« indietro VITTORIO BIAGINI e ANDREA SIROTTI (a cura di), Nodo sottile 5, Presentazione di Eugenio Giani. Con una nota di Antonella Anedda e di Gian Mario Villalta, Firenze, Le Lettere 2008, pp. 116, € 12,50.
La quinta serie di Nodo sottile, esito del laboratorio residenziale di poesia condotto per quest’edizione da Antonella Anedda e Gian Mario Villalta, raccoglie le voci di dieci autori nati tra il 1976 e il 1987: Cristina Babino, Giulia Chiacchella, Alessandro De Francesco, Pasquale Del Giudice, Gaia Gubbini, Franca Mancinelli, Natalia Mazzilli, Luigi Nacci, Michele Porsia, Aldo Riboni. Poesia più o meno giovane, dunque, com’è nei programmi dell’iniziativa. In ambito letterario, la gioventù è un dato prima sociologico che stilistico (non da ora: all’emblematica dichiarazione scapigliata, «noi siamo i figli dei padri ammalati», non corrispondeva una rivoluzione stilistica ma un affratellamento generazionale), com’è in fondo sociale e politica la domanda che pongono i curatori nella prefazione: «Perché poeti in tempi di privazione?». Perciò, non sono tanto gli effetti di una comune ricerca formale a fondare la coerenza del volume antologico, quanto l’atteggiamento intellettuale e, in alcuni casi, l’esperienza esistenziale dei poeti selezionati. È istruttivo scorrere le risposte al breve questionario sottoposto ai dieci autori; se ne ricava un profilo condiviso che ha come tratti qualificanti: il contatto, per studio o passione, con la cultura extraitaliana, che spinge alcuni a considerarsi «italianofoni» (sic) europei più che italiani; il cimento nella traduzione; la scarsa propensione alla lettura della narrativa; la sprezzatura – davvero ancora un po’ adolescenziale – nei confronti della scuola («triste», «polverosa») e del suo modo di trasmettere i classici. D’altra parte, in tempi di crisi è importante ma troppo facile dire ciò che non si è e ciò che non si vuole, lamentando per l’ennesima volta la perdita del «mandato sociale» dei poeti e la scarsa visibilità dei libri di poesia quando, nella maggior parte dei casi, la scrittura è percepita come farmaco per un disagio individuale. Lo snobismo nei riguardi della tradizione ha eccezioni notevoli: Leopardi e Montale, ad esempio, percepiti però ancora come idoli più che come punti di riferimento di una riflessione poetica e stilistica. È il caso di Aldo Riboni che fabbrica delle perfette imitazioni da Satura e dalle raccolte successive, adoperandone con apocrifa perizia temi e tecniche argomentative: «La storia si ripete in farsa / e il Mito in miniatura»; «Dal silenzio non nasce / nessuna parola. / Non è d’oro / perché è il niente». Un modello più fertile sembra Valerio Magrelli, la cui araldica sensoriale risulta particolarmente congeniale ad Alessandro De Francesco, uno degli autori più consapevoli tra quelli accolti nella silloge. Il motivo sensibile dell’opalescenza, ricorrente nei versi che De Francesco intitola Ridefinizione («vivo in apnea fuori dall’opale», «oscillamento tra brusio arpeggio opale»), torna anche in Gaia Gubbini («conserva reliquie opalescenti, / fondo lattiginoso»), che arricchisce allusivamente la trama lessicale intrecciando ancora la lettura di Magrelli (e altri: Frasca, per esempio) con le suggestioni culte ispirate dagli studi filologici. Di altra natura, fondamentalmente critico-parodica, è l’allusività che si ravvisa in Cristina Babino, che punteggia i suoi versi di formule e sintagmi paradossali di ascendenza letteraria («Faccio un sogno / di maestri e margherite»), gnomica («Il mattino ha un’ascia in bocca»), sociale («l’esercizio mentale / a un precariato stabile / nostalgia di scala mobile / in tempo di mobilità».). Accensioni liriche brucianti caratterizzano i versi di Giulia Chiacchella, che incidono nel corpo le dolorose ferite dell’esperienza («Con occhi all’erta e mani presenti / Cercando tracce di sangue tra le cosce»). La ricerca di un significato nella sintonia tra l’io e la natura e la condivisione del vissuto tra l’io e la figura deuteragonistica sono i due grandi universali che tornano rispettivamente nella poesia di Pasquale Del Giudice («i pioppi fedeli sentinelle / sorvegliano il campo / che sfili, collezione di vinti / il corteo delle stagioni») e di Franca Mancinelli («vorrei con le parole aprirti / questa vita come una mano / che sul tavolo capovolta / aspetta d’essere riempita / stretta nella tua».). Il dialogo, come resa esplicita dell’esperienza, è il tratto stilistico che caratterizza i versi e la prosa poetica di Natalia Mazzilli, che sperimenta immagini e lessico di immediato realismo («da me ho bevuto menta con nonna, ho lavato le mutande e / le ho stese sul terrazzo tra le antenne»). Poeta performativo, Luigi Nacci si sofferma su episodi di guerra e persecuzione mettendo a fuoco figure individuali, cui danno consistenza l’uso del dialetto («De muleto serando i oci vedevo i morti / A quei là no ghe ciava gnente de gnente e nissun») e di altre lingue. Al di là dei singoli risultati, la tensione che sostiene la poesia dei dieci autori è quasi sempre più originale delle rispettive dichiarazioni: il che lascia ben sperare, se è vero che nei poeti autentici gli esiti dell’invenzione sopravanzano quasi sempre la soglia della coscienza teorica. Per questo vale la pena concludere con la domanda intensamente metapoetica che Michele Porsia rivolge dai suoi versi: «non so bene / di questo continuo andare a capo / il senso del tessere una trama / senza cercare il capo del gomitolo, dell’inseguire le movenze rettilinee / di questo animale in via di estinzione. // Qual è la preda?».
(Niccolò Scaffai)
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