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SI PUÒ ANCORA INSEGNARE LA POESIA?
 
di Alberto Bertoni
 
 
 
 
 
1. Un autoritratto
 
Non c’è dubbio: trent’anni dopo che Montale se lo è chiesto all’Accademia di Svezia, il giorno del Nobel, la poesia esiste ancora e ancora la si può insegnare. Personalmente, negli ultimi due anni, l’ho verificato e sostenuto attraverso qualche differente modalità di approccio e– insieme– di riflessione e di pratica: ho prodotto infatti tre libri, usciti a distanza ravvicinata, che hanno cercato di rappresentare la situazione della poesia oggi in Italia, volta a volta attraverso la maschera dell’antologista (Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), Bookeditore, febbraio 2005); dell’autore in prima persona (Ho visto perdere Varenne, Manni, marzo 2006); e del critico professionale, se si vuole “accademico” (La poesia. Come si legge e come si scrive, il Mulino, settembre 2006).
Tre libri per tre editori di importanza e di diffusione differenti, com’è facile constatare: ma soprattutto tre libri che hanno cercato di osservare e di vivere in prima persona l’universo o l’oggetto Poesia da punti di vista solo in parte omogenei, non fosse per l’energia e per l’impegno ugualmente profusi. Lascio qui da parte il libro creativo e cerco invece di offrire qualche frammento di esperienza diretta a proposito degli altri due, unificati– devo premetterlo subito– dal denominatore comune del ruolo cui tengo di più, l’unico che faccio riportare anche nelle biografie di una sola riga: l’insegnante. E questo perché quello dell’insegnante è l’unico lavoro che ho svolto con pressoché ininterrotta continuità nella mia vita, che ho sperimentato ai livelli più diversi (scuole medie inferiori a tempo pieno, serali in una Bassa modenese di pura nebbia, istituti tecnici, infine– dai trentotto anni in poi–l’Università), che appartiene anche per ragioni private (mia madre, le donne più importanti…) al mio dna e che– molto banalmente mi ha dato e mi dà da vivere.
 In breve: l’antologia è inclusiva, perché annette nella sua disposizione annalistica 230 libri di altrettanti autori e autrici, si apre al ‘fenomeno’– limitandolo di fatto alla sua acme creativa degli anni Settanta– della canzone d’autore e ai ‘dintorni’ del poème en prose, dichiara di preferire la realtà del libro (quasi sempre introvabile già pochissimo tempo dopo essere stato pubblicato) a quella di una pretesa identità/carriera di persona o personalità autoriale.
Il volume critico, invece, si dispone per parte sua a tracciare i fondamentali della tecnica poetica, dalla metrica alla retorica, dal verso libero alla metafora: ma il suo asse riflessivo procede dall’istintività dell’atto di scrivere poesia alla necessità– da acquisire, modulare, conquistare nel tempo– di leggere poesia, un atto di creatività potenziata perché non monologante ma dialogante. E in questo non c’è nessun buonismo perché dialogare oggidì è difficile davvero…
Devo poi aggiungere che non sono mai riuscito a pensare, concepire, praticare la poesia al di fuori della sua natura e della sua destinazione sociali, non ideologiche, ma proprio sociali in senso ampio, e dunque civili e talvolta (perché no?) politiche. Non credo, infatti, che la poesia possa prescindere dalla polifonia profonda della sua natura– e complessione e fisionomia– linguistico-retorica (non tanto parliamo la lingua, quanto piuttosto ne siamo parlati), né tantomeno dalla spontanea destinazione comunicativa del linguaggio umano, intessuto di una parola condannata a svanire subito, se non raggiunge l’Altro. Aborrisco perciò, fin da quando ho cominciato ad appassionarmene, un’idea chiusa di poesia: l’idea di un’operazione segreta, misticheggiante, limitata alla setta degli ‘eletti’, autoreferenziale, tout court sacra– in quanto predisposizione all’atto prima che prodotto realizzato.
Paradossalmente, proprio perché impegna e manifesta il meglio della lingua e dell’esperienza umana, ho semprepensato che la vera poesia sia per tutti, che da tutti possa venire praticata (come in effetti, per fortuna e non di rado continua ad accadere) e che tocchi semmai ai singoli individui di rifiutare questa possibilità altissima di uso incandescente del linguaggio, bypassando per pigrizia e distrazione quella sua forza immaginativa, catartica e sim bolica, condotta fino ai limiti del transfert, della liturgia, dell’incarnazione e dell’immedesimazione creativa.
Non è difficile, in fondo, farne a meno. Un po’le difficoltà oggettive (un tempo l’analfabetismo endemico e le prevalenti necessità di sopravvivenza materiale, oggi l’analfabetismo di ritorno indotto dagli abusi mediatico televisivi), un po’il rifiuto della complessità e i limiti personali di orecchio, di concentrazione e di curiosità, oltre che la situazione perigliosa nella quale versano il libro e la lettura, inducono la maggior parte degli individui-massa che compongono l’attuale società occidentale– e quella italiana in particolare– a rinunciare alla poesia. S’intende la vera poesia, perché di un’edulcorata funzione poetica nessuno può fare a meno: e così, al testo che sa innestare la musica nelle parole, che non rimuove i grandi autori del passato e che dialoga da vicino col silenzio, vengono si stematicamente sostituendosi le ecolalie di stili arcaici, inutilmente estetizzanti o preziosi; e melodie verbali assai blande e diluite, dagli slogan pubblicitari ai jingles di moda, alle canzoni.
Ecco, però: la funzione primaria del bravo insegnante di poesia (che sia in primo luogo lui– o lei– Lettore/Let trice autentico: e questo è subito un problema) è proprio quella di partire dal semplice e dal familiare per sottoporre a prove sempre più raffinate l’orecchio profondo, l’acustica interiore dei suoi alunni, senza temere di sporcarsi le mani conqualche trucco da prestigiatore di periferia, come il Woody Allen di Scoop, per raggiungere l’obbiettivo alto di una nuova, si spera più autentica, passione da introdurre nel campionario purtroppo vastissimo dei narcisismi contemporanei, con quelle loro esibizioni di gusto artificioso, destinate a sciogliersi nello spazio di un mattino.

