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FOR DE LA BELLA BELLA CAYBA
 
di Paolo Valesio
 
 
 
 

Il pre-testo di questa relazione è una breve poesia del medioevo italiano. Tale pre-testo, però, non è un mero pretesto. Il metalinguaggio critico infatti, per quanto indispensabile, è sempre un poco pallido, un poco ritardato rispetto al linguaggio della letteratura (la critica è inevitabilmente, diciamo così, ecoica); e il genere letterario che più acutamente evoca questo relativo scollamento è la poesia. Ogni discorso sulla poesia deve dunque presto o tardi, se vuole avere un senso, rifluire sulla poesia; tanto vale al lora cominciare subito. Il testo che presento è una breve ballata (tecnicamente, una ‘ballata minore’) che fu originariamente trascritta il 2 luglio 1288, quando il testo venne usato come riempitivo dello spazio in bianco di un documento legale conservato negli archivi della Curia del Podestà a Bologna. Quella che qui di seguito cito, però, è una versione alquanto più tarda (appartiene all’anno 1305) della ballata:
 
For de la bella bella cayba
fuge lo lixignolo.

Plange lo fantino
però che non trova
lu so hoxilino
ne la gaiba nova,
e diçe cum dolo:
«Chi gli avrí l’usolo?»
e dice cum dolo:
«Chi gli avrí l’usolo?»

E in un buscheto
se mise ad andare,
sentí l’oxeleto
sí dolçe cantare:
«Oi bel lixignolo,
torna nel meo broylo;
oi bel lixignolo,
torna nel meo broylo».
 
Il poeta italiano canonico (Premio Nobel 1906) sulla metà del diciannovesimo secolo, Giosue Carducci, presentando in uno dei suoi brillanti saggi filologico-critici una versione leggermente più toscanizzata (e con una struttura metrica differente) di quello che comunque è essenzialmente questo stesso testo del 1305, ne scrive una valutazione che– nella sua delicatezza– può ancora sfidare le elucubrazioni critiche della modernità:
 
«Questa ballatina è una di quelle volate aeree del sentimento così comuni nella poesia popolare, delle quali par che manchi l’occasione o il motivo, o se n’è perduta la ricordanza, ma che certo non erano senza un’allusione almeno allegorica a un qual he avvenimento che dové aver commosso le menti e i cuori ai giorni in cui quella poesia fu cantata.» [1]
 
Ma questo straordinario testo poetico non può essere messo al riparo dall’analisi critica mediante un richiamo generico al sentimento popolare; e il fatto che una protratta analisi sia qui impossibile [2] non potrà esimermi dal giustificare, per quanto brevemente, un attributo forte come quello di ‘straordinario’ che ho appena usato. Questo io farò, tuttavia, soltanto alla fine del mio saggio. Per il momento mi limito a menzionare rapidamente in che senso io consideri For de la bella bella cayba come il pre-testo della mia relazione.
Vedo questo uccellino che scappa dalla gabbia come una immagine appropriata della fluidità della poesia in quanto essa inevitabilmente sfugge alla rigida ingabbia tura del canone. Al tempo stesso, l’autenticità del dolore per quella evasione (e il connesso sentimento che la gabbietta offre pur sempre un bel riparo) mi sembra esprima bene il fatto che le sistemazioni canoniche sono, fino a un certo punto, indispensabili. Questo almeno è il modo in cui io leggo il testo in quanto pre-testo del presente saggiuolo; non sto proponendo dunque questa interpretazione come una allegoria che pienamente renda conto del testo medie vale. Ma (come dicevo) tale pre-testualità non è pretestuosa. Questa interpretazione metaforica dell’uccello sfuggente non è semplicemente una fantasticheria moderna irrilevante al testo originario: in questo come nella maggior parte dei casi simili, la filologia può offrire un’attendibile ricostruzione della forma del testo (una forma ferma, per così dire), ma non può esaurire il significato multiforme e profondo di tale testo. Basti così, per il momento, sulla ballata; e torno alla questione del canone.
 
