbe opportuno impegnarsi con più forza anche sul terreno istituzionale e cercare di aprire un dialogo produttivo con quei critici “autorevoli” che in Italia (ma non solo) tuttora detengono un accesso privilegiato alle istituzioni letterarie e accademiche tradizionali, e quindi al potere di canonizzazione.[15] Alcuni sicuramente già lo fanno, almeno in parte, e per quanto possibile all’interno di istituzioni spesso molto rigide, invecchiate e poco recettive. La stessa Virginia Woolf, a cui si richiama tuttora polemicamente il femminismo italiano, coniò sì da una parte l’idea di una genealogia femminile nella scrittura letteraria, ma si misurò anche sempre e tenacemente con il canone maschile, di cui seppe interrogare e sovvertire le regole e le gerarchie, cambiando il senso della letteratura non solo per le donne ma per tutti i suoi lettori.
È chiaro che la crisi del canone invecchiato o assente della letteratura e in particolare della poesia italiana per cui non si sa più che cosa far leggere agli studenti nelle scuole che non sia uno stantio riciclaggio del solito, e che non provochi noia e risentimento, non è un effetto della morte della letteratura e del trionfo dei mass-media e della tecnologia, né tanto meno una conseguenza del trionfo del femminismo e dei cultural studies anche in Italia. L’eccezionale interesse dei giovani e del pubblico in generale per la poesia in Italia è evidente, per esempio, dalla pubblicazione di un’antologia gigante come Parola plurale. 64 poeti italiani fra due secoli, curata da Andrea Cortellessa e, con schede introduttive dotte ed illuminanti, da altri sette giovani critici (Luca Sossella editore, 2005), ed andata subito esaurita. Lo stesso si può dire di un altro best seller, Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998), curata da Cortellessa. Queste antologie sono esempi di come raffrontare la tradizione con il nuovo, e di come riproporre la poesia con approcci non scontati. Inoltre l’internet non ha come spesso si crede inibito, ma piuttosto enormemente potenziato e liberato l’accesso degli studenti e dei lettori in generale ai testi poetici e letterari. Il potenziale dell’internet come mezzo di riconfigurazione e ricognizione del canone è enorme, anche se non facilmente controllabile.
La crisi o assenza dei canoni di cui ci si lamenta (o che si auspica) è la conseguenza di una trasformazione culturale e antropologica in corso che sta rendendo il concetto stesso di canone nazionale, legato cioè a un’unica lingua e cultura e a precisi criteri di gusto, di stile e di genere (non solo letterario, ma anche sessuale), una reliquia di un passato non più riproponibile negli stessi termini. L’opera di Amelia Rosselli, amata e apprezzata anche da chi la legge in traduzione, e la stessa difficoltà ma allo stesso tempo inoppugnabilità che essa ha dimostrato fin dagli anni settanta, sono esemplari di un movimento verso un nuovo tipo di canone maschile e femminile della poesia che dobbiamo ancora pienamente concettualizzare: un canone che è in termini culturali, stilistici e linguistici sia trans-nazionale che italiano, cosmopolita e metropolitano, nomadico e localizzato: un canone la cui ricca ibridità contribuisce a decostruire ed aprire la nozione stessa di canone, senza però semplicemente abolirlo o diluirlo in un canone ‘mondiale’ e ‘politically correct.’
La grandezza della Rosselli è legata innanzitutto all’originalità del suo linguaggio. Trilingue fin da bambina, la Rosselli è riuscita a innestare in modo magistrale nella sua poesia elementi dell’inglese (la lingua della madre) e del francese (la lingua del paese in cui trascorse l’infanzia in esilio dall’Italia con i suoi genitori antifascisti), a volte creando neologismi e nuove espressioni linguistiche trasversali rispetto alle lingue usate. Ha scritto poesie sperimentali in inglese, raccolte in parte nel volume Sleep (con testi che vanno dal 1953 al 1966). È importante ricordare che il suo stile è anche profondamente influenzato da quel linguaggio universale che è la musica. Rosselli sapeva suonare il violino, il pianoforte e l’organo, e avrebbe voluto a un certo punto fare carriera come musicologa e musicista. Studiò con Dallapiccola, lavorò per un breve periodo con John Cage, e si interessò di musica elettronica e dodeca fonica.
