« indietro GEOFFREY HILL, Per chi non è caduto: Poesie scelte 1959-2006, trad. di MARCO FAZZINI, Roma, Luca Sossella editore 2008, pp. 286, €12,00.
La copertina della mia edizione delle New and Collected Poems 1952-1992 di Geoffrey Hill reca una citazione presa da un saggio di Seamus Heaney: «Words in his poetry fall slowly and singly, like molten solder, and accumulate to a dull glowing nub». («Le parole nelle sue poesie cadono lentamente e individualmente una a una, come lega fusa, e si accumulano per formare una sostanza lucente in un nucleo dallo splendore opaco» [tr. P. Vaglioni, Attenzioni, Fazi 1996]). Sembra quasi che il grande poeta irlandese (che è anche un grande critico), con questa frase, abbia voluto riprodurre la qualità del linguaggio di Hill stesso, in particolare con la scelta di quell’ultima parola, il sostantivo inatteso ma azzeccato, «nub». Questa breve parola di origine anglosassone contiene in sé sia il concetto di un grumo che l’idea dell’essenza di un argomento – il nocciolo della questione. La scelta deliberata di parole in cui si accumulano significati multipli (che spesso richiedono una ricerca etimologica da parte del lettore) è tipica di Hill. Altrettanto caratteristica è la sua capacità di usare tali parole in frasi (o versi poetici) che creano immagini di grande potere suggestivo, anche prima che il lettore abbia decodificato il significato nelle sue molteplici accezioni tramite l’uso del dizionario.
Heaney dice che «In Hill c’è qualcosa di Stephen Dedalus e la sua iperconsapevolezza delle parole percepite come sensazioni fisiche, come suoni da scandagliare, come pesi sulla lingua» (tr. Vaglioni, op. cit.). Ogni lettore di Hill sarebbe in grado di fare un elenco di versi o di frasi che dimostrano quanto sia vera questa affermazione di Heaney: «a fable / Unbelievable in fatted marble»; «his lithe, fathoming heart»; «They haul a sodden log, hung with soft shields of fungus»; «silverdark the ridged gleam», «in dawn-light the troughed water floated a damson-bloom of dust…». Come rivelano le ultime due citazioni, il poeta ha in comune con Gerard Manley Hopkins una propensione per le parole composte. Il critico Christopher Ricks ha addirittura dedicato un saggio intero all’uso che fa Hill del trattino, considerando queste combinazioni lessicali come una chiave di lettura della sua poesia. «Tutta la produzione di Hill ha a che fare con […] la riconciliazione,» afferma il critico, sostenendo che nelle sue poesie Hill cerca di immaginare l’unione di polarità apparentemente irriconciliabili come l’amore sacro e l’amore profano, le passioni terrestri e gli aneliti trascendentali. Il trattino indica il desiderio di congiungere le cose ma attesta anche la presenza innegabile di disgiunzioni radicali.
Questa lunga premessa serve per darci un’idea dell’imponenza del compito che si è assunto Marco Fazzini di presentare al lettore italiano un’ampia scelta delle poesie di Hill, con traduzioni a fronte. Pochi poeti risultano così difficili da tradurre, essendo ogni parola nei suoi testi pregna di significati multipli. Hill non è – o, almeno, fino a tempi abbastanza recenti, non è stato – un poeta prolifico; in una famosa intervista con John Haffenden dichiarò che la sua raccolta del 1971, Mercian Hymns, era stato scritta «rapidamente», in quanto aveva impiegato soltanto tre anni; il libro consiste di trenta «prose poems» (o «versetti di prosa ritmica», per usare la definizione che ne diede Hill stesso), ciascuna delle quali della lunghezza media di dieci righe. Per scrivere King Log (1968), invece, ci aveva messo nove anni. D’altronde, come suggerisce Heaney, l’intensa concentrazione di significati rende ogni poesia particolarmente densa e ricca. E trasmettere tutta la ricchezza semantica in un’altra lingua è un’impresa ardua se non impossibile.