2. La poesia sul campo
 
 Tornando ora alla mia esperienza diretta, devo premettere che– intanto– è accaduto un’altra volta: presentandomi un giorno d’ottobre del 2006 alla mia nuova classe di studenti (volonterosi, attenti, onestamente disposti a un’attività comune e didatticamente approfondita di lettura) della Facoltà di Scienze della Formazione presso l’università di Bolzano/Bressanone e chiedendo loro quali nomi di poeti italiani viventi conoscessero, ho ricevuto in cambio solo qualche sorrisino di circostanza, molti improvvisi schiarimenti di voce, un brivido condiviso d’imbarazzo. Nessuno, naturalmente: nemmeno l’Alda Merini che pure negli anni passati– storpiata magari in Ada Marini– aveva ottenuto qualche segnalazione. E, in effetti, quell’efferato «Maurizio Costanzo Show» che aveva esposto il corpo e la parola della poetessa alla gogna mediatica non si sa più bene dove sia finito, nei pallidi palinsesti delle nostre liturgie televisive.
L’ho messa sullo scherzo, pronunciandoli come fossimo a un’asta, quei nomi– non un Sanguineti, uno Zanzotto, un Giudici, senza dire di un Cucchi, un Viviani, un Magrelli, una Cavalli!, almeno fino a quando una ragazza con lo sguardo sveglio e una radiosa maglietta verde non ha saputo salvare tutti dall’impasse, esponendo una verità addirittura ovvia: nessuno, a scuola (un qualunque istituto superiore di una regione assai avanzata e ricca di biblioteche pubbliche come il Trentino-Alto Adige), aveva mai proposto loro alcun testo poetico contemporaneo, a partire già dalla generazione dei Sereni e dei Caproni, dei Luzi e dei Bertolucci. Avevano ricevuto, in vista della maturità, quella pozione minima di Saba, Ungaretti, Montale e oltre non si erano spinti. Oltretutto, riflettevo intanto io, silenziosamente, se avessi posto il medesimo quesito ai loro insegnanti (o addirittura ai miei colleghi della Facoltà brissinese e– temo– anche a molti di Lettere a Bologna!), il risultato sarebbe stato pressappoco lo stesso.
E questo perché, senza se e senza ma, la poesia contemporanea non fa più parte del bagaglio di competenze (o anche solo di conoscenze superficiali, per sentito dire), non tanto dell’uomo della strada (o– meglio– nei termini sociologici oggi correnti: dell’individuo nevrotico e solo che si sfarina nella società di massa) quanto proprio dell’addetto ai lavori, dell’educatore per mestiere. Fino alla fama e al ruolo di vate di un Carducci (insieme con i corollari di un Pascoli e di un d’Annunzio, troppo spesso fraintesi e restituiti solo dalla critica novecentesca più avanzata al loro ruolo alto di simbolisti di livello europeo), i poeti maggiori– vale a dire, quelli riconosciuti tali dal comune sentire di una élite più o meno illuminata di persone cólte, grossomodo gli alfabetizzati che negli ultimi secoli hanno perseguito il mito cinquecentesco del Cortegiano di Baldessar Castiglione– venivano riconosciuti tali già in vita, studiati a scuola– e le loro prese di posizione di ordine civile discusse pubblicamente, a volta a volta criticate o incensate. A lungo (e totalmente in onestà), Marinetti– proprio in quanto poeta e animatore o producer artistico– aveva creduto di poter precedere lo stesso Mussolini, quando si trattò di cavalcare la tigre del movimento fascista! E forse, col senno di poi, le cose sarebbero andate molto meglio per tutti noi italiani, se è vero che il Marinetti confinato a Salò si prodigò per salvare molti ebrei e antifascisti dalla deportazione, aiutandoli a fuggire in Svizzera.
In fondo, ancora nel ’67, in una qualunque scuola media di Modena, la gucciniana «piccola città bastardo posto», un dodicenne precocemente insonne e solo virtualmente appassionato di poesia poteva già leggere e studiare sulla sua antologia di seconda media inferiore i testi di Ungaretti, Quasimodo e Montale, allora viventi e forse addirittura raggiungibili da un colpo di telefono, perché lo star system non era ancora in voga nemmeno tra i letterati… Il titolo del capitoletto suonava (ma forse il ricordo è impreciso) «Crisi dell’uomo contemporaneo», l’Inter aveva appena perduto a Mantova il primo di una serie di scudetti assurdi, stimoli subliminali al femminile pulsavano in qualche ripostiglio dell’inconscio e fu quasi automatico, per quel dodicenne, vergare su un quadernetto, un giorno di quella stessa estate, il suo riprovevole verso d’inizio: «Volano i gabbiani in un volo senza senso…» Poi, la cosa continuò, ma la memoria– per fortuna– si è rifiutata di ricordare come e il quadernetto– a un certo punto– si è staccato dal suo ripostiglio segreto, per finire in un provvidenziale cassonetto.