Quando Rosselli emerse sulla scena della scrittura poetica nel 1964 con il volume Variazioni belliche, non vi era già nulla di immaturo nella sua scrittura, che affascinava anche chi la trovava opaca e sconvolgente. Il secondo volume, Serie ospedaliera, conteneva un poemetto, La libellula, il cui nucleo risaliva al 1958, e in cui erano già chiari i segni dell’originale plurilinguismo sperimentale della Rosselli e le sue innovative pratiche intralinguistiche e intertestuali. Il Gruppo 63 la invitò a prendere parte ai loro incontri, e Rosselli ci andò alcune volte a leggere le sue poesie, ma in generale la neoavanguardia (con l’eccezione di Porta) non le piaceva, perchè le sembrava troppo infantile e regressiva. L’ossessione della neoavanguardia italiana per la violenza, la violenza apparentemente gratuita fatta al linguaggio, e la sperimentazione selvaggia fine a se stessa, sono interamente assenti dalla poesia della Rosselli.
Il lavoro della Rosselli con il linguaggio, per quanto possa sembrare dapprima oscuro, è sempre a ben vedere il risultato di un tentativo puntiglioso e tenace di dare al lettore un senso accurato e fedele di una realtà, spesso violenta, penosa ed oppressiva, sperimentata o testimoniata direttamente: una realtà che la Rosselli, senza vera patria, e figlia di esuli antifascisti, desidera mettere a nudo e denunciare. Il fascismo, la Seconda guerra mondiale, l’esilio, la guerra civile, l’olocausto, la condizione di rifugiato e di nomade, la guerra fredda, la discriminazione sessuale e razziale, l’ingiustizia sociale, l’oppressività dei massmedia, l’avvento devastante del consumismo, il volgare e ottuso egoismo della borghesia: sono tutte realtà storiche ed esistenziali di enorme rilevanza anche per il nostro secolo che i suoi testi evocano, intrecciando il privato con il pubblico, il personale con il politico. Con il suo lavoro sul linguaggio, e attraverso il doloroso scandaglio dell’inconscio e della dimensione corporea e sessuata dell’esperienza di cui si nutre la sua poesia, Rosselli fa esplodere il canone maschile della lirica dal di dentro, e demolisce il mito della sua pretesa universalità. Senza mai essere meramente testimonianza autobiografica, la poesia della Rosselli riesce a dare un senso assoluto e indimenticabile alla sua esperienza individuale di donna, e allo stesso tempo a testimoniare e a farci ricordare e sentire con una forza unica di suggestione il tormento, il fragore e le dissonanze del sanguinoso secolo breve– il ventesimo secolo– e l’angoscia di generazioni vissute senza pace, in un permanente stadio d’assedio che tutt’ora ci assilla.
La poesia della Rosselli manca tuttavia completamente di enfasi retorica e di cronachismo. Il modo che la Rosselli ha di manipolare il linguaggio è infatti essenzialmente musicale. Il suono, e le costellazioni di significato e associazioni semantiche generate da effetti fonici particolari (soprattutto ripetizioni di singole lettere o parole all’interno del verso, o tra verso e verso, o anche tra pagina e pagina), assonanze, echi, paranomasie, sono alla base del lavoro stupefacente della Rosselli con il linguaggio. Invece che seguire solo l’ordine ‘naturale’ sintattico e orizzontale della frase e del verso, il significato è creato verticalmente nello spazio del testo poetico attraverso costellazioni di suoni, echi, propagazioni sonore ed allusioni intertestuali. Nell’usare vari tipi di paranomasia, Rosselli accosta lessemi che hanno somiglianze fonetiche (anche se privi di rapporti etimologici o semantici) creando effetti di significati nuovi e inaspettati altamente evocativi. Per ottenere particolari connotazioni e sfumature, la Rosselli non esita ad alterare la sintassi in modo quasi irriconoscibile, a sfigurare la morfologia delle parole aggiungendo o sottraendo lettere o sillabe, e inventando nuove parole ibride.
