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MARIO BENEDETTI, Pitture nere su carta, Milano, Mondadori 2008, pp. 107, € 14,00.
 
È l’occhio, d’acchito presente per esercitare la sua ovvia funzione visiva, cioè un punto di vista, una prospettiva (Santa Lucia viene nominata in apertura del libro), quando invece risulta essere centro emotivo, palpitante, come e in vece del cuore («Vai // iride scolorata, gonfia del mio sangue»), gonfio di lacrime («Depresso invio, / le lacrime alla radice dei nervi»), offuscato dal pianto fino a incepparsi nella «diplopia», utilizzata non in quanto doppia percezione intenzionale, bensì quale sguardo astigmatico raddoppiato involontariamente dall’umore liquido che a fiotti sgorga dalle palpebre e appanna il bulbo oculare («sangue, capelli, orbite / nei loro globi. E gonfi»), a mettere in moto le cose, le immagini, le visioni concentrate nei testi. Tramite queste «aberrazioni ottiche» distorte e sfuocate, oggetti, arredi, luoghi, elementi del paesaggio, corpi o sue parti («Così vera era l’estate. / Marciapiede, inferriata, sentiero, colchici, / noci, arbusti, lucignoli, ombre, // ombre») sono tuttavia passati in rassegna con i propri nomi precisi, esatti, nudi e crudi, in fila uno dopo l’altro anche senza concatenazioni sintattiche («I navigli. Città d’acqua. / Cavalli calessi cani anatre barche. / Donne e uomini, ragazzi, bambini».), separati a volte ognuno di essi dall’ostacolo invalicabile di un punto fermo o dalla deviazione obbligata di una virgola («Guarnizioni, cinture, else di spada, / scettri, armature, elmi, amuleti. // Medaglioni, orecchini, anelli, collane, / calici, acquamanili, piatti, monete. // Protesi, scintillanti».), e dunque non prendono forma, movimento, contestualità, dinamismo narrativo, ma staticamente, come tanti promemoria, post-it appuntati lì quasi a non volere dimenticare qualcosa, rimandano, come sineddochi spente – campionari di un mondo, di un passato non più raggiungibile – a vicende private forse precluse al lettore, affogate nella nostalgia e alle quali nessuno deve e può prendere parte, venendone volutamente e forzatamente escluso, e comunque incomunicabili a un interlocutore ridotto a mera variante pronominale: «I corpi vestiti. Pianura, / boschine. L’industriale terra. // E il parco a nascondimenti. / Il viso, sì. // I muscoli delle spalle. // Io. Uno. Tu. // È presenza. / Ricordo. Dormi, sognante // [...]»; «Particelle. / Elle, egli, ei, elleno, ello, eglino». Allora in questo senso non è un caso che una sezione di un capitolo del libro sia intitolata Reliquari. La stessa miriade di colori che riveste gran parte dei componimenti, tradotta in certe occasioni in neutri e asettici elenchi di cromie nette e sintetiche («E il rosso, il blu, l’arancio, il viola»; «Oro, perle, ametista, // e l’arenaria con motivi vegetali»), contribuisce a operare una cristallizzazione nel ricordo di flash back fluttuanti («In azzurro e oro, a righe, di raso, / l’abito con blu, rosa, and gold flowers»), anche se poi nero e bianco – colori del lutto – chiarore e oscurità finiscono per dominare la scena tra sonno e dormiveglia: «Dalla notte il mattino la notte, / pantaloni verdi, pantaloni blu, / il nero, l’azzurro, il ramato, tutto». «Iòditu alc achì, iòditu alc? / Vedi qualcosa qui, vedi qualcosa? // E son lis vôs dei nestris cuàrps, che tu ju as vulùt ben. / Sono la voci dei nostri corpi, che tu gli hai voluto bene»: si sentono di rado i suoni gutturali, aspri e lenti del dialetto friulano provenienti da un passato lontano, però quando subentrano rimarcano un senso di annichilimento della voce testuale. Le lacrime intanto continuano a cadere come la pioggia, assai rara nel volume, ma che nel suo precipitare sembra volersi sostituire al pianto. Nonostante il titolo Pitture nere su carta stia a richiamare il ciclo goyano omonimo, dipinto dall’artista spagnolo sulle pareti delle stanze di casa, che definire visionario è sicuramente riduttivo, trattandosi di incubi inverosimili e allucinati, di scene orride e raccapriccianti popolate di figure dai tratti mortiferi, grotteschi e caricaturali (riduttivo d’altronde definirle pitture nere: buona parte di esse sfoggia gialli, rossi, azzurri, scomposti e maltrattati, squarciati e deteriorati), il registro dominante di questo libro affiora viceversa da luoghi sfumati di lamentazioni ancestrali, da invocazioni pervase di commozione e dolore, da compianti a una voce sola, residua. «Quanto hai pianto, per qualcosa di tuo. / [...] / Sto così male, amica, // fa così male il chiuso guardarti / salire tra i rami di mandorlo, // bianca»; «Venivi dal pianto, ricordi, strappato // alla voce». Si tenta un innalzamento al sublime, calco del paradiso dantesco, in una piccola sezione di un capitolo, «Supernove». Forse una preghiera alle stelle rimasta sospesa, senza riscontro, senza ritorno, non lascia traccia. Chiarore e bagliore aureo di una «eco di luce che non da sé è vera» riflette estraneità, e una freddezza universale aumenta la distanza di un contatto impossibile. Nel nostro troppo stretto cosmico pianeta, nei fatti costellato ormai di ‘stelle fredde’ anzitempo presagite dal Piovene, ridotti a sostarvici trascinando e ostentando la più arbasiniana ‘vita bassa’, non c’è spazio per scambi reciproci, dialettiche affabili con un ‘altro’ umano e tangibile; si monitora l’esistente, con le cui emergenze materiali (cose, fatti, oggetti, corpi, brani o lacerti) e interiori (pensieri, sentimenti, elucubrazioni, fantasmi) si perpetua un rispecchiamento continuo, unica, provvisoria, spesso sonnambolica, garanzia di esistenza.
 
(Giuseppe Bertoni)

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