 Alcuni filosofì osservano che il vero problema, nei dibattiti significativi, non è primariamente una mancanza di accordo su qualche cosa di specifico, ma più fondamentalmente una mancanza di accordo su ciò riguardo a cui le parti in causa si trovano in disaccordo. Così che (aggiungo io) la posizione conciliatoria che si esprime in inglese con la formula ‘agree to disagree’ (esser d’accordo sul fatto che non si è d’accordo) risulta essere, nella maggior parte dei casi, di limitata utilità; perché prima di ‘agree to disagree’ dovremmo metterci d’accordo sulla questione tutt’altro che facile di che cosa sia (ripeto) ciò su cui siamo in disaccordo. D’altro canto, non mi sembra necessariamente vero che i dibattiti intellettualmente significativi debbano sempre essere interpretati come forme di disaccordo: può accadere che ciò che risulta essere veramente in gioco siano diversi modi di essere d’accordo. Non che questo renda le cose più facili: in forza dell’osservazione precedente, dobbiamo concludere che è difficile anche capire in che senso e modo si sia d’accordo...[3]
 Nella dichiarazione di intenti, o dichiarazione programmatica, contenuta nell’invito originale al simposio, sta scritto fra l’altro:
 
 I canoni sono uno degli elementi che costituiscono la storia letteraria in quanto tale.
Abolirli dunque è, prima ancora che impossibile, ingenuo. Presumibilmente fin dalle origini di quella che si può chiamare storia letteraria, e certo fin dai suoi re-inizi moderni, la compilazione di canoni si rivela inseparabile dalla loro contestazione; ma ogni contestazione finisce col confermare l’idea stessa di canone.
Accostandoci– sullo sfondo generale di questa dialettica alla questione specifica del canone poetico nel Novecento italiano, notiamo che la costituzione di tale canone è tuttora gravemente incompleta. Tale incompletezza non nasce solo dalla prudenza accademica del «è troppo presto per decidere» (dopo tutto, siamo già immersi nel XXI secolo), ma anche dal fatto che gli inizi del canone novecentesco sono ancora mascherati, e questo mascheramento ha ragioni non soltanto letterarie.
Non possiamo aspettare che il canone italiano protonovecentesco riconosca pienamente tutti i suoi debiti– anche perché questo implicherebbe la piena accettazione (dunque finalmente il superamento) della storia non-letteraria del Novecento in tutta la sua tragica complessità. Nell’attesa, il critico il poeta lo studioso contemporaneisti debbono compiere continue piccole scelte (che sono poi quelle più significative); debbono prendere una serie di posizioni sulla produzione che si può chiamare ipercontemporanea, anche per sviluppare il dialogo con le esperienze parallele/divergenti fuori d’Italia.
In questa congiuntura nasce il nostro simposio. A dispetto del numero crescente di antologie pubblicate, alcune delle quali hanno addirittura anticipato di decenni la chiusura del secolo, i canoni della poesia contemporanea italiana sono assenti, ma non perché essi non esistano (non si tratta, dunque, di una mancanza o di una perdita). Tali canoni sono assenti, piuttosto, nel senso che non rispondono all’appello, che sono latitanti, che stanno fra le quinte; e non per una qualche malizia o cospirazione, bensì per una obiettiva difficoltà di riconoscersi.
 
