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PIETRO RAPEZZI, Marco Valerio Marziale. Temi e forme degli Epigrammi, Arezzo, Edizioni Helicon 2008, pp. 144, € 15,00.

 

Pietro Rapezzi è nome noto ai lettori di questa rivista, che nel 2001 ha ospitato alcuni suoi saggi inediti di traduzione da Marziale con una bella presentazione di Antonio La Penna («Semicerchio» XXIV-XXV, pp. 79-83): una selezione di nove epigrammi che seguiva, a distanza di qualche decennio, le prime prove di traduzione da Catullo, Fedro, Virgilio, oltreché dallo stesso Marziale, risalenti agli anni ’60. Il titolo della premessa, Marziale sulla riva etrusca, alludeva alla biografia del traduttore (Bibbona, Pisa, Cecina sono i luoghi in cui Rapezzi è nato, si è laureato in lettere classiche, ha insegnato e vive, intrecciando all’interesse per l’archeologia locale quello per la poesia latina), ma ammiccava anche alla congenialità tra traduttore e autore, tra la tendenza toscana all’arguzia e il gusto per il «fulmen in clausula» tipico dell’epigrammista spagnolo: «Da buon toscano, Rapezzi gusta innanzi tutto nel suo poeta la brevità arguta e tagliente, cioè gli epigrammi dalla pointe inattesa e fulminante» (così La Penna, p. 79).
La predilezione per l’epigramma scommatico è evidente anche nella presente raccolta, dove una buona metà delle 45 traduzioni è dedicata a componimenti d’ispirazione comico-satirica, luogo privilegiato dell’arte mimica e caricaturale del poeta di Bilbili. Non manca tuttavia l’attenzione al Marziale degli affetti e della tenue vena malinconica di ascendenza oraziana, come già notava La Penna e come sottolinea Rapezzi nel primo capitolo dell’introduzione («Profilo di Marziale», pp. 7-20), dove esprime la necessità di comporre un profilo più sfaccettato e insieme unitario del poeta «che tenga conto di quella ambivalenza perennemente irrisolta, anziché divaricarne e isolarne i termini, come è stato fatto da larga parte della critica, che ha finito per operare un’irriducibile dicotomia tra l’autore degli epigrammi comico-satirici e quello degli epigrammi seri» (p. 7 s.). Coerentemente con questa impostazione nel secondo capitolo introduttivo («Temi e forme degli Epigrammi», pp. 23-63) viene presentata la varietà tematica e tipologica dell’epigramma marzialiano, che è ben rispecchiata nella selezione dei testi tradotti: epigrammi comico-satirici (I 43, 47, 64; II 15, 27, 33; III 44, 45, 98; IV 5; V 44, 76; VI 59, 74; VII 92; VIII 69; IX 46, 69; X 8, 91; XI 77; XII 28 [29], 32); riflessioni di tipo filosofico-sentenzioso sulla vita (I 15; III 37; XI 56; XII 13); epicedi (V 34, 37; XI 91); paesaggi urbani in contrapposizione a spazi naturali di idillica semplicità agreste, spesso identificati con una Spagna mitica da età dell’oro, su cui vd. anche X 96 tradotto in «Semicerchio» 2001 (I 49; III 38; IV 55, 64; XII 57); il lamento sulle difficoltà di vita del cliens a Roma (I 59; III 7, 60; X 74, 76, 82); affettività e amicizia (VI 11; IX 52; ma vd. anche IV 64); polemica letteraria (IX 50; X 4).
