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MICHAEL JAKOB, Paesaggio e letteratura, Firenze, Leo Olschki 2005, pp. 240, € 24,00.
 
 
 
 
Trova finalmente la sua veste italiana il saggio a lungo atteso del comparatista svizzero Michael Jakob, direttore della rivista «Compar(a)ison», dopo l’anticipazione in francese L’émergence du paysage, pubblicata da Infolio di Gollion l’anno precedente. Pochi come lui, che domina qualcosa come 9 lingue parlate, sono in grado di affrontare la sterminata documentazione necessaria a ricerche di comparatistica tematica. Su un tema come questo Jakob, che se ne occupa anche come consulente per l’impatto ambienta le dell’azienda di elettricità elvetica, era stato uno dei primi a manifestare un interesse culturale sistematico. Nel frattempo l’ultimo quindicennio ha scatenato una vera e propria ondata di studi in proposito, di cui la pur ricca bibliografia alla fine del volume tiene conto in maniera selettiva, ma equilibrata fra le produzioni nelle diverse lingue. Il primo segno di questo suo interesse è già del 1996, quando Jakob inaugura una collana sulla letteratura della montagna («di monte in monte» di Tararà, Verbania) con una preziosa edizioncina commentata della lettera petrarchesca sull’ascesa al monte Ventoso (Familiares IV 1), prima attestazione storica – nell’interpretazione di Burckhardt– del «moderno» interesse estetico al paesaggio. In questo volume, che si basa anche sull’esperienza di quella collana, Jakob intraprende invece un percorso storiografico sul rapporto fra letteratura e paesaggio che dall’antichità classica arriva a Goethe, autore con cui Jakob ha profonda familiarità: nel complesso il lavoro propone qualcosa di vagamente paragonabile con l’altro bel libro sull’argomento, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale di Giorgio Bertone (1999), di cui è meno vivace e magmatico ma decisamente più ordinato e sistematico nel procedimento cronologico e nella individuazione e nella connessione dei problemi.
Anche Jakob parte dalla tesi di Helbig, che – nonostante la nascita del termine antico alto tedesco lantscaf come ‘paesaggio’ risalga solo al XVI secolo, parallelamente alla nascita della pittura paesistica– individua nell’ellenismo, e specifica mente nelle Talisie di Teocrito, la prima apparizione di un interesse estetico al paesaggio, dovuto sostanzialmente al riconoscimento della campagna come alterità rispetto all’intellettualità urbana e all’alienazione prodotta dalla perdita della convinzione in una simbiosi col cosmo che forse però è solo un mito della storiografia classicista. Più influente di quanto si sia pensato è a nostro avviso la diffusione – registrata da Jakob fin dal capitolo introduttivo – delle rappresentazioni di nature artificiali e loca amoena di provenienza orientale – dove come si sa la letteratura ebraica e persiana avevano costituito quelle che potremmo considerare di gran lunga le prime esperienze di paesaggio estetico.
 L’idealizzazione è ripresa e potenziata dai Romani, soprattutto da Orazio, in cui si enfatizza il valore di segno dei singoli elementi naturali e il ricorso a uno schema fisso che producono «l’invenzione di un luogo poetico», mentre il rapporto che a noi pare intimo e perfino drammatico di Virgilio con la natura subìta, domata, amata e raccontata viene ricondotto da Jakob alla «rappresentazione di una natura generica, ben ordinata e nutrice» (p. 73) anche nelle Georgiche e nelle Bucoliche. In questa campionatura credo che risultati importanti avrebbe dato un’analisi delle elegie di Tibullo, che sul rapporto col paesaggio fondano una nuova ideologia poetica.
 Il percorso storico, che senza utilizzare Auerbach riserva solo due pagine alla natura biblica sacrificata al rapporto col trascendente, salvo l’eccezione del Cantico, prosegue con un capitolo riccamente erudito sulla tarda antichità, che analizza una lettera di Basilio di Cesarea a Gregorio di Nazianzo (seconda metà del IV secolo) e su passi di Tiberiano, Claudiano e Libanio: l’interpretazione acuta che se ne offre è quella della percezione di una crisi prodotta dal conflitto fra modelli di pensiero e visioni del mondo contrastanti in un periodo di transizione definitiva dal paganesimo al cristianesimo. Lo spazio della letteratura medievale in sintesi di questo tipo è regolarmente compresso, se non obliterato, a causa della mancanza quasi assoluta di traduzioni e di edizioni dell’immenso patrimonio di opere prodotte in Europa fra il 500 e il 1500. L’eccezionale fascino dei paesaggi nordici dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e della storia ecclesiastica di Adamo da Brema, così come i paesaggi magici di Walter Map, e prima ancora i paesaggi lirici di Walafrido Strabone nel suo incantevole Hortulus, e cento altri richiami che si potrebbero fare vengono ridotti al solito schema del paesaggio retorico, che risale a Curtius e ha i suoi fondamenti ma copre solo una parte minimale di un complesso di testi così immenso. La conclusione è ovviamente che «lo spazio della letteratura medioevale [...] non dischiude alcuna vista sul paesaggio» (pp. 88-89).