Non c’è dubbio che la tradizionale passione degli studiosi italiani per la critica stilistica abbia contribuito– una volta sorpassato l’equivoco che vedeva nella scrittura della Rosselli una specie di registrazione automatica di tipo surrealista di un inconscio malato, di un delirio o di incontrollabili pulsioni– a rendere interessante ai loro occhi la poesia della Rosselli, del cui lavoro linguistico e intertestuale esistono ormai molti puntigliosi e approfonditi scavi. L’accumulazione di questa produzione critica intorno all’opera della Rosselli e la messa a punto filologica dei suoi testi su cui si continua a lavorare non solo ci permettono forse di leggerla e capirla meglio, ma sono una parte inevitabile del processo di canonizzazione. Tuttavia Rosselli non rientra nella plurisecolare tendenza all’espressionismo linguistico, a quell’edonismo della forma, allo scatenato multilinguismo e all’ardita mescolanza di stili così diffusa nella letteratura italiana da Folengo alla stessa neoavanguardia. Né tanto meno il suo discorso poetico è un citazionismo ironico-giocoso o un riciclaggio di tipo postmoderno. La Rosselli infatti plasma il proprio discorso poetico e musicale sempre per veicolare e comunicare dei significati specifici, spesso altamente drammatici e tragici, della propria esperienza individuale e storica, e per sostenere e nutrire in se stessa e nel lettore un senso di indignazione e un vitale desiderio di bellezza e di redenzione che sono l’essenza della scrittura poetica come resistenza.
La ragione fondamentale della forza della Rosselli e del riconoscimento critico che le viene sempre più insistentemente tributato non a caso proprio in questa fase storica di crisi del canone tradizionale, è la straordinaria libertà con cui Rosselli si pose rispetto al canone stesso, non solo italiano ma di tutte le letterature a lei note. Benché le sue conoscenze letterarie e i suoi studi fossero molto idiosincratici e personali, totalmente al di fuori della tradizionale formazione scolastica o accademica italiana (o forse proprio per questo), la sua poesia rivela le tracce di una frequentazione che definirei amorosa del canone della poesia italiana. Infatti leggere la Rosselli, a cominciare da La libellula vuol dire trovare quasi ad ogni verso tracce, immagini, citazioni, allusioni, espressioni particolari, che come squarci di luce improvvisamente ci riportano con inauditi e a volte perturbanti accostamenti ad attingere alla nostra memoria collettiva di un vasto passato poetico che spazia da Cavalcanti a Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Campana, Montale e Pavese, per citarne solo alcuni. Questi si intersecano con eco ed allusioni tratte dalle letterature di lingua inglese e di lingua francese: John Donne, Shake speare, Emily Dickinson, Hopkins, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé a cui bisogna aggiungere le allusioni a testi classici, a Saffo, ai tragici greci, a Kafka, a Rilke, e ai grandi modernisti T.S. Eliot e Ezra Pound, a Pasternak, a Sylvia Plath, e a poeti anche non canonici, come l’amatissimo John Berryman, di cui Rosselli apprezzava soprattutto Homage to Mistress Bradstreet, a Rocco Scotellaro, perennemente snobbato dalle antologie forse perché troppo ‘proletario’, e a Sandro Penna, la cui omosessualità sembra renderlo ancora sospetto ai critici italiani.
La Rosselli si avvicina ai canoni letterari e ne trae materia per i suoi versi non per un progetto parodico dissacratorio o di bricolage, né con l’atteggiamento tipico del poeta del novecento che (secondo il modello maschile eroico e neo-romantico teorizzato da T. S. Eliot, di cui Harold Bloom non è in fondo che un attardato epigone) cerca di dominare una specifica tradizione e stabilirvi, attraverso un rapporto di violenza agonistica con l’altro, la propria autorità e originalità, né tanto meno con falsa modestia crepuscolare o ironia postmoderna. Rosselli ricava dalla poesia altrui, dalla grande poesia amata, schegge di luce e di discorso amoroso con cui illuminare e dare vita al proprio discorso poetico, attraverso cui far trapelare lampi di speranza e un’idea di bellezza e di resistenza alla violenza del secolo sanguinoso in cui ha vissuto. Poiché per la Rosselli scrivere poesie era vitale, il suo investimento nel discorso poetico delle tradizioni che la nutrivano era enorme ed essenziale. Il lettore della Rosselli non può emergere dai suoi testi senza un senso profondo della necessità non solo della poesia, ma della vitalità sorprendente e metamorfica che un canone può assumere e dimostrare nelle mani amorose di un grande poeta o di una grande poetessa.