 A ogni modo, questa abiura della poesia ‘in vita’entro quel pochissimo di cultura oggi davvero diffusa (a fronte– giova ripeterlo– di più di due milioni di persone che, oggi in Italia, hanno scritto o scrivono in versi, ne esistono sì e no dueotremila disposte ad acquistare un volume poetico di un autore contemporaneo) coinvolge nello specifico i testi in versione scritta, quella peraltro decisiva per capire, confrontare, conoscere, far riecheggiare la parola dell’Altro in un silenzio interiore ricolmo per una volta di attenzione e di partecipazione. Per quanto concerne, in vece, la spettacolarizzazione della poesia, la sua esposizione di nuovo orale, magari in forma di performance (o di surrogato di canzone), entro la realtà plurivoca di un festival, oggi la moda impera– e le platee sono quasi sempre piene: così, almeno un pizzico di notorietà viene dai poeti riconquistato sul campo.
Per questo evidente squilibrio nello stato presente di realtà, esistono d’altra parte alcune responsabilità precise. La prima coinvolge proprio la condizione attuale della scuola (di ogni ordine e grado, per carità), nella quale nulla viene investito per il necessario (e, vivaddio, obbligato!) aggiornamento dei docenti: aggiornamento che un giorno o l’altro sarà riprogrammato verso i libri e non verso le teorie pedagogiche, verso i temi e i transfert simbolici effettivamente agìti da autori in carne e ossa e non verso le sembianze o le spoglie metodologiche di metalinguaggi ormai inariditi.
Ma perché io non incontro quasi nessuno nessuna collega insegnante (e ancor meno dirigenti scolastici) nei miei quotidiani passaggi in libreria? E perché il tempo umano del bighellonare, il girovagare a caso di surrealista memoria, tra scaffali, pagine e versi viene sistematicamente impedito da un orientamento tutto burocratico della scuola e dell’universitá, tra riunioni, registri, crediti, moduli e ‘consigli’? Ma la conoscenza della poesia pretende una curiosità un pochino rabdomantica e inizialmente casuale perché poi si accendano il fuoco della passione e il gusto della scoperta e del cortocircuito inusitato insieme con la voglia di condividerli con i propri scolari, magari subito, il giorno dopo, alla faccia delle gabbie triennali di programmazione…
Un’altra responsabilità, invece, deve essere ricono sciuta dalla parte dell’oggetto stesso, vale a dire del modo di porsi e di lavorare di molti poeti contemporanei. Il passaporto di libertà tecnica, tematica, esperienziale, culturale faticosamente (e giustamente) conseguito a inizio Novecento non concede al poeta il diritto a licenze d’ogni genere, intessute di sperimentalismi gratuiti, di proclami a favore di avanguardie puramente autoreferenziali, di oscurità e di opacità endemiche, di scorciatoie dove il ‘letterario’ prevale sull’‘umano’, di trascuratezze formali, di lingue povere e annichilite, di libri prodotti in serie e tutti uguali, di pronunzie mistiche o creaturali che identificano lo scrivente in un veggente, di arcaismi idealizzanti, di versificazioni zoppe, che andrebbero semmai distese in paginette di ballonzolante (ma quanto più innocua) prosa: sono tutti difetti fin troppo presenti nella produzione media di molti autori che operano oggi in italiano e che pure pretendono di dirsi e di sentirsi dire ‘poeti’.
E in ogni caso, poi, è un dato di fatto per niente trascurabile che– con i loro naturali e inesausti processi di in novazione, di sperimentazione e di ibridazione (la musica dalla melodia alla dodecafonia o al jazz, le arti figurative dalla tela all’installazione...)– i linguaggi delle arti, lungo l’arco di tutto il Novecento, anche al di là dei periodici ritorni all’ordine e delle semplificazioni forzose indotte dalle logiche mercantili, si sono non poco complicati e hanno spesso perduto il contatto comunicativo con il loro circuito ‘naturale’ di ricezione e di fruizione. La forza attrattiva di un’opera prevale ormai sistematicamente sulla qualità della sua compattezza tecnica.
Per quanto riguarda la poesia, esistono comunque alcune eccezioni, che magari coinvolgono non tutti i libri e non tutte le fasi di una carriera produttiva: e tali eccezioni– convalidate da un criterio di gusto anche individuale che il bravo docente deve essersi a mano a mano costruito nel tempo– occorre presentarle tranquillamente a scuola, leggendole e commentandole con lo stesso impegno e con lo stesso apparato interpretativo che si riserva di solito ai classici. La freschezza e l’attualità di un autore o di un’autrice che il giovane può percepire sorprendentemente vicini, quasi a portata di mano, producono infatti le sintonie più inattese e istintive, aprendo strade di emulazione e di rispecchiamento adattissime a consolidare una predilezione, un’attrazione del cuore.

