« indietro ANALOGIA E ANOMALIA
di Carlo Alberto Sitta
Secondo un appiglio interiore che mi riporta a memorie lontane per non dire scolastiche, una riflessione sui canoni poetici promuove in me un disagio sottile che tende a diventare acuto. Il primo impulso è quello di dover affrontare una questione terminologica, che in realtà avverto immediatamente come irrisolvibile. Il secondo è quello di dovermi ancorare a un preciso quadro di riferimento storico, legato alle esperienze fatte all’interno di alcune tendenze del secondo novecento italiano. In entrambe le prospettive, temo, finirei per evadere la questione essenziale dei canoni che, in quanto assenti, vanno a connotare una situazione presente sostanzialmente informale.
Ora, non sempre è saggio resistere ai propri impulsi, anche perché le questioni linguistiche e quelle storiche stanno spesso in una relazione reciproca che merita di essere considerata. Mi pare che certi termini ricorrano con un loro spessore e colore e valenza particolare se considerati entro paradigmi culturali che abitano nel vissuto temporale; e che parole come ‘canone’, o ‘forma’, o ‘modello’, risuonino diversamente se pronunciati in un contesto piuttosto che in un altro. Il colore semantico è un significato che si deposita al di là e al di qua delle definizioni logiche, dipende dall’esperienza e dall’uso.
Nel periodo nascente della Neo-avanguardia, all’inizio degli Anni Sessanta, sono stato indotto a pensare che i canoni fossero indispensabili soprattutto come modelli da distruggere, con ciò continuando una strategica ‘tradizione del nuovo’; anche se, in quel momento, intorno a Luciano Anceschi, si parlava prevalentemente di ‘istituzioni’.
Mi considero ancora legato a una impostazione di tipo dialettico e non ossimorico, in quanto solo nella distanza tra due poli opposti ritengo esista estensione di senso e possibilità di azione e vita. Mi richiamo ai dualismi in opera nei piccoli e grandi sistemi, alla situazione di polarità tra positivo e negativo, tra sogno e conoscenza, senso e ragione, scrittura e morale, ideologia e linguaggio. Ma voglio citare anche la dicotomia tra i cosiddetti ‘generi’ letterari e artistici– e il ‘gesto’– luogo per eccellenza sperimentale in cui avviene la caduta di ogni barriera all’interno dei linguaggi formalizzati. Il ‘gesto’ corrisponde all’idea di una ‘continuità senza categoria’ che Adriano Spatola ha praticato con la sua “poesia totale”. Avendo operato accanto a lui, e accanto a una intera generazione di poeti del comportamento, mi chiedo oggi se anche la ‘poesia totale’ non sia diventata a sua volta un modello, non abbia reso istituzionali le proprie grammatiche. Tralascio qui la questione della poesia che si sviluppa in senso evolutivo, perché rappresenta un aspetto marginale della crisi odierna.
Vent’anni fa avrei forse pensato al significato musicale, armonico e ritmico, della parola ‘canone’. Ma certamente avrei spostato il discorso su un terreno affatto diverso, quello dell’invadenza del privato che in quel momento ha rappresentato, in una situazione di anonimato di massa, il vuoto, il sintomo di una assenza, «ce manque au coeur des hommes» di cui scriveva Pierre Reverdy agli inizi del Novecento. Oggi in una situazione di cose fatte, ma non definitive, un’intera cultura adora ormai l’ossimoro, soprattutto per il grande vantaggio che offre sul piano della retorica, in quanto costruzione sintetica di due opposti che stanno insieme nella stessa locuzione.
Troppo facile ricordare– e questa sarà la memoria adulta e la fine dell’agnizione– il principio che ha regolato, nelle correnti del Novecento, il lavoro dello scrivere e del significare ‘per segni’: parlo dell’ANALOGIA, non in quanto figura retorica, ma come idea guida di poetiche che si proposero di stabilire un collegamento tra forma e contenuti e, come diretta conseguenza, tra scrittura e storia, tra pubblico e privato, tra l’io e l’altro. Ma vediamo di ricordare meglio: quel Surrealismo– massimo esempio novecentesco di pretesa moralità rivoluzionaria della forma; quell’Ermetismo, col suo Correlativo Oggettivo; quella Neoavanguardia– allineata sul principio della ‘responsabilità della forma’; quella Poesia Totale, che aveva corretto ideologicamente Max Bense, che a sua volta aveva corretto Isidore Isou, che aveva corretto Kandinskji….
In pratica, per queste ed altre vie l’analogia, nel Novecento, rappresenta una distanza razionalmente ammessa tra due poli opposti e insieme il loro collegamento, e per questa via ha sancito la superiorità estetica e morale del Barocco entro le forme espressive. Al punto estremo dell’analogia si considera, com’è giusto, la mallarmeana «pagina bianca» che non conserva più traccia di sensualità, per tacere della morale, ma che rafforza la potenza comunicativa della lingua sotto il segno del silenzio. Tuttavia anche questo è il Barocco del Novecento, in linea con i principî su cui si fonda la valenza formale della scrittura e la sua possibilità di decifrazione.
