« indietro GEOFFREY HILL, Collected Critical Writings, a cura di KENNETH HAYNES, Oxford University Press 2008, £25.00.
Una delle più inaspettate svolte letterarie degli ultimi anni è stato l’innalzamento di Geoffrey Hill alla condizione di Grande Poeta. La fascetta pubblicitaria della sua recente silloge Per chi non è caduto – Poesie scelte 1959-2006 (con traduzioni a cura di Marco Fazzini), presso l’ammirevole editore Luca Sossella, lo vorrebbe addirittura «probabilmente il maggiore poeta inglese del secondo Novecento» – e questo nel mezzo secolo di Philip Larkin, Ted Hughes, Thom Gunn, Stevie Smith…, per non parlare dei rappresentanti della precedente generazione, ancora in vita e attivi per almeno una parte di quel periodo, Basil Bunting, W. H. Auden, Louis MacNeice… È notevole anche che questa incoronazione non sia avvenuta sull’onda di un indiscusso capolavoro tardivo, come fu appunto il caso di Bunting, il cui Briggflats (1966) diede il via a una rivalutazione complessiva delle sue precedenti opere. Le opere di Hill sono quelle di sempre, e la pubblicazione dell’ultima raccolta Without Title, nel 2006 non ha di per se stessa sensibilmente aumentato (o diminuito) la sua reputazione. Una spiegazione, sebbene parziale, sembra proporsi spontaneamente: tutti i poeti nominati qui sopra sono morti. La vita premia anche la persistenza.
Ora la Oxford University Press ci propone anche un altro strumento per valutare il Professor Hill: Collected Critical Writings (curato da Kenneth Haynes). Il volume raccoglie nella santificante tela blu della famosa casa editrice più di 800 pagine (comprensive di 170 pagine di note) di saggi vari, usciti dalla penna del poeta, a partire da quelli già pubblicati nel celebre (1984) fino a una serie di conferenze inedite dell’ultimo quinquennio.
Hill ha trascorso la sua intera vita dentro le aule di varie università e evidenzia una formidabile erudizione. Il suo campo prediletto è il Seicento inglese, da Shakespeare (‘The True Conduct of Human Judgment’: Some Observations on Cymbeline) a Dryden (Dryden’s Prize-Song), morto alle soglie del Settecento. Ma è presente anche Swift (Jonathan Swift: The Poetry of Reaction) fin dentro la prima metà di quel secolo, mentre un’escursione nella direzione opposta ci offre una recensione, non priva di sprazzi di umorismo (qualità più diffusa in questo libro di quanto la reputazione di quasi esagerata serietà del poeta ci farebbe presumere), della storica traduzione biblica di William Tyndale del 1534, così come essa è stata riproposta dalla Yale University Press nel 1989, con «ortografia modernizzata», e insieme di una versione moderna e modernizzante della Bibbia, proposta dalla Chiesa Anglicana nello stesso anno. Non dovrebbe sorprendere che Hill sia ostile a questi tentativi di semplificare la vita ai cristiani pigri: «To make Tyndale’s Revised New Testament of 1534 ‘accessible’to ‘today’s reader’ is not to discover it as the modern book it once was. The modern book it once was remains in the sufficiency and jeopardy of ‘its difficult early sixteenth-century spelling’». Quel «sufficiency and jeopardy» (sufficienza e azzardo) è una formulazione assai amata da Hill, due termini secenteschi, non ovviamente abbinabili, da lui appaiati e trascinati nel Novecento.
L’interesse di Hill per queste traduzioni della Bibbia è tutt’altro che casuale. Egli non esita a mettere in primo piano la sua sofferta fede. Parlando di Charles Williams, uno scrittore cristiano dell’anteguerra il cui pubblico è ormai ridotto a una striminzita nicchia di fedeli, egli scrive: «As a Christian also he would have understood the fundamental dilemma of the poetic craft: that it is simultaneously an imitation of the divine fiat and an act of enormous human self-will». Riconosciamo qui certe sue tattiche ricorrenti: «understood», al posto di ‘believed’ dà per scontato quello che è alquanto discutibile; volere che la pratica della poesia sia «an imitation of the divine fiat» è, dobbiamo dire, retorica vuota, che deve poi essere bilanciata con «enormous», un aggettivo surriscaldato nel contesto. Altrove egli scrive, «I would seriously propose a theology of language» dove quel «seriously» sembra denunciare un’insolita incertezza, come se anticipasse la risposta: ‘Ma stai scherzando!’.
Si leggono sempre i poeti-critici nella speranza di poter intravedere uno spiraglio sui loro procedimenti poetici, oppure di capire qualcosa dell’opera attraverso ciò che essi pensano dei propri contemporanei. Che Hill decida di tacere sul primo argomento è una scelta che va rispettata, ma è a dir poco sorprendente che in quasi trent’anni di scrittura sulla poesia, egli non nomini, della lista che ho citato in apertura, proprio nessuno, tranne Larkin, in una sprezzante parentesi, e Auden, tre o quattro volte, ma sempre per interrogarne le idee e non la poesia (quando non sia per definire «ignominious» i suoi ultimi esili libri). Questo rifiuto di misurarsi con i suoi pari (o maggiori) è indubbiamente voluto: il saggio Poetry and Value (2000) così conclude:
A poem issues from reflection, particularly but not exclusively from the common bonding of reflection and language; it is not in itself the passing of reflective sentiment through the medium of language. The fact that my description applies only to a minority of poems written in English or any other language, and to the poetry written in Britain during the past fifty years scarcely if at all, does not shake my conviction that the description I have given of how the uncommon work moves within the common dimension of language is substantially accurate.
Una dichiarazione donchisciottesca che ricorda più che altro la proverbiale mamma che vede soltanto il suo beniamino marciare al passo.
(Philip Morre)
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