3. Quale spazio per la poesia civile
 
 Proprio qui, intanto, in questo esatto punto del ragionamento, si innestano le questioni della necessità, della liceità e della modalità di una poesia davvero civile. In primo luogo, si deve ricordare e ripetere con molta chiarezza che tutta la buona poesia (quella capace di scavalcare la dimensione fattuale, quasi cronistica, di ogni enunciato e la limitatezza, talvolta l’angustia, della cerchia degli interlocutori diretti di chi parla) è per sua natura civile, perché aiuta le persone, i membri di una comunità e di un’epoca a vivere meglio, a dialogare meglio, a capire meglio il mondo e l’umanità circostanti: anche, e anzi a maggior ragione, quando sa inoltrarsi negli abissi della psiche, nelle contraddizioni esistenziali o negli orrori della storia. E, allo stesso modo, ogni poesia vera nasce da un’esperienza diretta di chi la compone: anzi, dalla capacità di trasformare una propria esperienza diretta in esperienza capace di coinvolgere (e di far reagire o interagire) anche uno sconosciuto nato e vissuto in un tempo e in un luogo magari lontanissimi. È ben vero che siamo tutti umili fanti in predicato di morire nel fango di una trincea del Carso, quando scandiamo la lapidaria affermazione di Ungaretti, che a sua volta riprende– riattualizzandola drammaticamente– l’immagine classicissima (e derivata dall’antica lirica greca) della fragilità dell’esistenza umana, paragonabile alla fragilità di una foglia su un ramo: «Si sta/ come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie».
Questo, tuttavia, è anche il passaggio più difficile: com’è possibile essere estremi, oggi, attraverso un atto di parola, di ritmo e di metro, adagiati come siamo– volenti o nolenti– dentro i consumismi e le perenni autogratificazioni del nostro primo mondo occidentale? Ben altro, ben più ‘facile’ è fingere l’esperienza dell’estremo attraverso un’aneddotica cronistico-esistenziale o l’esibizione massmediatica di una (altrui) tragicità nuda, non rielaborata per via simbolica. E ciò equivale a chiedere: com’è possibile portare la propria lingua interiore a quel grado di incandescenza e– insieme– di semplicità necessaria e diretta (si pensi alla voce poetica di una Emily Dickinson, ‘civile’ come pochissimi altri) che imprime nell’interlocutore il marchio a fuoco della necessità e della reazione (non im porta se di adesione o di rifiuto), dell’entusiasmo e dello choc? È possibile solo se ci si è prima, e a propria volta, incarnati nel ruolo del lettore forte, estremo, disposto a tradurre e ritradurre i molteplici (ma pur sempre limitati) topoi della tradizione occidentale in una visione nuova, traendo dalla propria esperienza di vita il nucleo di un punto di vista che trasformi l’ovvio in inusitato, il familiare in qualcosa di ‘mai visto prima’, il letto e riletto in uno smagliante sigillo di tensione e d’intensità.
Certo, se non c’è lettore, non c’è poeta: e viceversa. Ma, nel momento in cui non può più esistere né venire riconosciuta per via apodittica o imperativa (per il venir meno sempre più assoluto– almeno in Italia– della «società stretta» di leopardiana memoria) una galleria di canoni ideali o condivisi, nell’intrico di voci d’eccezione che la tradizione occidentale ha visto sedimentarsi lungo l’arco plurisecolare della propria tradizione, ogni lettore/poeta si confronterà di volta in volta con una pluralità mobile, storica, di altri autori di riferimento e di confronto, senza gerarchie precostituite, navigando– qualche volta a vista, qualche altra per caso, più di rado seguendo una rotta stabilita– dentro un arcipelago di isole che possono riaffiorare o inabissarsi d’improvviso.