Hill è anche – vale la pena ricordarlo – una figura controversa. Ci sono numerosi critici – molti dei quali, come Heaney, sono anche poeti – che non esitano ad usare la parola «grande» quando scrivono di lui; la copertina del libro di Fazzini lo elegge come «probabilmente il maggiore poeta inglese del secondo Novecento». Tuttavia, questi giudizi non sono condivisi unanimemente. Molti ricorderanno la lunga battaglia combattuta sulla pagina delle lettere della «London Review of Books» tra il 1985 e il 1986, dopo una caustica recensione da parte del poeta e critico nord-irlandese Tom Paulin di un libro di saggi dedicati a Hill. Il dibattito è stato feroce ed intenso, con figure come Paulin e John Lucas da un lato e figure come Eric Griffiths, Martin Dodsworth e Craig Raine dall’altro. Essenzialmente i detrattori sostengono che Hill sia un poeta minore di tendenze conservatrici, le cui opere derivano troppo apertamente dai suoi mentori, quali Tennyson, Hopkins, Yeats e Stevens, e presentano una versione sentimentale e nostalgica della storia inglese. I suoi difensori, al contrario, dichiarano che gli echi di altri poeti sono sempre intenzionali – proprio come lo sono nell’opera di Eliot (un’altra influenza importantissima) – e che l’analisi che Hill fa della storia inglese (ed europea) è sempre profonda e sfaccettata. Come Hill stesso ha dichiarato in varie interviste, la nostalgia è uno dei sintomi della malattia dell’Inghilterra, che egli indaga a fondo nelle sue poesie.
Forse dovrei dichiarare subito il mio punto di vista. Sono un grande ammiratore – anche se talvolta un ammiratore perplesso – della poesia della prima e seconda fase di Geoffrey Hill, le cui opere fino alla metà degli anni Novanta (tutte quelle incluse nelle New and Collected Poems del 1994) rileggo spesso trovando sempre nuovi spunti e nuove angolature. Dalla raccolta del 1996, Canaan, in poi, la mia perplessità ha cominciato ad aumentare, arrivando al punto di cancellare ogni possibile piacere; a dire il vero le ultime poesie mi lasciano in uno stato di totale smarrimento, Hill stesso ha dichiarato di essere uscito da una lunga crisi personale («Paris Review», 154, Spring 2000, p. 288); naturalmente questo fa piacere ma non posso fare a meno di pensare che le sue opere più recenti soffrano di un difetto che egli stesso aveva additato come un pericolo da cui fuggire, tanto quanto il difetto opposto (la volontà di piacere al pubblico anche a costo di banalizzarsi): «il rischio di cadere in un solipsismo pericoloso». Apprezzo il fatto che Fazzini abbia cercato di offrirci una scelta rappresentativa che copre tutto l’arco della carriera di Hill, ma devo confessare che trovo i primi due terzi del libro infinitamente più piacevoli dell’ultimo.
Ciò detto, mi sembra che Fazzini abbia scelto le poesie con cura e con giudizio. Uno dei problemi sta nel fatto che le opere più importanti di Hill sono quasi sempre lunghe sequenze di poesie, in qualche caso della lunghezza di un libro intero. Come dice Fazzini, «lo stile di Hill si è affinato e attualizzato attraverso l’opera sequenza […] la sua poesia ha bisogno di una interna discorsività». Fazzini ha deciso di includere alcune sequenze intere, come The Songbook of Sebastian Arrurruz, The Pentecost Castle, Tenebrae e Mercian Hymns. A me dispiace che non abbia incluso niente da An Apology for the Revival of Christian Architecture in Europe, una sequenza di sonetti che ritengo essere una delle sue opere più belle (e anche una delle opere più importanti della poesia inglese del dopoguerra). Senz’altro è anche una delle più controverse, visto che molte delle accuse di nostalgia che gli sono state rivolte si basano su interpretazioni (spesso cattive interpretazioni) di questi sonetti; tuttavia dal punto di vista della suggestività del linguaggio, della bellezza delle immagini e dell’intensità di significato, sono indubbiamente incomparabili.