 L’analisi che precede vuol anche essere un modo di andar oltre certe parole d’ordine: «The Great Books De bate», «The Canon Debate», o perfino «The Culture Wars»– parole d’ordine che, nonostante le profonde radici classiche di tutta la questione, [4] rispecchiano certe situazioni storiche della letteratura comparata nelle università statu nitensi. Del resto, la situazione poetica tra Italia (Europa) e Stati Uniti è al tempo stesso più simile e più dissimile di quello che a prima vista appaia. Più dissimile, per la natura più complessa della lunga tradizione poetica europea, e inoltre per la profonda eterogeneità della storia sociopolitica degli Stati Uniti rispetto, in particolare, all’Italia. Più simile, perché dopotutto i canoni della poesia contemporanea risultano assenti (nel senso specificato sopra) su scala mondiale. Le cause sono varie, naturalmente, ma si possono distinguere due fenomeni soprattutto che, per così dire, hanno ferito il canone. Il primo è stato la creazione di anti-canoni– e qui il contributo strategico è venuto dalle cosiddette avanguardie storiche, in particolare il Futurismo italiano. Il secondo colpo è stato la ideologizzazione anti canonica, sotto varie etichette (femminismo, postcolonialismo, «studi culturali», ecc.)– e qui si sarebbe tentati di variare un famoso aforisma di Marx, notando che: alla sua prima apparizione nel corso della storia, l’allargamento della base (di lettori, di consumatori di letteratura, ecc.) appare sotto la forma della democrazia, mentre al suo secondo passaggio storico tende a riapparire sotto la guisa della demagogia
È stata già notata da più parti la necessità di distinguere due sensi differenti del concetto di ‘rappresentazione’: il senso estetico-cognitivo, per cui la rappresentazione è il rapporto fra un’immagine e il suo referente (diciamo, rappresentazione nel senso di raffigurazione); e il senso sociale (rappresentazione come rappresentanza di una base nella società, con una connotazione lato sensu elettorale, come se si trattasse di una constituency).[5] Se guardiamo alla democratizzazione/demagogizzazione del canone nella prospettiva di una distinzione che è stata proposta fra tre modi di esplorazione culturale: l’enciclopedico, il genealogico, e quello fondato sulla tradizione,[6] l’idea del canone come qualche cosa di ‘democraticamente’ rappresentativo sembra riflettere l’adozione di un punto di vista prevalentemente enciclopedico. In che misura possiamo essere soddisfatti di questo enciclopedismo?
 Forse i canoni della poesia contemporanea sono destinati a restare assenti– nel senso di: mascherati, latitanti, riparati fra le quinte, fantasmatici, visibili soltanto in filigrana e sullo sfondo. Ed è appena necessario avvertire che questa caratterizzazione è intesa come descrittiva, non valutativa. Questo fenomeno in effetti non appare negativo– anche se la mia valutazione parzialmente positiva di tale situazione di ‘assenza’ non dipende dall’idea che la poesia e la sua critica siano divenute più democratiche. (La categoria della democrazia è essenzialmente irrilevante per la poesia, la quale non è né democratica né elitaria; e nella critica letteraria la nozione di democrazia si rivela altrettanto elusiva e confusa– democrazia/demagogia, ecc.– di quello che essa è sul terreno politico.) Il fenomeno in questione, piuttosto, è non-negativo nel senso che la poesia e la sua critica hanno da tempo perso la loro neoclassica sicurezza (sicumera), e hanno completamente– stavo per dire: indiscriminatamente– abbracciato la pericolosa ma ineludibile multi-sfaccettatura del mondo.
In vista della obsolescenza della nozione di canone come battaglia più o meno anti-canonica, resta la sua deli mitata utilità come strumento didattico– anche se soprattutto nel senso di gradus ad Parnassum, come propedeutica che incoraggi a letture più vaste e avventurose: letture post canoniche. Restringere neoclassicamente i canoni e ingaggiare battaglie ideologiche in favore di anti-canoni risultano dunque due mosse ugualmente anacronistiche. A me pare che il tratto essenziale della letteratura– e specialmente della sua cuspide e culmine, la poesia– sia la generosità con cui essa (come si diceva) abbraccia il mondo. Ciò significa fra l’altro che l’unico modo plausibile di usare il canone è quello di, cautamente, ampliarlo. Tutto si gioca su questo avverbio, ‘cautamente’: che in astratto può apparire troppo generico, ma nel concreto non lo è– poiché la cautela (il tatto etico/estetico) è lo strumento essenziale con cui opera la critica cosiddetta militante. E non è uno strumento ovvio, poiché esistono alcune versioni estreme di critica militante, come quella informalmente ma eloquentemente proposta da Sandro GrosPietro, direttore della rivista di poesia «Vernice»:
 
 [I]o lavoro sul versante della “letteratura invisibile”, quella che tutti decidono che non esiste come parola consapevole di sé. Certamente io sto in un mondo fatto di intoccabili e di paria letterari, con cui pochi e anzi nessuno vuole avere a che fare, convinti come è giusto che sia che si spenda bene la vita solo se si legge Cervantes, Alighieri, Shakespeare, Racine, Goethe, Dostoevskij, Kavafis, perché è vero che si ha contezza delle grandi visioni solo visitando l’opera dei grandi visionari. Ma la mia di mensione di lavoro è quella del pensiero “umile e invisibile”, è la logica di un cielo costretto e di un’esistenza catacombale. [...] Uso la letteratura come amicizia e comunicazione, non come orizzonte di eventi possibili e impossibili [...] sono consapevole di promuovere una dimensione minuscola e corsiva, sia pure onesta. [7]
 