Ed è questa, di fatto, la situazione nella quale– almeno in Europa– si trova oggi a muoversi il poeta, a patto– naturalmente– che sia consapevole della propria funzione anche sociale e che voglia o sappia rivolgersi a molti, coinvolgere molti nelle sue operazioni inventive, essere addirittura– in qualche modo– per tutti, com’è proprio del codice genetico della poesia, orale e tribale, rituale e ad un tempo vocata alla elaborazione del lutto o della perdita del proprio oggetto d’amore. Ciò non significa che tutti possano essere allo stesso modo poeti: o che la poesia nasca per forza da una situazione di indistinta orizzontalità di voci una più flebile dell’altra piuttosto che dalla solitudine spesso disperata di una sensibilità d’eccezione. Ma, allo stesso modo, l’affermare che la poesia è per pochi e– al contempo– chiamarsi dentro la cerchia di quei pochi è un atto– oggi abituale e diffuso come tanti altri– di puro narcisismo o, bene che vada, di vacua autopromozione pubblicitaria.
D’altra parte, in ogni caso, non è mai lecito scambiare il predicato di civile (o di politico) con quello di ideologico (o di fondamentalista), si tratti pure di tabù o di valori in tutto condivisi da una larghissima parte dell’opinione diffusa. È riprova di ciò la triste sorte dei poeti quando sono chiamati ad esprimersi, con reazione pressoché istantanea, a un fatto che suscita un’emozione profondissima nell’ambiente e nella situazione cui partecipano: basta pensare alle poesie in genere bruttissime che sono state scritte (e puntualmente esposte– in via purtroppo eccezionale sulle prime pagine dei quotidiani più diffusi) dai nostri poeti maggiori dopo il ‘fatto’ delle Twin Towers di New York, l’11 settembre del 2001.
I canoni poetici, insomma, sono più di sempre necessari, alle singole coscienze creatrici: a patto che si sia consapevoli dell’epoca di contaminazioni anche estemporanee che stiamo attraversando. Per esempio: ha ancora senso parlare di poesia ‘italiana’ come di qualcosa di specifico e di autonomo rispetto alla poesia europea? E quali elaborazioni critiche sono necessarie, per tracciare il campo della poesia europea? E come dovrà essere tracciato, il rapporto con l’antico? Può esistere un poeta degno di questo nome che ignori anche i nomi di Dante e di Petrarca, di Tasso e di Shakespeare, di Leopardi e di Baudelaire, di Eliot e di Montale? Il problema vero è che, posto che questo poeta non esista già, tuttavia è con ogni probabilità destinato a esistere presto… E l’altra questione determinante sarà a quel punto la virtualità di sopravvivenza e di azione della memoria unica e individuale, ma anche collettiva e sociale, in rapporto al genere poesia.
Infine: a quale comunità di autentici lettori e autentici insegnanti riesce a rivolgersi davvero, in concreto, la parola critica? E attraverso quali strumenti informativi e comunicativi: saggio tradizionale su rivista specializzata, articolo di giornale, blog su web? Si torna al punto di partenza: alla necessità anche etica di imparare a scrivere per leggere piuttosto che a leggere per scrivere…