Credo che una poetica così ansiosa di comunicare sia stata tradita solo quando ha fatto della comunicazione stessa un problema. Se c’è stata incertezza interpretativa, ciò è avvenuto per la volontà di confrontare– naturalmente in perdita– la retorica in uso nel testo con quella della comunicazione di massa. Per il resto abbiamo constatato, nella linea analogica della poesia, una notevole estensione dei meccanismi espressivi, che può aver alimentato persino l’idea di una Analitica Ideale delle forme al di fuori dei lirismi predominanti. Ma la perfetta adesione linguistica al ritmo dei significati non è prerogativa solo tecnica, o solo antilirica. In quel Barocco del Novecento, già molto studiato, ci pare sia preminente l’interazione fra analogia e simbolismo. In una diversa prospettiva qualcuno ha potuto pensare che l’Analitica Ideale della poesia potesse essere catalogata con metodi non molto diversi da quelli in uso nel medioevo, allorché le interpretazioni a più livelli letterale, morale, anagogico ecc– erano consentite da una analogia attributiva, o ‘intenzionale’, per usare il linguaggio della logica.
Ma nemmeno le più ampie estensioni poetiche nell’impiego dell’analogia possono rendere conto di scritture che sono anch’esse cronologicamente nel nostro secolo; scritture che formano un universo di natura antitetica tale da doversi includere nel concetto antagonistico di ANOMALIA. Qui si apre un’opposizione irriducibile all’interno delle poesia, di cui brevemente si dovrà indicare uno dei prodromi nello snodo che porta da Valéry fino a Bonnefoy; anche se il vero punto di partenza resta il soggiorno atemporale di Scardanelli nella torre sul Neckar.
In Italia, con un certo ritardo ma con sottigliezza, l’anomalia come canone poetico viene proposta dalla rivista «Niebo», fondata e diretta da Milo De Angelis a metà degli Anni Settanta. Secondo questa non esisteranno più possibilità di raccordo tra termini distanti, né si daranno fenomenologie testuali, né saranno consentite relazioni a nessun livello, linguistico, sociologico o psicologico. L’anomalia consente la conoscenza, ma solo per divina mania e a condizione di non doverla mai tradurre in una scienza; ammette la relazione storica e temporale, pur di negarne i nessi; la stessa analogia è consentita come di stanza, ma senza raccordo di razionalità.
La suggestione anomalista ha conosciuto una stagione breve, ma ha avuto un suo ruolo nell’orientare le scritture e nel proporre un’ermeneutica critica. Di fatto ha contribuito a cancellare diversi modelli di razionalità, dallo storicismo alla fenomenologia, e ha rinviato sistematicamente ad allegorie di secondo grado per cui, premesso che il linguaggio non possa rimandare mai a se stesso e nemmeno al mondo, ma sempre a qualcos’altro, ha concepito la poesia nel postulato di un presente senza tempo, irrelato e scemo, perspicuo ma indimostrabile, ingombrante ma vacuo, ecc.
L’esistenza di una poetica orfica retta sull’anomalia è stata sostenuta in maniera vistosa e teologicamente aggressiva. Il disprezzo per la forma e la convinzione dell’insufficienza della lingua è indispensabile per credere nella divinità del ‘poetico’, e questo a sua volta sussiste nel presupposto della propria indimostrabilità, non per eccesso di analogia– com’era nella Gnosi antica– ma per la sua assenza.
Il genio dell’anomalia ha prodotto nella poesia italiana altri curiosi fenomeni, fra cui il disconoscimento metodico di ogni legame tra questa scrittura e quella precedente in testi poetici nei quali i prestiti e le genealogie restano comunque evidenti. L’assunto critico in questo caso veniva a saldarsi con un finalismo antiquato, o con un residuo ideologico, e perdeva ogni genialità, se non proprio ogni grazia. Anche la Bellezza, nel canone dell’anomalia, è solo la forma di una fuga, un andare fuori dallo spazio-tempo; e l’Etica della scrittura deriva dalla rinuncia agli elementi linguisticamente percettivi dell’espressione, gli elementi, per intenderci, che alimentano la radice e la sorgente della razionalità interpretativa. Ma se la poesia è linguisticamente sensibile in via costitutiva, e la sua comprensione passa necessariamente per quella via, non può essere il prodotto di una disfunzione concettuale che nel frattempo ha ridotto a zero anche la soglia sintattica e logica del linguaggio. Secondo l’anomalia il linguaggio è, infatti, solo il cadavere di una verità che lo trascende, una soglia opaca da oltrepassare senza sostarvi.
Negli ultimi anni mi è capitato di scrivere, a proposito delle intenzionalità presenti nella lingua poetica, di dover «assecondare il sogno spontaneo» della letteratura, intendendo ‘spontaneo’ come ‘intrinseco’ ed accennando regolarmente alle possibilità di tipo espressivo che la scrittura mette sensibilmente in opera. Un problema delicato si porrebbe se, nel sogno spontaneo della letteratura, si dovesse rinvenire conoscenza. Ma se la poesia è in primo luogo un’esperienza, un accadimento, un’arte, allora il suo retroterra, la sua sorgente, tende a costituirsi anch’essa come un universo infinito. I suoi mezzi sono in via definitiva anch’essi infiniti, i suoi effetti abbastanza vasti da includere persino certi eccessi salutari, molte specularità affascinanti e, da ultimo, una buona e talvolta eccellente comunicazione.