Questo modo libero e vivificante di crearsi e interrogare un canone aperto, plurilingue e transnazionale sta già, a sua volta, aprendo nuovi spazi per la poesia altrui: sulla scia della Rosselli si sta formando infatti un canone poetico diverso, una tradizione contemporanea di scrittura che comprende poetesse pur tra loro molto diverse come Antonella Anedda, Jolanda Insana e Elisa Biagini, per fare solo tre nomi.
Dare ad Amelia Rosselli lo spazio che la sua poesia merita nel canone vuol dire quindi ripensare radicalmente il canone. La comunità letteraria e poetica a cui Rosselli appartiene, il contesto in cui la sua scrittura assume pienamente un senso e diviene comprensibile non può essere solo quella del novecento ‘italiano’ o della neoavanguardia, o della poesia femminile, ma è anche (come è stato da alcuni riconosciuto) quello più vasto ed alto della scrittura di poeti come Celan, Bachmann, Char, Pasternak, Akmatova, Plath. Il canone da proporre agli studenti non può più essere ristretto da criteri nazionali, e neanche linguistici o di genere: esso infatti deve aprirsi a quel dialogo e a quelle osmosi di cui la poesia contemporanea vive, anche attra verso la traduzione.
Ma non solo. Rosselli non appartiene solo alla grande tradizione “alta” cosmopolita ed intellettuale europea e del modernismo angloamericano, con cui pure la sua voce si èeroicamente misurata. Rosselli si è sempre riconosciuta soprattutto nella categoria non degli apolidi per scelta, ma dei rifugiati, e degli emigrati o sradicati per forza: quella categoria di individui senza patria e senza appartenenza prodotti ripetutamente e ormai senza interruzione dai cataclismi che hanno caratterizzato la contemporaneità, a partire dalla prima guerra mondiale e dal fascismo.[16] Il senso di autonomia e di indipendenza individuale, di essere liberi dalle costrizioni delle singole culture nazionali, che caratterizza l’élite intellettuale internazionale e cosmopolita, le è sostanzialmente alieno, mentre fa suo proprio il senso di alienazione e di dolorosa mancanza di appartenenza di chi non potrà mai più sentirsi a casa. Una delle sue prime prose poetiche, del 1955, scritta in francese, si intitola significativamente Le Chinois à Rome, dove il cinese non è la cifra di un’appropriazione orientalista dell’altro (come poteva essere stata quella della Cina di Pound), ma di un essere e sentirsi lei stessa fondamentalmente ‘altra,’ straniera e sradicata.
L’ardua esperienza interlinguistica di Amelia Rosselli, il suo modo di plasmare la lingua italiana ‘da straniera’, e di appropriarsene e cambiarla innestandovi altre lingue e altre tradizioni, appare dunque fondamentale per la ricezione e comprensione di operazioni poetiche e letterarie simili che ormai sempre di più caratterizzano l’emergere di un italiano letterario diverso, quello delle scritture poetiche di migranti, per esempio di poetesse quali Geneviève Makaping (immigrata in Italia dal Camerun), Jarmila Ocka yová (dalla Slovacchia) e Christiana de Caldas Brito (dal Brasile).[17] Anche retrospettivamente, come un faro rivolto al passato, la luce che la poesia della Rosselli sta gettando sul canone poetico italiano sta già contribuendo a farcelo vedere in modo molto diverso, a cambiarne il senso, a portare alla luce il grande archivio delle assenze, ad aprirne i ranghi e mutarne la fisionomia e i criteri di appartenenza in modi radicalmente nuovi.