4. Tre possibili esempi o proposte di canone
 
Vale la pena, però, di cominciare a uscire dalla genericità di queste enunciazioni di principio, per passare a qual che esempio concreto. Chi è riuscito, intanto, nell’arco del secondo Novecento, a produrre autentica poesia civile e in quali forme, secondo quali modalità stilistiche? Il caso di Nelo Risi è da questo punto di vista addirittura eclatante, a maggior ragione adesso che è uscita– per la collana popolare e diffusa degli Oscar Mondadori– la raccolta completa di un suo cinquantennio di poesia, Di certe cose (poesie 1953-2005). Tale titolo è già in sé significativo, perché riprende quello di una raccolta importante del 1970, dal quale si poteva risalire a un pensiero capitale, se esplicitato per intero: Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa. E ciò rimanda a una necessità per così dire assoluta del dire in versi, andando a capo– per ragioni, appunto, primariamente musicali– prima della fine dello spazio di scrittura a disposizione: per esprimere qualcosa che si può e si deve dire solo così.
Nato a Milano nel 1920, laureato in medicina senza aver mai esercitato la professione, sposato a Edith Bruck (una delle più intense ed estreme testimoni dell’esperienza dei Lager nazisti), anche regista cinematografico come il fratello Dino (e autore di almeno due film notevolissimi quali Diario di una schizofrenica e– da Manzoni– La colonna infame), Nelo Risi raccoglie nella silloge mondadoriana dieci suoi libri di poesia, che scandiscono il ritmo di un percorso, di una storia di lunga durata, che reca in sé i crismi della ‘civiltà’, in virtù dell’orientamento dell’io a confrontarsi implacabilmente, talora impietosamente, con i luoghi comuni, le inclinazioni, gli slanci, i traumi, della società nella quale si è trovato e si trova a operare.
Fin dagli anni ’50, Risi era stato accolto da Luciano Anceschi tra gli esponenti primi della «linea lombarda», nella quale il critico faceva confluire alcuni autori della nuova generazione al lavoro nell’immediato dopoguerra, sottolineandone la capacità di uscire dalle secche dell’ermetismo fiorentino (cattolico e cifrato), nel nome di quel moralismo e di quell’Illuminismo declinato in realismo critico che avevano illuminato l’opera di un Parini, un Porta, un Manzoni e che appartenevano anche al fratello maggiore più dotato, di quei nuovi poeti lombardi, Vittorio Sereni.
Nelo Risi, tuttavia, già nella sua prima raccolta importante (Polso teso del 1956), avrebbe trovato una sua strada e una sua voce tutte peculiari e originali, sorrette a volta a volta da un gusto spiccato per l’epigramma e la sentenza fulminante; da una predilezione originaria per la poesia francese (egli è anche un traduttore assiduo e creativo da questa lingua); da una capacità rara di aderire al surrealismo più anarchico e sciolto, assieme filologico e psicoanalitico senza mai divenire dogmatico; e dall’attenzione sempre vigile nello smascherare i meccanismi di falsificazione cui il linguaggio contemporaneo è sottoposto dagli imperativi striscianti e subliminali dei media e della pubblicità. Risi è sempre stato persuaso, infatti, che lo scrivere poesia sia in sé un atto politico.
Di fondamento tutto razionale, ma teso sempre a un’operazione altamente produttiva di straniamento programmatico, il suo lavoro poetico ha saputo scandire nei toni ora taglienti ora interrogativi ora pianamente assertivi di un’argomentazione sempre orientata in primo luogo a dialogare faccia a faccia con il lettore la propria lucidità riflessiva, il gusto radicato del montaggio di scene tratte dall’esperienza quotidiana del vivere e del muoversi umano nello spazio e nel tempo, il sostrato onirico e memoriale, la consapevolezza di un’esperienza storica sempre per così dire in atto. Le poesie che si possono chiamare in causa, in questa prospettiva, sono naturalmente moltissime: ma in tanto valga qui fermarsi a citare per intero lo splendido Commiato che suggella Amica mia nemica del 1976:

Mai visto una nave
avanzare tra i ghiacci
che si chiudono dietro
come in una morsa?
mai stato nel Sahara
quando il vento livella
la pista e disorienta
il viaggio? mai letto
dell’indiano dell’ovest
che non lascia traccia?
non basta la scia cotonata
di un jet presto dissolta
per farci capire che siamo
qua di passaggio? e il poeta?
il poeta come dice il poeta:
Tempo vecchio itinerante
tu vai per la tua strada che è larga– a malapena
io mi apro un sentiero
che alle mie spalle il tempo
inesorabile cancella…
 
 In ogni caso, pochi meglio di Risi stesso hanno saputo sintetizzare la direzione e l’impegno conoscitivo del suo lavoro poetico. Basta riprendere, per esempio, questa battuta che risale ancora ai cruciali anni ’60 e trasmette ancora un’immagine pensante, critica e percettiva insieme, della contemporaneità: «Scrivere in versi vuol dire tralasciare molte delle cose che si sanno per metterne in luce alcune altre che si sanno meno o che si finge di ignorare. Che lo si voglia o no siamo dentro fino al collo nella storia, con la nostra oncia di aspirazione all’eterno». E concludeva, con uno slancio che il nostro incertissimo principio di millennio dovrebbe assumere a slogan di utopia positiva, punto di partenza per una rinnovata funzione civile del poeta: «Sono per una poesia civile fatta da un uomo pubblico in un temporeale, sono per un linguaggio tutto teso che sia di per sé azione; voglio parlare di quello che ci offende, scrivere di quello che ci indigna. Perché, in definitiva, che cos’è la pena di un poeta se non è la pena di molti? E che cosa può fare un poeta se non ammonire?»
E se Nelo Risi ci è poi riuscito davvero a trasformare la sua lingua poetica in azione, la strada rimane aperta, l’utopia di una resistenza ‘in versi’ al vuoto fantasmatico della realtà occidentale di oggi è tutta ancora, giorno dopo giorno, da realizzare. E infatti anche altri autori di un paio di generazioni più giovani di Risi sono stati capaci negli ultimi tempi di produrre poesia civile di buona qualità, pronta a rinsaldare l’estetico all’etico.
Uno è senz’altro il poco più che cinquantenne pesarese Gianni D’Elia, continuatore (in virtù di un costante e coerente esercizio autocritico, sfociato da ultimo in un paio di libri di riflessione ‘corsara’ sul nesso pasoliniano di letteratura-cinema-vita-pensiero-denuncia) di una linea Dante Leopardi-Baudelaire-Pasolini, modulata nella forma del poemetto e del riuso di terzine incatenate e/o di quartine narrative ad ampia dominante endecasillabica. Per riferirsi a testi concreti, occorrerebbe citare tutti e cinque i volumi poetici che D’Elia ha pubblicato tra il 1989 e il 2003 presso la ‘bianca’ di Einaudi, da Segreta a Bassa stagione.
Ciò che più colpisce– a voler tratteggiare un rendiconto davvero rapidissimo– in questa modalità di scrittura è in primo luogo la scioltezza ‘naturale’degli enunciati, in rapporto ai quali la gabbia metrica non è impaccio aggiunto, radice di oscurità, ma invece trampolino, volano e rilancio continuo di un dire insieme lucido e appassionato. In tale contesto dinamico, non esiste più barriera distintiva tra tensione lirica dell’io (in gioco con tutto il suo essere, ben oltre i labili confini di una psicologia individuale, dentro piuttosto la piena responsabilità di una presenza storica nel vivo della società cui tocca storicamente di appartenere) e coralità generazionale, costruzione della percezione individuale e critica minuta, pubblica, quotidiana del giudizio.
D’Elia è senz’altro il più dotato, tra i poeti italiani, a mettere in versi non tanto la vita (come nel Giudici riconosciuto maestro, insieme con Fortini e Roversi, oltre che con Pasolini) quanto il proprio dettato interiore, imprimendo forma dialogica al monologo ininterrotto– tanto senziente quanto giudicante– della sua interiorità sensibile, usando la letterarietà come supporto necessario ad affrontare le contraddizioni e le ferite aperte della realtà presente. Basti, a capire, questo brevissimo lacerto di Bassa stagione:

Mai stata così bassa la stagione
qui, tra quattrini e superstizione…
Si processa l’ideale dell’aldiqua,
confondendo il comunismo con la realtà
che più lo tradì, usurpandone il nome;
si ignora il cuore puro di milioni

di persone, per cui compagno vuole
e volle dire amore, aiuto, unione;
tutta una storia, ecco, in liquidazione[…]
 
 L’altro poeta sul quale si vorrebbero concludere questi appunti frettolosi è il mantovano-bolognese Giancarlo Sissa, nato nel ’61, che– dopo due libri di alta qualità editi da Book a cavallo del transito di secolo, un canzoniere d’amore (Laureola) e un finto prontuario professionale (Il mestiere dell’educatore)– ha pubblicato nel 2004 da Aragno Manuale d’insonnia, un libro poco capito dal torpido e ristretto mondo della ricezione poetica italiana e considerabile invece quasi la quintessenza di una possibilità molto precisa e forte di come si può realizzare oggi un’autentica poesia civile. Aperto da un poemetto di rara intensità, Noi, sismografo della morte in atto di una generazione (auto)sacrificata giovane, esso infatti restituisce negli otto capitoli che seguono i retaggi, gli oggetti, i luoghi dispersi di un’esperienza in atto non ricomponibile per via letteraria, ma rintracciabile per singole figure di resistenza e opposizione strenua, liricamente tesissima, tutta ‘in verticale’, all’inclusività opaca e informe di una società irresponsabile, in fuga da se stessa e incapace d’amore.
Che appunto si concentri a riplasmare le parole del dialogo sentimentale e domestico o a reintegrare le tracce memoriali e autobiografiche di una coralità umile e mai arresa alle sirene stordenti e falsamente globalizzanti del mondo piccolo-borghese, Sissa riesce a concertare mirabilmente sentenziosità epigrammatica e movimento narrativo, epifanie di una metafisica del quotidiano e ingenuità non retoriche ma crudeli di un punto di vista bambino. Così, si può assumere davvero ad esempio finale questa Pineta beach:

Ma di che rotte parli?
un film di pirati? un western di mare?
si stende a prora un pensiero
falso di bambini– e non c’è voce
in questo replay al rallentatore,
a questa riva è poco più che acqua
questo mare– russano i padri
al sole, le madri cercano
di scordare

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Iniziative
22 novembre 2024
Recensibili per marzo 2025

19 settembre 2024
Il saluto del Direttore Francesco Stella

19 settembre 2024
Biblioteca Lettere Firenze: Mostra copertine Semicerchio e letture primi 70 volumi

16 settembre 2024
Guida alla mostra delle copertine, rassegna stampa web, video 25 anni

21 aprile 2024
Addio ad Anna Maria Volpini

9 dicembre 2023
Semicerchio in dibattito a "Più libri più liberi"

15 ottobre 2023
Semicerchio al Salon de la Revue di Parigi

30 settembre 2023
Il saggio sulla Compagnia delle Poete presentato a Viareggio

11 settembre 2023
Recensibili 2023

11 settembre 2023
Presentazione di Semicerchio sulle traduzioni di Zanzotto

26 giugno 2023
Dante cinese e coreano, Dante spagnolo e francese, Dante disegnato

21 giugno 2023
Tandem. Dialoghi poetici a Bibliotecanova

6 maggio 2023
Blog sulla traduzione

9 gennaio 2023
Addio a Charles Simic

9 dicembre 2022
Semicerchio a "Più libri più liberi", Roma

15 ottobre 2022
Hodoeporica al Salon de la Revue di Parigi

13 maggio 2022
Carteggio Ripellino-Holan su Semicerchio. Roma 13 maggio

26 ottobre 2021
Nuovo premio ai traduttori di "Semicerchio"

16 ottobre 2021
Immaginare Dante. Università di Siena, 21 ottobre

11 ottobre 2021
La Divina Commedia nelle lingue orientali

8 ottobre 2021
Dante: riletture e traduzioni in lingua romanza. Firenze, Institut Français

21 settembre 2021
HODOEPORICA al Festival "Voci lontane Voci sorelle"

11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
Le riviste in tempo di pandemia

28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

21 maggio 2021
Jhumpa Lahiri intervistata da Antonella Francini

11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

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Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
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