Questi sono pensieri significativi, che evocano tutto un panorama di fenomenologia etica. Qui mi limito ad accennarne un solo aspetto, che ha a che fare con quello che io oso chiamare il paradosso della caritas. Questo «cielo costretto» ed «esistenza catacombale», questa «dimensione minuscola e corsiva» evocano irresistibilmente un’atmosfera di umiltà; e invece occorre resistere, a tale tentazione continuistica. (La retorica dell’etica dev’essere più complessa, più sfumata, più diffidente.) A prima vista, in effetti, si è tentati di opporre due immagini stilizzate, per non dire due cliché: da un lato gli umili poeti della domenica, dall’altro gli orgogliosi poeti laureati. Ma chiunque si occupi di critica militante o per meglio dire ipercontemporanea, dirigendo per esempio una rivista di poesia, sa bene che la situazione effettiva è assai più complicata, per non dire contorta. L’arroganza assai diffusa fra i poeti affermati è peraltro quasi sempre accompagnata da una tormentata auto-analisi, da un salvìfico senso del dubbio. (È difficile, anche se ahimè non impossibile, che esista una seria esperienza di scrittura poetica che non nasca da una qualche forma di scavo della coscienza [conscience], o almeno della consapevolezza [consciousness].) Il mondo invece dei poeti “dilettanti” è molto spesso più cupo di quello che questo termine, con la sua connotazione allegra, suggerisce: tante sono in esso le situazioni di risentimento, di narcisismo sfrenatamente indifeso, di complici intrighi nel coltivare le illusioni. (Del resto, le catacombe ospitavano certamente un molto maggior numero di peccatori che di santi e martiri...).
Questa potrebbe apparire una divagazione di psicologia spicciola, ma tale non è. In effetti, si tratta di un problema epistemologico: il problema della selezione, che è inestricabilmente legato al problema del canone. Ogni ‘sì’ per la pubblicazione è possibile soltanto sulla base di una serie di ‘no’; e dovunque si ha una serie di ‘no’e di ‘sì’, di accoglienze e di rifiuti, si ha– non importa quanto informali siano le decisioni, quanto modesta la scala delle pubblicazioni– un problema di canone.[8]
Ciò mi porta alla terza e conclusiva parte di questo saggio: una modesta proposta di ‘canonizzazione’ della ballata minore con la quale avevo cominciato.
 