NOTE 2 Il volume è a cura di di Francesca Caputo (Novara, Interlinea 2007). Per una bibliografia dettagliata dell’opera della Rosselli e degli interventi critici su di lei si rimanda al numero monografico a cura di Emmanuela Tandello e Giorgio Devoto della rivista «Trasparenze», 17-19 (Genova, San Marco Dei Giustiniani 2003).Tra i volumi più recenti su Amelia Rosselli sono da segnalare Silvia De March, Amelia Rosselli tra poesia e storia (Napoli, L’ancora del Mediterraneo 2006), Emmanuela Tandello, Amelia Rosselli. La fanciulla e l’infinito (Roma, Donzelli 2007), Alessandro Baldacci, Amelia Rosselli (Roma, Laterza 2007), Tatiana Bisanti, L’opera plurilingue di Amelia Rosselli. Un “distorto, inesperto, espertissimo linguaggio” (Pisa, Edizioni ETS 2007), e La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli, a cura di Andrea Cortellessa (Firenze, Le Lettere 2007). Quest’ultimo volume contiene oltre a molteplici interventi critici anche vari inediti della Rosselli e suoi disegni e acquarelli mai precedentemente pubblicati, ed è corredato da un CD con la lettura integrale di Rosaria Lo Russo del poemetto La libellula e da un DVD con il documentario Amelia Rosselli . . . e l’assillo è rima di Rosaria Lo Russo e Stella Savino.
3 Poeti italiani del Novecento a cura di Pier Vincenzo Mengaldo (Milano, Mondadori 1978), pp. 993-94.
4 Vedere a questo proposito, trai vari interventi in materia, l’introduzione di Romano Luperini al numero speciale dedicato alla questione del canone dalla rivista «Allegoria» (1998), 29-39, pp. 5-7.
5 Ernestina Pellegrini, “Amelia Rosselli” in Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, a cura di Anna Botta, Monica Farnetti e Giogio Rimondi (Mantova, Tre Lune Edizioni 2003), pp. 137-152.
6 Si veda l’utile volume intitolato Un canone per il terzo millennio.Testi e problemi per lo studio del Novecento tra teoria della letteratura, antropologia e storia, a cura di Ugo M. Olivieri (Milano, Bruno Mondadori 2001), che cerca di fare il punto della si tuazione emersa da vari convegni sul canone tenuti fra il 1992 e il 2000, riportando interventi di Roberto Bigazzi, Bruno Bongiovanni, Pietro Cataldi, Remo Ceserani, Giulio Ferroni, Romano Luperini, Franco Marenco, Giancarlo Mazzacurati, Francesco Orlando, Carlo Ossola, Matteo Palumbo e Mariateresa Sarpi (quest’ultima, insegnante di Italiano e Latino nei licei, è l’unica donna, e l’unica a non essere una docente universitaria). Un tentativo di sintetizzare e dare un senso anche storico al dibattito sul canone si trova in Giovanni Ronchini, Le questioni del canone e del realismo (Reggio Emilia, Diabasis 2007). Purtroppo però si tratta di uno studio scarsamente equilibrato che dà un quadro confuso, approssimato e datato del dibattito sul canone fuori d’Italia, tentando di esorcizzare come ‘scorie’ le infiltrazioni di tale dibattito nel contesto italiano, e di resuscitare nostalgicamente nozioni ormai improponibili quali il valore estetico stabile ‘oggettivo’e indiscutibile dei testi letterari, e l’idea che il canone letterario sia l’elaborazione delle convenzioni adottate e unanimemente riconosciute da “una comunità intera” (p. 61).
7 Roberto Bigazzi, Sulle complicità tra canone e critica, in Un canone per il terzo millennio, p. 133. Da vedere anche nello stesso volume gli stimolanti interventi di Romano Luperini e di Remo Ceserani.
8 Franco Moretti, Il giudizio di disvalore; ovvero la storia letteraria come mattatoio della letteratura, in Il giudizio di valore e il canone letterario, a cura di Loretta Innocenti (Roma, Bulzoni 2000), pp. 73-88.