Fazzini ha deciso, molto saggiamente, di includere tutti i Mercian Hymns, la sequenza di «versetti in prosa ritmica» in cui Hill fonde memorie dell’infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale con frammenti della storia di un semi-mitico re della Mercia (Inghilterra centrale), Offa, dell’ottavo secolo. In questo modo ottiene una fusione tra una visione storica ed una visione intensamente personale, una fusione ben descritta da Heaney: «Hill celebra la Mercia da un doppio punto focale: da una parte c’è la visione dell’occhio del bambino, vicino alla terra comune, e dall’altra l’occhio dello studioso e dello storico, che indaga sul significato, che mette il tempo passato in relazione col tempo presente e viceversa» (tr. P. Vaglioni, op. cit.). Come Heaney dice in seguito, l’esplorazione storica è in gran parte un’esplorazione linguistica, quella che Fazzini descrive come «la volontà di Hill di scendere nel pozzo della memoria etimologica della sua lingua». Si potrebbe descriverla quasi come uno scavo etimologico e, come tale, non sorprende l’attrazione che esercita su uno scrittore come Heaney, la cui prima raccolta iniziava con una poesia famosissima intitolata proprio Digging. Entrambi questi poeti sembrano affascinati sia da questo tipo di scavo etimologico sia da un’esplorazione letterale della terra sotto i loro piedi. Hill è stato definito come un «nazionalista ctonio» (chthonic nationalist), e, lasciando da parte l’intento politico e polemico che sta dietro di questa definizione, non c’è dubbio che egli si senta vicino, quasi intimamente vicino, alla terra; si ha quasi l’impressione che la descrizione che fa del cinghiale nei Mercian Hymns sia una specie di autoritratto ironico: «Foresta di quercia crepitante dove il cinghiale grufolava terriccio nero, il grugno in confidenza con vermi e fogliame».
Questo è un bell’esempio delle abilità di Fazzini come traduttore. Ecco la frase nella versione originale: «Crepitant oak forest where the boar furrowed black mould, his snout intimate with worms and leaves». Come sempre l’inglese di Hill ci offre uno splendido intreccio di parole di origine latina («crepitant», «intimate») e parole di origine anglosassone («furrowed black mould»). Heaney descrive l’effetto come quello dell’architettura classica che si erge in un paesaggio nordico: «la boscaglia nativa, verbale e vegetativa, quelle volute barbare di felci e edera, sono disposte contro il timpano e l’arco del coro, contro la pesante eleganza del latino imperiale» (tr. Vaglioni, op. cit.). Naturalmente, è quasi impossibile rendere tutto questo in italiano, ma Fazzini comunque riesce a cogliere qualcosa del gioco fonico dell’originale; qui le parole allitterative «grufolava» e «grugno» sembrano possedere il peso consonantico che di solito associamo alle lingue nordiche.
Potrei citare tanti altri casi in cui Fazzini riesce a trasmetterci qualcosa di quell’intreccio semantico e fonico che è tipico della poesia di Hill. Ad esempio, «pullulìo di anguille» è un’ottima trovata per «eel-swarms». L’espressione italiana è molto più lunga, naturalmente, ma la ripetizione di quelle ‘l’ liquide rende benissimo il torcersi viscido degli animali. Nella poesia breve ma intensa History as Poetry, i primi due versi sono tradotti in modo molto efficace:
Poetry as salutation: taste
Of Pentecost’s ashen feast.
Poesia come salutazione: gusto
Di cinerea festa pentecostale.
L’unica cosa che si perde qui, in termini di gioco di assonanza, è l’eco che abbiamo nell’inglese delle ultime sillabe della parola «salutation» nella parola «ashen». Ma forse qualcosa si recupera con l’eco smorzato tra le parole «poesia» e «cinerea».
Per il traduttore la vera sfida è di cogliere i significati multipli. Pubblicando alcune di queste traduzioni sulla rivista «Nuova corrente» (2002), Fazzini si concedeva il lusso di indicare qualche doppio significato nelle Note alle poesie. Ad esempio, nella sua traduzione del ‘versetto’ numero XXIX dei Mercian Hymns, la frase, «I too concede, I am your staggeringly-gifted child», viene resa: «anch’io lo ammetto, sono il vostro bambino ben dotato e barcollante». La nota appesa aggiunta alla versione pubblicata su «Nuova corrente» ci informa: «per la doppia accezione di ‘stagger’ si poteva anche tradurre ‘bambino sorprendentemente dotato’». Invece in questa nuova raccolta le uniche note sono quelle di Hill, tutte tradotte con scrupolosa fedeltà. Presumibilmente si tratta di una decisione editoriale facilmente comprensibile; c’è sempre il rischio di intimidire nuovi lettori con un apparato critico sovrabbondante. Ma non c’è dubbio che alcune di queste parole e frasi polisemantiche si trovino private di una parte del loro potere suggestivo; il traduttore è costretto a privilegiare un significato a scapito di un altro.