Diventa più agevole così attribuire alla meravigliosa lettera petrarchesca del Monte Ventoso il ruolo che da Burkhardt– mitografo dell’umanesimo, totalmente all’oscuro delle letterature medievali – le viene riconosciuto, di prima apparizione di un sentimento della natura, e specificamente della montagna, quale sarà quello del turista o alpinista moderno, e comunque di un documento epocale di «scoperta del paesaggio». Qui Jakob, conoscitore profondo della letteratura sul testo, in vita a considerare con scettica prudenza l’entusiasmo neoumanista, e sulle orme di Ruth e Dieter Groh ritiene che «il paesaggio non costituisca affatto il tema della Fam. IV 1». Petrarca naturalmente non aveva mai sostenuto di volersi occupare del paesaggio, e la contraddizione è tutta interna alla critica novecentesca. Quanto si dice abitualmente della struttura allegorica della lettera si ispira a una sovrainterpretazione diciamo così «revisionista» che ritengo assai meno fondata di quanto si pensi (Petrarca propone a mio avviso una sceneggiatura simbolica, non certo un travestimento allegorico, e se accomoda i dettagli cronologici del racconto questo non significa che sul monte non sia mai salito, come qualcuno arriva a sostenere). Jakob la confronta opportunamente con il paesaggio «araldico» del Canzoniere, in dividuando nel complesso della lirica di Petrarca una coscienza poetica del paesaggio come risultato di una metamorfosi dell’io e «sottoprodotto dell’io alienato». Esiti ulteriormente fruttuosi avrebbe dato a mio avviso un sondaggio sulle poesie latine di Petrarca: un genere che, non essendo costretto dai limiti dimensionali che im pongono al sonetto e alla canzone una riduzione automatica del paesaggio a segno, rivela un raporto assai più complesso e profondo del poeta aretino con una vera e propria geografia ideale che abbraccia nazioni e scenari di tutta l’Europa e tipologie assai più varie di soluzione paesistica, in testi di un fascino estremo. Jakob comunque conclude che Petrarca «inventa un vero e proprio modello intellettuale del rapporto con la natura» (p. 105) che tuttavia non inaugura un’epoca, perché alla sua poesia «seguirà di nuovo, per secoli, una visione prevalentemente convenzio nale della natura [...] sommersa da una prospettiva che si limita al generale, all’universale».
 Dopo Petrarca, lo sguardo si sposta brevemente su Enea Silvio Piccolomini, osservatore del paesaggio italico modellato dall’intervento umano, e su Konrad Gessner, la cui Lettera sull’ammirazione del le montagne e la Descrizione dell’ascesa al Fracmon «marcano un periodo significativo nella storia della scoperta delle montagne» come sollecitazione a un nuovo sentimento di meraviglia verso uno spettacolo di cui l’uomo torna a sentirsi parte. Qui il percorso si frastaglia in brevi incisi fra John Dennis (lettera del 1688 sul viaggio attraverso le Alpi), Thomas Burnett (Telluris theoria sacra) e Shaftesbury, per tornare a distendersi su Joseph Addison (Grand Tour del 1699), che conferma il meccanismo dominante nella letteratura di questo genere: la scoperta del panorama letto attraverso la cultura (che Jakob definisce in questo contesto «immaginazione secondaria»). Lo si definisce come uno sviluppo «ancora a venire», la necessità della conversione letteraria di una nuova, sublime realtà, ma in fondo si tratta di una riproposta del metodo medievale di leggere la realtà con gli strumenti della propria formazione, di interpretare le realtà oggi considerate primarie con gli specchi di quelle che oggi definiamo realtà secondarie. Certo è che con questo secolo e a queste latitudini fioriscono subgeneri di tipo arcadico, come il country house poem di Ben Jonson o di Marvell fino al Cooper’s Hill di John Denham, che inaugura la cosiddetta local poetry e la poesia pittorica, del tutto analoga agli sviluppi figurativi dell’epoca, vistosamente influenti sulle Seasons di James Thomson: questa escursione, su terreni per noi meno battuti, trova un punto fermo ne Le Alpi, dove Albrecht von Haller chiuderebbe, nell’interpretazione di Jakob, il cerchio che da Petrarca porta alla prima vera rappresentazione letteraria del sublime alpino per rifondare una nuova contrapposizione fra civiltà e natura selvaggia, alie nazione e purezza sorgiva. Le tracce di questa riconquistata significazione antonimica vengono sagacemente seguite fino agli sbocchi preromantici, ai romanzi di Rousseau e Bernardin de Saint-Pierre e si capovolgono nel Werther, dove la natura, oltre ogni mimetismo, diventa come non è stata mai il luogo della conoscenza di sé, e l’io assume il ruolo di portatore di senso in un paesaggio che si articola ora in tutta una nuova e mobile gamma di articolazioni psicoretoriche. Pur con gli inevitabili silenzi e le dovute oscurità, è qui che plausibilmente conduce il percorso disegnato da Jakob, che in questa transizione a un rapporto più sostanziale e a un dominio più cosciente vede la nascita del paesaggio come oggetto consapevolmente estetico, come se finalmente la percezione letteraria della natura avesse trovato finalmente la propria romantica maturità.
 
Francesco Stella

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