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GUIDO MAZZONI, Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 256, €20,00.
 
 Il saggio di Guido Mazzoni sulla genesi del concetto di poesia moderna intesa come «tentativo di imitare l’esperienza invece che riassumerla» (p. 91) e sulle modifiche subite dal genere nel corso della storia, grossomodo dal XVI secolo ad oggi, ha molti meriti, tematici, metodo logici e stilistici. Uno di questi meriti è indubbiamente la chiarezza dell’impianto teorico e la scelta di «evitare quella forma di reticenza che di solito circonda gran parte delle costruzioni intellettuali e togliere dal cono d’ombra i fondamenti del mio discorso» (p. 15). Mazzoni cita più volte i passi della Teoria Estetica e delle Note per la Letteratura in cui Adorno sostiene che le forme dell’arte sono dei contenuti sedimentati che raccontano «meglio dei documenti» la storia degli uomini; i materiali estetici infatti ci restituiscono una visione essenziale dell’accadere quasi che la loro natura icastica li predisponesse a diventare «la meridiana di una filosofia della storia». Così facendo Mazzoni dichiara apertamente la sua fiducia nel valore rappresentativo delle esperienze estetiche; una fiducia altamente problematica – come dimostra l’attenzione rivolta alle dinamiche di formazione del canone letterario ed emerge dal confronto con le posizioni del Bourdieu critico dell’hegelisme rammollì e con il Genette negatore dei concetti tradizionali di genere – ma pur sempre sostenuta, sulla scia di Vico, dall’espressione di alcune ‘degnità’ inerenti le possibilità di scrivere una «storia della cultura» in grado di coniugare la teoria della lunga durata del valore estetico alla teoria dei generi e di affrontare in un unico discorso organico i trattati cinquecenteschi sulla poetica di Aristotele e la «poesia rock» di Tondelli.
 Cosa che a Mazzoni riesce benissimo, soprattutto perché avviene in maniera stilisticamente pacata, senza ansie di provocazione ed evitando il tono anarco-apocalittico caro a certa critica post-struttu ralista particolarmente fedele al Nietzsche «genealogista». Se per il genealogista è facile dimostrare che il giudizio del tempo è la stratificazione postuma di un arbitrio, presupporre l’esistenza di uno Zeitgeist o di un Episteme capace di riassumere tutte o la maggior parte delle espressioni estetiche di una data epoca storica non significa negare la realtà fenomenica di questo processo ma riconoscere che la tendenza a pensare per epoche non è «il riflesso di un tacito hegelismo» che riverbera in autori pur tra loro molto diversi ma dipende «dalla natura dell’oggetto considerato» ovvero dal suo essere costituito da «forme simboliche» e, secondo la definizione che Cassirer riprende da Panofski, dal suo essere «un segno sensibile che rimanda ad un contenuto spirituale».
 Forte di un impianto teorico metodologico e stilistico capace di avanzare motivate riserve nei confronti di autori molto noti (Friedrich, Bloom) e correnti critiche oggi molto accreditate (New Historicism) coniugando con lucidità diverse teorie come la ricostruzione topografica della letteratura suggerita di Jauss e le «ere geologiche» della letteratura sognate da Benjamin – questo secondo saggio di Mazzoni (che segue l’altrettanto interessante Forma e Solitudine Milano, Marcos y Marcos, 2002) apre un’importante ed utilissima «via comparatistica alla letteratura italiana» fondata sulla possibilità di proiettare il discorso di una letteratura nazionale su un orizzonte ermeneutico condivisibile nelle sue premesse teoriche e apertamente discutibile sul piano delle acquisizioni critiche («questo libro intende proporre un’interpretazione unitaria della poesia moderna. Il taglio del mio discorso è comparatistico e le tesi di fondo valgono per tutte le letterature occidentali, anche se lo spazio concesso alla letteratura che conosco meglio, quella italiana, risulta inevitabilmente maggiore dello spazio concesso ad altre» (Introduzione, par. 6 Che cos’è la poesia moderna, p. 39).