Chiaramente non è sempre così; in tanti casi Fazzini trova il modo per mantenere qualcosa della ricchezza semantica dell’originale. Ad esempio, nel versetto numero XXV degli Hymns, descrivendo la vita della nonna, Hill adopera una parola arcaica (presa da Ruskin): «whose childhood and prime womanhood were spent in the nailer’s darg». Il dizionario ci informa che la parola ‘darg’ significa il lavoro di un giorno; ma il lettore, incontrando la parola per la prima volta, naturalmente suppone che si riferisca ad un luogo di lavoro piuttosto che un lasso di tempo. Fazzini traduce la frase così: «che trascorse la fanciullezza e il fiore dei suoi anni nella mansione di fabbricazione di chiodi». La parola ‘mansione’ mantiene un’eco, o un vago ricordo, del significato originale della parola ‘mansio’ in latino e in questa maniera la doppia accezione viene conservata.
Però ci sono altri casi in cui il lettore forse avrebbe apprezzato qualche lume; questo si può dire anche per un lettore di lingua inglese ma è doppiamente vero per il lettore italiano che affronta i due testi. Ad esempio, per restare ai Mercian Hymns, il secondo versetto gioca sul nome Offa, sfruttando tutti i possibili significati celati sia nel suono sia nella grafia del nome:
A pet-name, a common name. Best-selling brand, curt graffito. A laugh; a cough. A syndicate. A specious gift. Scorned-athorned phonograph.
The starting-cry of a race. A name to conjure with.
Tutte queste frasi vengono tradotte in modo fedele da Fazzini, ma un lettore che non conosce l’inglese (o che semplicemente non conosce l’inglese colloquiale e anche osceno) troverà alcune delle frasi italiane del tutto incomprensibili. Ciò detto devo aggiungere che la sua traduzione dell’ultimo emistichio («Un nome molto influente») mi sembra riuscita; il mio primo istinto era di considerarla riduttiva, tenendo presente tutte le possibilità suggerite dalla frase inglese, ma poi mi sono venute in mente le connotazioni astrologiche dell’espressione italiana e mi pare del tutto appropriata. Non voglio perciò insistere sui momenti occasionali (ed inevitabili) in cui la traduzione non riesce a trasmettere tutto il peso dell’originale. Questo è un libro bello che senz’altro riesce in quello che è il suo scopo principale: quello di presentare il poeta inglese a nuovi lettori italiani. L’introduzione offre una lettura panoramica ma e allo stesso tempo intensa della poetica di Hill:
da cinquant’anni la poesia di Hill affonda il suo tragico lirismo nei punti nevralgici in cui si consumano le divaricazioni tra le scelte per le politiche di Stato e l’emotività degli individui al cospetto della storia, tra le delusioni degli amori terreni e l’anelito metafisico verso il trascendente, tra la pulsazione tutta umana di sentirsi vivi e la vivida sensazione di dover convivere coi morti, tra la fascinazione di provare che la poesia possa proporsi come forma di espiazione o redenzione e lo scetticismo legato al pericolo di farla scadere nei cliché linguistici e nella retorica a buon mercato…
Questo mi sembra un ottimo riassunto di tutte le tematiche presenti nella sua poesia. Ma ciò che mi colpisce maggiormente è il fatto che Fazzini non sia bravo soltanto nelle affermazioni ad ampio raggio, ma che riesca ad applicare le sue doti critiche anche all’analisi delle singole poesie. Solo per citare un caso, la sua discussione di History as Poetry è un ottimo esempio di ‘close reading’, con il quale riesce a svelare tutto il significato, tutto il peso e tutta la forza di questa breve poesia di dodici versi, in cui «religione, lingua e storia divengono tutt’uno».
Spero che questo libro goda del successo che merita. Ma spero anche che la fortuna editoriale italiana di Hill non si fermi a questa antologia. Ad esempio, Fazzini potrebbe prendere in seria considerazione l’auspicio di Christophe Ricks: il quale riflette, in un suo saggio, che sarebbe assai utile poter contare su un’edizione, corredata da introduzione critica e note esaurienti, di almeno una delle raccolte originali di Hill. Le case editrici italiane sono molto più versate in questo settore delle case editrici inglesi; basta pensare non solo alle edizioni critiche di poeti italiani come Montale o Pascoli, ma anche a certe edizioni di poeti di lingua inglese, come le edizioni BUR di La torre o I cigni selvatici a Coole di Yeats curate da Anthony Johnson; non esistono edizioni con apparati critici così esaurienti in lingua inglese. Nel caso di Hill proporrei senz’altro una bell’edizione di Tenebrae (1978), il suo libro più ricco ed intenso. Dunque, caro Fazzini, al lavoro...!
(Gregory Dowling)
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