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LUCIANO CECCHINEL, Le voci di Bardiaga, Rovigo, Il Ponte del Sale 2008, pp. 64, € 11,00.
 
Malgrado il soggetto storico, nonostante la ripartizione trina della raccolta, che può far pensare ad un impianto tragico (quasi ‘corale’ delle Voci di Bardiaga), Luciano Cecchinel non sconfessa la propria natura lirica. La congiuntura: negli anni ‘60 furono rinvenuti in una spelonca, il Bus de Boral, resti umani; ossa di trucidati per giustizia sommaria durante la Resistenza. Lo scritto finale, Ad autogiustificazione, enuncia quanto s’intende alla lettura: non un atto di revisionismo; invariato il giudizio sulla lotta di liberazione, che si compie sulla sentenza attinta alle fonti del linguaggio figurato dei Vangeli: «che la luce è luce anche di sangue». Sono i fatti che reclamano la verità: se in queste terre non poche furono le vittime di dubbia reità, la carsica forra per anni nascose spoglie di uomini e donne collusi con la parte sconfitta dalla storia e dal ritorno del diritto; testimonianza le reliquie riapparse dal fondo: un’uniforme fascista e l’aquila germanica. Non mancano domande relative all’infierire su quest’ossame obliato, ma non si slitta nella facile retorica; gli effetti dirompenti di tale opera di scavo, effettuale quanto metaforica, in un paese che fino allora avrebbe risposto ai tipici tratti del locus amoenus, concernono la propria formazione di poeta: sarà preclusa la rievocazione di un Veneto come un’infanzia, nel semplice nitore del canto. La prima e l’ultima sezione sono dedicate al rinvenimento e agli effetti provocati nella piccola comunità alpina dalla scoperta. Capitoli di narrazione si alternano all’osservazione dello scorrere degli intervalli stagionali scanditi dall’opere georgiche. Primario nella sezione d’attacco il sentimento del tempo: le liriche si aprono su avverbi che compitano i momenti del rinvenimento, cui aderisce l’intero paese, ricreando il ritmo della ricerca: «Ora quando da intrisa / boscaglia [...]», «Quando ancora sciamava / la condanna [...]», «Ora più non si impreca». L’orrore che riaggalla dalla grotta, estrinsecato nelle immagini del baratro, nel vento che squassa le ossa inumate (grande è l’attenzione fonica: la fricativa e l’esplosiva a proferire il brivido: «prima che ammutito terrore / vorticasse da cava», «per soffi di voragine», «e sbreccasse in calve cortecce / l’enigma ortogonale»). E l’ecloga a fare da basso antinomico, a marcare fenomeni in antitesi ai topoi di questa tradizione. Se a riferire lo scorrere di un’esistenza campestre si osservano i fumi elevantisi dai tetti («E di lontano / irritano la brace, / divincolano il fumo / sulle lastre sbiancate»), non solo l’alito della natura sembra l’essudazione virgiliana di un mondo vegetale che rivela, sprofondando con le radici in terra, la presenza dei corpi assassinati («Non è tempo di riti / tra le brune angeliche e i fumidi / fiati degli alberi e dei prati», corpi su cui germogliano piante purpuree, alimentate dal sangue), ma pure la caverna, camino rovesciato in cui finirono i giustiziati, forra di morte che ricorda al tedesco la fede che innalzò altri forni crudeli: «Ah! precipitò il mio Dio / con l’aquila d’argento, / avvitato addio / lungo questo camino / capovolto, contorto / e senza fumo». Se nella terza sezione la narrazione torna sul ritrovamento, preme congedarsi su un’immagine che definisce l’essenza di quest’antro: «Sulla montagna di Bardiaga / sotto le crode di Bardiaga / c’è una spelonca di terrore»; sarà per quel toponimo ripetuto, che avrebbe potuto ricondurci in terre di delizie (nell’impressione fonica dell’anagramma: «Giace in Arabia una valletta amena»), che intendiamo il capovolgimento delle sorti: non regna il silenzio dei monti, ma voci di morti che non possono pretendere un giudizio amico, piuttosto dire le loro ultime ore. Questo il motivo della sezione centrale, un recitato di spettri che rievocano l’occasione dell’assassinio, non la vita, come invece tra le rasserenate tombe di Spoon River, quanto riferire delle colpe e l’affissarsi della mente nell’orrore dell’esecuzione. Parlano tutti: la collaborazionista, donna, come comprovato dal reperto dei capelli, l’uomo il cui bel pettine d’osso incorroso, recante un motto («nihil melius»), è sentenza sul destino dell’ucciso, il fascista mai pentito che non mutò camicia, il milite straniero che vide precipitare un Dio complice (Gott mit uns) con lui nel sepolcro. Cantando una morte inattesa, patita per scotto legittimo, non manca in chiusura l’occasione di rievocare, sempre per antifrasi, il Foscolo sepolcrale: «Non trovarono essi / morendo il sole / né hanno / ristoro da perduti sassi»; non ossa lasciate all’acqua e al vento quelle riesumate dalla gola di Bardiaga, ma corpi alla cui testa fu duro cuscino un masso, ben disuguale pietra da quella di Giacobbe (Gen., XXVIII, 11), non più preludio a una mirabile visione, ma a un incubo infinito di dannati.
 
(Francesca Latini)

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11 settembre 2023
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28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

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23 aprile 2021
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