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FERDINAND HARDEKOPF, noi fantasmi e altre poesie, a cura di Franco Buono, Crav – B. A. Graphis, Bari 2005, €13,00.
 
 
 
 
«Ein Bündel Mond erreichte mein Gesicht / Um 3 Uhr nachts, ein Quantum Butterlicht, / Und mahnte (3 Uhr 2):‚Ein Spuk-Gedicht, / Nervös-geziert, ist Literatenpflicht!’» («Un fascio di luna il mio volto ha toccato (alle 3 della notte, un lucente spicchio imburrato, / ammonendo (le 3 e 2): ‘Un nevrotico-sofisticato / poemetto spettrale è il compito del letterato!’»): sono versi tratti da Spleen di Ferdinand Hardekopf, un nome relativamente poco conosciuto in Italia eppure uno dei più interessanti tra i protagonisti dei movimenti d’avanguardia primonovecenteschi in Germania. Curata e tradotta da Franco Buono, già autore dell’accurata monografia Ferdinand Hardekopf. Il fantasma dell’avanguardia (Bari, Dedalo 1996), è adesso accessibile anche al lettore italiano un’antologia delle poesie scritte da Hardekopf nell’arco di tempo tra il 1910 e il 1920. Il componimento che dà il titolo al volume, Wir Gespenster (Noi fantasmi) è esemplare della stagione più corrosiva del percorso poetico di Hardekopf. La «lieve canzone stravagante», come recita il sottotitolo, compariva infatti in apertura della raccolta Lesestücke (Brani di lettura), del 1916, a sua volta introdotta da una programmatica Prefazione che riprendeva le dichiarazioni del coevo Primo Proclama eternista, l’ironico manifesto redatto da Hardekopf insieme all’amico scrittore Carl Einstein. Le poesie e le prose programmatiche di Hardekopf, in stretta connessione tra di loro in ragione dell’intreccio tra esperimento letterario e elaborazione teorica, sono in effetti tra i migliori risultati di quella che si potrebbe definire una ‘avanguardia cimiteriale’: un’operazione estetico-esistenziale scaturita dalla lucida consapevolezza, da parte di questi autori, di un ‘non più e non ancora’, della precisa volontà di tenere un piede nella fossa di una tradizione ormai defunta e l’altro nel l’«oltretomba ultramoderno» (Buono).
 A monte della poetica hardekopfiana, i cui numi tutelari sono Nietzsche e Baudelaire, sta il rifiuto di qualsivoglia storicismo e ‘realismo’ in nome di un istante estatico in cui si arresta, finalmente, il flusso di una mortifera temporalità lineare: «Die Zeit erblaßt, es krankt der Raum. / Es gilbt das Schilf im toten See» («Lo spazio langue, il tempo sbiadisce. / Nel l’acqua morta il canneto gialleggia.»), recita una poesia intitolata Spät (Tardi). Dal filosofo di Gaia Scienza e dal Narr, il poeta-giullare zarathustriano, Hardekopf trae, oltre all’idea di un’affinità spirituale tra spiriti simili, l’impulso a una volontà di forma che nel manifesto eternista trova espressione nella parola d’ordine di Spleen und Disziplin. Se infatti i poeti sono gli aedi dello spleen, gli «scampati» del mondo di Dostoevskij, come si legge in Noi fantasmi, la poesia è, nietzscheanamente, Artistik, virtuosismo artistico con il quale opporre al nichilismo dei valori la nuova trascendenza del piacere creativo e riscattare in tal modo il morto passato e, con questo, il futuro. Pur nascendo da un medesimo humus culturale e con dividendone la tematica di fondo – la nevrotica vita metropolitana – la ‘disciplina’ hardekopfiana è però ben lontana dal ‘grande stile’, dal gesto solenne e dal pathos espressionista coevo, proprio, poniamo, di uno Heym o di uno Stadler. La produzione poetica di Hardekopf si colloca decisamente sul côté ludico-ironico dell’avanguardia, vicino semmai a nomi come Walter Serner o Hugo Ball. Il suo raffinato gioco linguistico con i ricordi di una morta tradizione, peraltro, non intende scardinare la cornice formale, piuttosto svuotarla dall’interno – e a ragione la traduzione opta per il mantenimento di rime e ritmi, compito che Buono svolge con rigore e maestria. I versi hardekopfiani sono un tappeto ottocentesco intrecciato di sogni o meglio di incubi moderni dai colori acidi, traslucidi, pullulanti di figure grottesche e surreali, di visioni-allucinazioni dal mondo notturno della metropoli che rammentano le tele dei pittori della vita moderna. Interessante è però il fatto che a fare da referente visivo al poeta sia ora il modernissimo medium cinematografico, che mentre riflette il nichilismo assoluto della modernità è, al tempo stesso, spazio della pura apparenza, luogo della perfetta illusione ottica che filtra ogni resto di realtà consentendo puri «sogni stereometrici» a due dimensioni. In tal senso l’interesse per il cinema è la cifra di uno scatto in avanti, nel cuore della modernità, da parte dell’esteta decadente, che in uno dei testi più interessanti, Morgen-Arbeit (Lavoro mattutino) detta il nuovo imperativo: «Nur flächig sein hinfort geträumt, / die Leinwand mildem Spuk gesäumt, des Raumes Alp hinweggeräumt!» («D’ora in poi di sognare solo / in piano sia dato, sia lo schermo da un mite / spettro orlato, l’incubo dello spazio eliminato!»).
Il ciclo di pillole poetiche dedicate a una Storia sintetica della letteratura rappresenta all’interno della raccolta un’allegra sequenza epigrammatica che fa i conti con alcuni contemporanei e ritrova compagni di strada; tra questi Gottfried Benn, che Hardekopf inserisce tra «noi fantasmi»: «Dégoût, der fasciniert. O Spuk des Morgenrotes! / Geflecht. Gespinst. Gespenst. Gehirn des letzten / Bootes!» («Dégoût, che affascina. Oh, spettro dell’aurora! / Fatidico. Fanatico. Fantasmatico. Cervello / dell’ultima prora!»). E davvero i cromatismi e il virtuosismo funambolico dei versi di Hardekopf sono vicini al benniano «smalto sul nulla» e ne ricordano - ad esempio nei versi di Regie (Regìa) - alcune scelte stilistiche e lessicali, tra cui l’uso degli anglismi più en vogue o il dettato degli strilloni che vendono i giornali per strada.
Bruciate le speranze e le passioni nella breve giornata della rivoluzione tedesca, molte cose appaiono cambiate. Nei Privatgedichte (Poesie private), del 1921, al noi orgoglioso della spassionata e condivisa alterità dei poeti-fantasmi del futuro viene a sostituirsi un Io ripiegato su di una ma gia affabulatoria ad uso personale. È la di sillusione degli Xenien: «Was wir waren, / Dürfen wir nie erfahren. / Wie freundlich ist die Lehre: / Quiëta non movere.» («Di quel che fummo, / fare esperienza mai dovremmo. / com’è cortese la dottrina del sapere: / Quieta non movere).
 Pacifista e antimilitarista della prima ora, nel 1922 Hardekopf abbandonerà definitivamente il proprio paese, per non farvi più ritorno. Collaboratore da Parigi alle più importanti riviste antifasciste, durante la fuga dalla Francia occupata perderà il manoscritto con la sua ultima fatica, esplicitamente intitolato alla decadenza della lingua tedesca. Restano però, come ricorda Buono nella prefazione, i lavori del «miracoloso traduttore», le versioni da Gide e da Verlaine; ma queste meritano un discorso a sé.
 Monica Lumachi

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