Scegliere una poesia medievale come unico testo discusso in un saggio dedicato a problemi di poesia contemporanea può forse apparire strano. Ma strano non è, in un ambiente di lavoro come quello da cui muovo (e che non è limitato a IPR: la quale peraltro non è soltanto una rivista, ma un centro di ricerca e una piccola comunità)– un ambiente in cui l’ipercontemporaneo non è soltanto un’area autonoma di ricerca, ma l’anello estremo di consapevolezza della tradizione italiana. Comunque, il criterio decisivo per la non-stranezza di questa scelta non è storcistico, ma ermeneutico. Uno degli elementi fondamentali della critica della modernità e della contemporaneità è la presentificazione– non nel senso di un qualche aggiornamento dell’antico, bensì nel senso di una intensificata con sapevolezza della dimensione ontologica della poesia. (Perché intensificata? Perché si è immersi nella poesia in statu nascendi.)
Questa poesia anonima è, specialmente nella sua ampliata versione primo-trecentesca, un piccolo capolavoro degno di appartenere al canone maggiore della poesia ‘delle origini’(con queste virgolette vorrei sottolineare che il termine ha anche una connotazione ontologica, oltre quella storica). Una poesia anonima è sempre accompagnata da un’aria di unicità; e in verità sembra che non accada solitamente in poesia quello che tanto spesso invece succede nella pittura medievale, cioè che esistono vari pittori il cui stile è riconoscibile di opera in opera anche se essi restano anonimi. Quest’aura di unicità avvicina lo statuto del presente testo a quello di un altro poema singolo o singolare– quel capolavoro (questo sì, unanimemente riconosciuto come tale) della poesia delle origini che è il cosiddetto Cantico di Frate Sole, di quell’auctor unius carminis che è san Francesco di Assisi. Non voglio ovviamente suggerire che l’autore delle due poesie sia la medesima persona ... voglio dire semplicemente che, nonostante le flagranti differenze nella natura e contesto culturale dei due poemi, essi sono tuttavia simili nel fondamentale effetto poetico: il loro linguaggio è insieme forte e sognante.
Questa breve finissima poesia combina disinvoltamente– con la sfrontatezza, direi, che è tipica della vera poesia– il simbolismo fallico con quello spirituale, ripercorrendo in una qualche maniera (rapporto genealogico, non fontale) la traccia dell’archetipale immagine platonica dell’anima come uccello prigioniero. La prima versione (1288) già coglie l’opposizione fondamentale fra la gioia indirettamente evocata (e contrario) dell’usignolo fuggitivo e il doloroso senso di perdita, direttamente descritto, del fanciullino. Ciò viene espresso, fra l’altro, da una repetitio («bella bella») che poi, in quella versione, si modula in anafora («Chi t’abrì l’usollo?» [8] — «Chi t’aprì l’usollo?» [10]). Un’anafora che è particolarmente evocativa e suggestiva– come un lamento su qualche cosa di più che un uccellino fuggito.[9]
La versione più tarda (vedi testo all’inizio del saggio) non solo preserva l’appena descritta struttura, ma la intensifica, ampliando il paesaggio spirituale della poesia, e portandola a un più altro grado di liricità.[10] Con questo non intendo affatto dire che la versione più antica sia priva di valore estetico– tutt’altro: basterebbe a valorizzarla quel delizioso (anche se potenzialmente ipèrmetro) diminutivo: rignisionello. Inoltre, in questa versione il fanciullo parla direttamente all’usignolo, ancorché in absentia: «Chi t’abrì l’usollo?», mentre in quella del 1305 egli si rivolge a un interlocutore generale non meglio specificato; e questa la mentela risulta più drammatica, se rivolta direttamente all’uccellino. D’altra parte (a vantaggio della versione del 1305): fuge è più drammatico che ese; e la funzione del in «né lo ozellino» non è semanticamente né sintatticamente chiara. Ma sopratutto, articolando la poesia in due stanze anziché una sola, la versione del 1305 viene a costruire un discorso più efficace ed esauriente: non tanto per ragioni quantitative, ma piuttosto per ragioni qualitative, come vedremo subito. Questa versione 1305 infatti aggiunge (o restituisce) un’intera stanza, così in certo senso raddoppiando il precedente effetto di raddoppiamento: ora abbiamo due stanze, ciascuna delle quali si conclude con un’anafora; e la seconda anafora coinvolge un intero periodo piuttosto che una frase singola. Con questo arriviamo all’innovazione più importante, che riguarda tutto il paesaggio materiale e spirituale di questa poesia.
Mentre nella versione tardo-duecentesca ci trovavamo di fronte a tre entità– la gabbia, l’uccello e il fanciullo adesso le entità in questione sono divenute cinque: la gabbia, l’uccello, il fanciullo, il boschetto, e il brolo (ovvero orto, o frutteto, o giardino). Ma soprattutto: la poesia, da statica che era, diviene dinamica; perché ora non abbiamo più un bambino ritto o accovacciato di fronte a una gabbia vuota: abbiamo una ricerca, un’esplorazione, insomma una quête ovvero ‘cerca’ (nell’equivalente forte e antico-italiano del termine francese). Quell’ampio verso, «se mise ad andare» evoca un vero e proprio viaggio, un’avventura conoscitiva.
Improvvisamente– e con impulsiva spontaneità (non voglio tradire la citata intuizione carducciana)– gli arche tipi si sono moltiplicati: oltre l’uccello/anima, ora abbiamo il bosco o sylva (luogo magmatico del rischio e dell’esperienza iniziatica) e il brolo (l’hortus conclusus). E non è trascurabile l’effetto di mise en abyme: il ricettacolo della gabbia viene a essere incluso nel più vasto ricetto del brolo (mentre il «buscheto» non partecipa di questo processo di racchiudimento o inclusione: non ostante il diminutivo, esso appare come una zona più selvaggia o almeno selva tica, fuori dai confini della città.) A questo punto il fanciullino non è più semplicemente un fanciullino (e non si può non pensare al ciclo di poesie alcioniche di Gabriele d’Annunzio e al famoso saggio pascoliano): questo fanciullesco personaggio in cerca dell’anima attraverso un bosco (per quanto piccolo) ha acquistato alcuni dei tratti del puer aeternus.
Nell’alta poesia, un’immagine iperdeterminata o (con)fusa non è necessariamente un elemento di debolezza– al contrario. In effetti, qui la potenziale arci-metafora della poesia sembra passare dall’uccello fuggitivo al fanciullo in cammino– con una scorrevole transizione metonimica che ne accentua la forza. Né si può tacere il fatto che l’effetto metonimico fanciullo-uccello è presente anche nell’anafora dell’explicit. Dove, a fil di ‘logica’, colui che pronunzia questo invito/lamento (il ripetuto: «Oi bel lixignolo, / torna nel meo broylo») è il fanciullo; ma questi versi, venendo subito dopo la descrizione dell’uccello che canta, sembrano fantasmaticamente riferirsi al l’usignolo. Certo, una facile (semplicistica?) soluzione editoriale è sempre possibile: collocando un punto fermo anziché i due punti dopo la descrizione del canto dell’uccello, e così distinguendo nettamente le due emissioni vocali (il canto, e la lamentatio verbale). Ma come escludere, nella peculiare ‘alogica’– termine amato da Filippo Tommaso Marinetti– della poesia (colta o popolare), che colui che qui si esprime sia l’uccello? Il quale così verrebbe a riprendere, a echeggiare– forse, a ‘fare il verso’ in modo più o menoelegiaco– al lamento del fanciullo. Questo trasferimento, o trasformazione metonimico/metaforica, è una conferma della forza dolcemente durevole della poesia.
 
