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STEPHEN WATTS, Mountain Language/Lingua di Montagna, trad. di CRISTINA VITI, London, Hearing Eye 2008, pp. 46.
 
Mountain Language/Lingua di montagna è un libro molto particolare anche per un poeta così idiosincratico come Stephen Watts. Innanzi tutto si deve dire che la traduzione di Cristina Viti costituisce una parte integrante del lavoro e questo è sottolineato sia dal titolo, che presenta insieme l’italiano e l’inglese, che dalla presentazione dei nomi degli autori, sia dalla disposizione grafica del testo e soprattutto dal senso di tutto il lavoro. L’origine del poema probabilmente non è nel verso, infatti la scansione è piuttosto particolare, più del racconto che della lirica, con un’attenzione alla grafica e all’impaginazione che aggiungono un ulteriore piano di organizzazione formale. Ma è piuttosto difficile dire dove esattamente si potrebbe collocare questo testo; se dovessi pensare a degli antecedenti li troverei, piuttosto che nella poesia, nel racconto Lenz di Buchner, che non so se Watts conosca o meno. Si tratta infatti di un camminare, un andare verso la montagna in un paesaggio che è al tempo stesso fortemente osservato, e quindi esteriore, e ripensato e dunque interiore.
Il camminare è una cifra ciclica in questo poeta, anche in alcune raccolte precedenti, ad esempio Brick Lane, per quanto l’ambientazione sia tutta metropolitana, in un quartiere povero della Londra di oggi, la sensazione forte di paesaggi attraversati resta nella mente.
Qui tuttavia, se meno scandita è la strutturazione del verso, si ha la sensazione di un percorso più impegnativo. C’è la montagna, e la montagna è una cosa molto forte, con un carattere individuale che segna la vita, la lingua, il tempo di una area geografica. Ogni montagna è questa cosa e solo chi ha vissuto tra le montagne sa esattamente cosa significa. C’è quasi un fatto metaforico nei paesaggi, quasi un racconto al cui interno o piuttosto nella cui ombra si svolgono le vicende. Abituandosi a loro e al modo in cui disegnano il paesaggio diventano quasi dei giganti, presenti spiritualmente e con poteri particolari. Basti pensare al ciclo di leggende legati al regno di Fanes.
Questa inquietudine spirituale attraversa anche questo libro e tra i diversi personaggi che appaiono, incontrati in uno spazio che è insieme memoria e reificazione della memoria, che cioè porta in scena e rende vivo e presente quel che si ricorda, il principale è quello della madre, che il poeta intravede nel finale sopra un carro che trasporta del fieno. In questo modo la poesia sembra compiere una delle funzioni principali della letteratura, una funzione quasi archetipica. Quella di farci ritrovare i morti. Sentire la loro voce, la loro presenza e attraverso la nostra parole renderli esistenti. Ma già nel tono in cui descrivo questo nodo essenziale tradisco il lavoro di Watts. Per me infatti questo è un fatto impossibile e la poesia, la letteratura in generale è segnata da un senso di fallimento, perché i morti sono morti e basta. In Watts al contrario c’è quasi una serena fiducia nella presenza dei morti e una realtà della visione che, almeno nella sua opera ci raggiunge limpida, indubitabile. Ci aiuta a congedarci dalla lettura nel modo in cui ci si dovrebbe sempre congedare da un libro, pensando che abbiamo trovato un amico e che non leggerlo non significa e non significherà mai perderlo.
 
(Enrico Palandri)

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