9 Tra i molti contributi si possono citare per esempio Marina Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana (Torino, Einaudi 1998), che mira ad iniziare a sollecitare attenzione critica e filologica nei confronti di quello che viene da lei definito «il grande archivio delle assenze» e inoltre, A History of Women’s Writing in Italy, a cura di Letizia Panizza e Sharon Wood (Cambridge, Cambridge University Press 2000) e la colana di testi The Other Voices in Early Modern Europe della University of Chicago Press, a cura di Margaret L. King e Albert Rabil Jr. Sulla scia di queste iniziative anche in Italia ne continuano a fiorire di altre e di nuove. Vedere per esempio il volume a quattro mani di Adriana Chemello e Luisa Ricaldone, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento (Padova, Il Poligrafo 2000).
10 Per il concetto di comunità immaginaria rimando al classico studio di Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (London, Verso 1983; revised edition 2006).
11 Vedere per esempio i due volumi diretti da Ezio Raimondi per la serie La letteratura italiana intitolati Il Novecento: 1. Da Pascoli a Montale e 2. Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di Gabriella Fenocchio (Milano, Bruno Mondadori 2004). Il secondo volume in particolare si fregia sulla copertina di una splendida immagine che ritrae Elsa Morante accanto a Pasolini negli anni ’60, ma il lettore che vi si addentri troverà su di lei solo poche righe, mentre nel pur ricco e articolato indice in apertura dei due volumi non compare il nome di neanche una scrittrice, mentre compaiono, per esempio, Bruno Barilli e Antonio Baldini. Chi scorra questo indice quindi ha l’impressione che di scrittrici nel novecento italiano non ce ne sia stata neanche una all’altezza di Barilli e Baldini, per non parlare di Moravia e Cassola.
12 Sull’attenzione capillare di Croce per le scrittrici prima in La critica e poi nei volumi di La letteratura della nuova Italia, vedere Zancan, cit., pp. 87-90 e 97-99.
13 Penso soprattutto, ma non solo, a Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio (Milano, Feltrinelli 1965).
14 Il volume raccoglie interventi sia di ricercatrici che di docenti universitarie: Laura Fortini, Monica Farnetti, Luisa Ricaldone, Adriana Chemello, Clotilde Barbarulli, Luciana Brandi, Alessandra Riccio, Rita Calabrese.
15 Vedere a questo proposito l’intervento di Tatiana Crivelli intitolato L’eccezione che non fa la regola. Riflessioni sul rapporto fra scrittura femminile e canone, in Dentro/Fuori Sotto/Sopra. Critica femminista e canone letterario negli studi di italianistica (atti del con vegno tenuto all’Università di Cambridge nel settembre 2005), a cura di Alessia Ronchetti e Maria Teresa Sapegno (Ravenna, Longo 2007), pp. 39-52. Tutti i partecipanti a questo convegno erano donne, studiose e docenti universitarie di vari paesi oltre l’Italia, tra cui la Svizzera, l’Inghilterra, e gli Stati Uniti.
16 In un'intervista del 1990 con Paola Zacometti, la Rosselli si espresse infatti così: «Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito con Emilio Lussu e Fausto Nitti dal confino di Lipari [. . .] Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi, mio padre fu poi ucciso con suo fratello. [. . .] La definizione di cosmopolita risale a un saggio di Pasolini che accompagnava le prime mie pubblicazioni sul Menabò(1963), ma io rifiuto quest’appellativo: siamo figli della seconda guerra mondiale. Quando sono tornata in Italia mi sono molto legata a Roma. Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo cosmopoliti; eravamo dei rifugiati.» L’intervista fu pubblicata in «Il giornale di Napoli», 12 maggio 1990, p. 3. ed è riprodotta in La furia dei venti contrari, cit., pp. 220-222. Bisogna aggiungere che il senso di esilio e di non appartenenza sono profondi anche dal lato della nonna paterna, la scrittrice sua omonima Amelia Rosselli, ebrea, esiliata e rifugiata ella stessa durante il fascismo e la guerra.
17 Su queste scrittrici si può vedere l’intervento di Sonia Sabelli, Scrittrici eccentriche: Generi e genealogie nella letteratura italiana della migrazione in Dentro/Fuori Sotto/Sopra. Critica femminista e canone letterario negli studi di italianistica, cit., pp. 171-179.
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