 
NOTE
 
1 Giosue Carducci, “Intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV ritrovate nei memoriali dell’archivio notarile di Bologna “[1876]; vedi la sezione “Archeologia poetica” delle Opere, vol. XVIII, Bologna, Zanichelli 1908.
2 Ma vedi alcuni riferimenti critici di base nell’edizione delle Rime dei memoriali bolognesi (1279-1300) a c. di Sandro Orlando, Torino, Einaudi 1981, pp. 87-89, che presenta sia la versione del 1288 sia quella del 1305.
3 Rileggendo in veste di co-curatore gli Atti di questo simposio, mi sembra che tale sia stato effettivamente il nostro problema: un problema, comunque, che si è rivelato assai produttivo.
4 Vedi per esempio Kathy Eden, Great Books in the Undergra duate Curriculum, in «Literary Imagination», 2.2 (2000), pp. 125 133.
5 Ne parlava già John Guillory nel suo libro Cultural Capital del 1990, poi diffuso e antologizzato– vedi per esempio Lee Mor rissey, a c. di, Debating the Canon: A Reader from Addison to Nafisi, New York, Palgrave Macmillan 2005.
6 Vedi Alasdair MacIntyre, Three Rival Versions of Moral En quiry: Encyclopedia, Genealogy, and Tradition, Notre Dame, Indiana, University of Notre Dame Press 1990– un titolo fra l’altro che sembra rendere indiretto omaggio al ben noto libro di Henri Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1933).
7 Cito da un messaggio elettronico del 2 gennaio 2008.
8 Dopo otto anni di direzione della ormai conclusa «Yale Italian Poetry» (YIP), e due del suo avatàr a Columbia University, la «Italian Poetry Review» (IPR) tuttora atttiva, ho finalmente cominciato a riflettere teoricamente su tutta questa fenomenologia; vedi per esempio l’editoriale At the Passage of the Decade / Al passo del decennale in «Italian Poetry Review» (IPR), II (2007), pp. 9-24.
9 Riporto qui, per comodità di confronto, il testo del 1288: «Fora de la bella bella cabia / ese lo rignisionello. // Planze lo fantino / però che non trova / né lo ozellino / en la gaiba nova; / e dise cun dollo: / ‘Chi t’abrí l’usollo?’ / E disse cun dollo: ‘Chi t’aprí l’usollo?’». Non sembri ozioso notare che differenti stili di edizione possono riflettere visioni assai diverse della natura del testo in que stione. L’editore einaudiano citato alla nota 2 sembra seguire un criterio cronologico, trascrivendo la versione 1288 nel testo principale, e la versione 1305 in nota. Io ho fatto la scelta opposta, perché ho adottato una valutazione estetica: ho trascritto nel testo principale (vedi inizio di questo saggio) la versione che mi è parsa esteticamente decisiva (quella del 1305), ponendo nella presente nota la versione del 1288.
 

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