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GIOVANNI RABONI, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano. 1959-2004, a cura di ANDREA CORTELLESSA, Milano, Garzanti, 2005, 415+VII pp., €19,50.
 

Nella Prefazione agli scritti di Giorgio Caproni depositati postumi ne La scatola nera (Garzanti 1996) Giovanni Raboni discorreva di quella «razza particolare e (...) particolarmente pregiata di critici» (7) della cultura letteraria italiana del secondo novecento inverata dai critici-poeti: critici di sostanza e di divinazione, di felicità di giudizio e di senso storico, di rispetto dell’oggetto d’indagine e di capacità argomentativa; critici, in sintesi, passati dal ‘naturale’ al ‘professionale’. Nella Postfazione agli scritti di Giovanni Raboni – di uguale e più cocente destino postumo – riorchestrati ne La poesia che si fa (il titolo è tratto dal curatore da un saggio del 1963 di saldo investimento empirico sulla «poesia che si fa, che si sta facendo e non più, o non soltanto, della poesia che si dovrebbe fare» [387]) Andrea Cortellessa, critico-critico tra i più fecondi e generosi dei giorni nostri, precisa sull’autore il ritratto di un (poeta-)cri tico di poesia «specificamente» guidato da un «orecchio interno: «naturale», certo, ma irriducibile a qualsiasi forma d’impressionismo; e specificamente appartenente, fra i critici, a chi conosca appunto dall’interno le logiche – non spontanee, non «creaturali»; ma tecniche ed empiriche, «materiali» – della creazione artistica». L’orecchio appannaggio di critici «che scrivono anch’essi (nella fattispecie) poesie». (393) Che l’intreccio di pratica poetica e di pratica critica rifletta sugli scritti de La poesia che si fa – varî per cronologia ed assetto, e rimotivati dalla struttura tripartita ‘direzionale’ – le angolazioni di uno sguardo storicamente posizionato è accidente minimo, discreto, del dialogo ad incastro con i libri, con la loro storia e con la storia della loro esegesi. Interprete dal di dentro della cultura del Novecento poetico italiano, Raboni opera scelte di campo precise e reiterate, esorcizzando però ogni «riprovevole assenza di alterità» (86) con la tenuta dialettica e con la tensione interpellativa del discorso critico. Più della quadratura generazionale delle esperienze di Sereni, Caproni, Luzi e Bertolucci; dell’opposizione alla «sperequatissima ‘triade’ Ungaretti-Montale-Quasimodo» e a tutte le triadi canonizzate dall’«immaginazione burocratica dei divulgatori» di «altri testimoni, (...) altri maestri, ricacciati in fondo, chissà dove, a far da comparse» (12-13); dell’antagonismo coinvolto nella neoavanguardia organizzata (228) ad imporsi è la campata dialettica, quasi teorematica, della scrittura critica di Raboni, tesa ad attutire, a circoscrivere, a rendere «più duttili e sfumate» formule interpretative aliene «non tanto, si badi, per limitarne la portata, quanto invece per accrescerne – magari, se occorre, a detrimento della suggestione – l’utilità esegetica»: si vedano le prove a contrariis sull’assenza di contenuti nella poesia di Ungaretti [39 40] o la premessa teorica sull’intraducibilità della poesia per approdare al ‘come volevasi dimostrare’ del paradosso razionale, letterale e non polisemico, della poesia di Pasolini, «che è stato (...) «poeta» innanzitutto e in tutto, nel cinema come nel teatro, nella pubblicistica come nel romanzo – in tutto, sarei tentato di aggiungere, assumendomi la non lieve responsabilità dell’ipotesi, tranne che nella poesia» [301].... (172) Fermo nel giudizio storico ed estetico – la fedeltà al già detto e al già scritto risalta nella successione degli scritti dedicati al medesimo autore– Raboni s’apre al campo congetturale del ‘cosa sarebbe stato’ (esemplarmente: «sipuò dire che senza Ungaretti la poesia italiana sarebbe stata, probabilmente, assai meno italiana – più disposta, cioè, a convogliare e far reagire dall’interno di se stessa fermenti, dubbi e crolli, spinte di sgregatrici e innovatrici che hanno formato, negli stessi anni, le vicende della poesia e della letteratura nel resto d’Europa e del mondo» [42]), suggerendo alternative prospettiche rivolte alla «fluidità di certi passaggi e [al]l’importanza di certi rapporti attraverso o al di là delle dichiarazioni di appartenenza e degli schieramenti “ufficiali”». (206) Così per «l’immagine intermedia della modificazione» opposta alla «ipotetica alternativa secca» continuità e rottura nell’attraversamento della poesia del secondo Novecento (192) o per la «parentesi di metodo» ritagliata sul «grande minore» Solmi, da rileggersi in «eccellente compagnia» di altri, più ascoltati protagonisti di un «filone non ‘novecentesco’» della poesia italiana (Saba, Noventa, Betocchi ma anche Penna e Caproni). Attorno a misurazioni non necessariamente, o non interamente, condivisibili si fissano – tanto nella presa diretta della recensione e dello scritto d’occasione quanto nella distensione del saggio panoramico e storiografico – indicazioni di procedimento piuttosto irrefutabili (anche nella critica, del resto, «la verità tecnica di un processo può testimoniare della verità di senso alla quale il processo medesimo perviene» [164]): dallo scioglimento degli schemi interpretativi canonici all’opzione per arcate intergenerazionali e reversibili («non sempre i poeti più anziani influenzano i più giovani; può anche avvenire il contrario» [66]), dalla distinzione tra ‘fatto letterario’ e ‘fatto poetico’ all’attenzione ai perché dei poeti e della loro (s)fortuna critica. Ognuno continuerà poi, verosimilmente, a riconoscere i suoi simili («sia chiaro che non m’affascina per il nulla il gioco sadico-puerile delle preferenze; ciascuno si tenga cari i poeti che ha più cari» [45]), ma mettendo almeno in conto la compresenza della ‘diversità’, categoria centrale della critica di Raboni e, in ultima analisi, portato logico della ‘premessa’ maior de La poesia che si fa: «L’importante è essere ben convinti che la poesia non è né uno stato d’animo a priori né una condizione di privilegio né una realtà a parte né una realtà migliore. È un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano». (5) E del suo «ultimo, forse superfluo corollario: la poesia, in sé, non esiste – esiste soltanto, di volta in volta, e ogni volta inaudita, ogni volta imprevedibile e irrecusabile, ogni volta identica solo a se stessa, nelle paro le dei poeti» (ibid.).

 Federica Capoferri


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