Mi pare che il saggio ruoti attorno ad un’idea centrale molto ben argomentata secondo cui «la metamorfosi da cui ha origine l’idea moderna di lirica è la stessa che porta alla nascita della poesia moderna»: questa metamorfosi si spiega col primato dell’introspezione sulla mimesi e a partire dall’identificazione di un nuovo genere letterario ben definito che ha il suo modello nel Canzoniere petrarchesco, ma che di fatto nasce due secoli dopo la morte del suo autore, nella «svolta» operata dalla ricezione rinascimentale dell’opera come fondamento di un nuovo «genere» (Segni, Guarini, Minturno, Viperano, To relli, Tasso, Scaligero etc.).
Questo nuovo genere, che prende consapevolezza di sé nel momento in cui la tripartizione degli stili diventa un luogo comune, si basa sull’esistenza di un io biografico «completo» ( «l’uomo completo» auspicato dal De Sanctis alla fine della sua Storia della letteratura italiana) che non imita ma «è parlato» dalla natura. Nell’evidenziare la discontinuità romantica tra poesia e dramma, tra soggettività e oggettività, tra parola privata e pubblica, tra mimesi interna e mimesi esterna Mazzoni lega l’emergere del moderno concetto di poesia al trionfo di una soggettività critica che conforma la storia della poesia alla storia della lirica ora intesa come modello espressivo di quello che l’autore chiama, riprendendo la formula di «autobiografismo trascendentale» formulata da Contini, «autobiografismo empirico».
Parlando di canone, in campo poetico questa narcisistica «storia dell’io» (nel senso descritto da Christopher Lasch) alla lunga è risultata vincente come forma simbolica che meglio di tutte le altre ha rappresentato l’interruzione della catena sociale e simbolica che attraversa come una faglia profonda la conformazione che definiamo modernità e la caratterizza; ma il diritto all’inappartenenza costantemente esercitato dalla poesia moderna (da Baudelaire ai crepuscolari, da Montale a Sereni) che a livello linguistico si realizza nell’allargamento del campo metaforico che «disumanizza» il sistema dall’arte (Ortega y Gasset), a livello di ricezione configura una sorta di «logica di casta» che, privata della scala di valori che regolava l’arbitrio della creatività, trasforma ogni valore letterario in un valore di posizione relativo «l’unica certezza di prestigio essendo il prestigio accumulato dalle scuole, dalle correnti, dalle tendenze». Anche per questa sua costante volontà di «emancipazione dalla reticenza» (per usare la bella definizione che Gianni Celati applicava all’emergere della forma del Novel, ma che oggi potrebbe benissimo valere per il tipo di «narrazione critica» proposta da Mazzoni) è auspicabile che questo testo non resti un caso isolato; anche perché non è così comune trovare in un unico testo significativi e reali apporti allo studio della poesia e della critica leopardiana (si veda la profonda lettura dell’Infinito del cap. II) accanto ad una tanto chiara esposizione diacronica dei rapporti tra lirica e poesia, dalla poetica antica a quella alessandrina, fino alla moderna teoria dei generi.
Così, pur non condividendo del tutto, o meglio riconoscendo ma non auspicando, l’idea di una lirica come «genere egocentrico» (cap. IV, par. 7) le cui «premesse di lettura» non possono essere disattese, ritengo che il saggio di Mazzoni sia un testo importante perché tende alla comprensione del contemporaneo ed alle sue proiezioni dislocate in un orizzonte di lunga durata; infatti anche se non sono del tutto persuaso del fatto che il linguaggio spontaneo incontri facilmente il senso comune (e che chi contesti questo paradigma si muova come un satellite attorno ad una tradizione egemone senza riuscire a strapparle il primato) è difficile pensare un discorso critico più sensato e realistico di quello cui giunge l’autore nelle sue conclusioni sulle modificazioni intrinseche ed estrinseche che rimettono in discussione l’«elemento musale» della poesia con temporanea (Conclusione, par. 3, Poesia e canzoni pp. 221 e sgg).
 
Andrea Amerio
 

 


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