L’analogia consente di ammettere, o non impedisce di pensare, anche la forma pura come orizzonte limite nella sua realtà linguistica immanente, e di ritenerla tale in per fetta coincidenza di segno e di significato. Il principio analogico illumina costantemente verità e menzogna della scrittura, e sanziona il proprio disinteresse per ogni idea che si voglia dislocata ed esterna. Mi diverte molto una strofa di Valerio Magrelli che risulta, in controluce, un’allegoria dell’analogia. E’ in una poesia intitolata Rosebund, contenuta in Nature Evenature: «Non pretendo di dire la parola/ che scoccata dal cuore traversi le dodici scuri forate/ fino a forare il cuore del pretendente./ Io traccio il mio bersaglio/ intorno all’oggetto colpito/ io non colgo nel segno ma segno/ ciò che colgo, baro,/ scelgo il mio centro dopo il tiro/ e come con un’arma difettosa/ di cui conosco ormai/ lo scarto, adesso/ miro alla mira».
È significativo che, negli stessi anni, Milo De Angelis affermi invece di «mirare al centro del bersaglio» e di poterlo cogliere. Si noterà che le due posizioni sono entrambe etiche e non linguistiche, anche se l’anomalista, nei suoi momenti migliori, non può sbagliare perché non prende nemmeno la mira– infatti non mira alla forma, mira all’entità separata che è il fulcro dell’assenza permanente di cui la lingua è solo il residuo. In quel momento De Angelis poteva anche parlare di anarchia del linguaggio, ma solo perché non intendeva riflettere in maniera referenziale sulla realtà e sulle cose, e inorridiva di fronte alla possibilità di nominarle.
Così l’analogia è aristotelica fino alla beffa, l’anomalia è stoica al di là della sofferenza. Peccato che, nella odierna poesia italiana, la prima sia diventata una ‘arma difettosa’, se ascoltiamo Magrelli, mentre la seconda tende a muoversi nel risucchio del vuoto che attrae la scrittura oltre se stessa. Ma probabilmente anche questa è una storia conclusa. È noto che la distinzione tra analogia e anomalia si manifestò in campo filologico in età ellenistica, opponendo gli studiosi alessandrini a quelli pergameni. Che il Novecento ‘postmoderno’ ne abbia rivissuto il dilemma non è forse un caso: nel momento di confluenza degli stili la cosa che importa di meno sono i testi, le poesie. Analogia e anomalia vanno in scena nude e, come in ogni decadenza, rappresentano il vuoto di un’epoca. In tanto la storia ha virato definitivamente, ha progressiva mente ridotto il Novecento, lo ha depauperato della sua più preziosa qualità, la scommessa della poesia come opera.
A questo punto, visto che il percorso storico appare bloccato e le risposte tendono ad andare oltre gli schemi, mi si ripropone la questione terminologica che avevo di fatto schivato all’inizio. Un canone poetico vale in quanto fonda regole, istituisce grammatiche, avvalora comportamenti. La rigidità della sua norma si configura nel tempo come un assoluto che si pone al di qua dell’ascolto, e tende a cancellare ogni instabilità e ogni differenza. Divenuto autoreferenziale esclude di poter essere stravolto da avvenimenti esterni, mentre la sua condivisione appare in un luce confortevole, anche se è frutto di fenomeni indotti. Da questo punto di vista le piccole interiorità private di ventano il luogo prediletto della scrittura, si alimentano di sottocodici apparentemente inattaccabili e cedono vistosamente alla tentazione autobiografica, luogo apparentemente facile dove tuttavia si perdono, diventano espressione di un anonimato di massa.
Se è vero ciò che afferma Stefano Giovanardi, con espressione vagamente ammonitrice, che cioè «un canone lirico ha una durata all’incirca secolare», in realtà il conto resta sempre in sospeso, dato che le forme sterili sono destinate ad essere stravolte dagli eventi e dal tempo. Mi pare che il grande assente oggi non sia tanto un canone, dato che tutto può essere regolarizzato nella scrittura entro una norma di semplice gradimento o di accettazione. Assente semmai è il fondamento, l’idea di civiltà, ciò che sta alla base dello scrivere poesia. Ma fondamento è parola a sua volta imprecisa per descrivere lo stato collettivo di una poesia che esce da decenni di sfide mancate sul terreno della propria rifondazione. Meglio navigare in mare aperto, scivolare sull’onda eretica delle libere scelte tematiche e formali che fissare manifesti e canoni a priori. A posteriori potremmo forse scoprire che la parola che stavamo cercando, quella che soprattutto ci mancava, era già trovata, stava in un anticanone senza nome, fuori da ogni omologazione, ma perfettamente inscritto nella poesia dei nostri giorni.
(ottobre 2006)
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