Le traduzioni qui raccolte sono in massima parte inedite e della breve silloge del 2001 un solo epigramma è riproposto (III 44). La selezione copre tutti i 12 libri di epigrammi (particolarmente numerose le traduzioni dai libri I, III e X), mentre si nota l’assenza di componimenti encomiastici e del Liber Spectaculorum, nonostante il rilievo dato nell’introduzione (pp. 54-63) al tema della celebrazione imperiale, attualmente molto studiato, ma sicuramente più lontano dalla nostra moderna sensibilità. L’ampia e informata introduzione, corredata da una buona bibliografia che si arresta però al 2000, mostra che Marziale non è stato per Rapezzi solo banco di prova per il suo spiccato interesse nei confronti della traduzione poetica, ma anche oggetto di seria riflessione critica. Indipendentemente dalla varietà metrica ‘controllata’ di Marziale (distici elegiaci, faleci, scazonti e pochi altri metri), Rapezzi adotta per la sua traduzione in versi l’endecasillabo sciolto, con qualche rara eccezione: alternanza di settenari e endecasillabi (talora collegati dalla rima) in I 47, V 76, VIII 69 e X 91; settenari (con rima abbc) in X 8; due sestine di endecasillabi (con rima ababcc) in VI 59. Il frequente uso dell’enjambement contribuisce alla duttilità dell’endecasillabo e lo modella su un sermo piano e colloquiale che ci restituisce la vivacità del poeta latino, attenuando – come notava La Penna – «l’eleganza letteraria, che in Marziale si nutriva parecchio della poesia augustea» (art. cit., p. 80). Solo raramente la costrizione del metro induce a qualche durezza, come nel verso finale del famoso «Epicedio per Erotio»: «né le sii grave, o terra: a te fu lieve» (V 34, 9 s. nec illi, / terra, gravis fueris: non fuit illa tibi).
La traduzione è generalmente fedele al testo senza perdere in fluidità e vivacità, non elude le difficoltà con scorciatoie semplificanti, né indulge a cambiamenti arbitrari, con solo qualche rara e garbata concessione al travestimento modernizzante (vd. la chiusa di XII 57: «Quando più non reggo / allo stress, mi ritiro un po’in campagna») o al colorito toscano (vd. nella vivace traduzione di I43 «E neppure di quello ci hai ammannito / un brincellino», a proposito del misero cinghialino imbandito da un patrono spilorcio). La crudezza espressiva, che Marziale si sente in dovere di giustificare fin dall’epistola prefatoria del I libro come elemento irrinunciabile del genere epigrammatico (lascivam verborum veritatem, id est epigrammaton linguam), è opportunamente mantenuta dal traduttore nei brani che costituiscono un piccolo specimen del linguaggio diretto e disinibito del poeta latino (II 33, III 98, IX 69): il confronto tra la resa di Rapezzi di III 98 («È così magro il tuo culo, Sabello, / che potresti inculare con il culo») e quella ottocentesca di Pio Magenta, la cui pur coraggiosa traduzione integrale di Marziale è stata recentemente riproposta da Paolo Mastrandrea nei «Diamanti», Roma, Salerno Editrice 2006 («Quanto sia scarno il tuo seder tu vuoi, / ch’io, Sabello, ti dica? / Usarlo per turacciolo tu puoi»), mostra come alla fedeltà della linea sintattica (struttura domanda-risposta, sentita evidentemente un po’ artificiosa) il traduttore moderno preferisca la fedeltà lessicale, rispettosa della norma di non castrare… libellos (I 35, 14).
Notevole anche l’attenzione a rendere il fitto gioco di parallelismi dell’originale, come risulta dalla traduzione di III 44, dove si prende di mira Ligurino, evitato da tutti perché nimis poeta (vv. 10-6):
 
Et stanti legis et legis sedenti,
currenti legis et legis cacanti.
In thermas fugio: sonas ad aurem.
Piscinam peto: non licet natare.
Ad cenam propero: tenes euntem.
Ad cenam venio: fugas sedentem.
Lassus dormio: suscitas iacentem.
 
Quando sto in piedi tu leggi, tu leggi
quando siedo, quando corro tu leggi,
tu leggi quando caco. Mi rifugio
ai bagni: odo squillare la tua voce.
Vado in piscina: non riesco a nuotare.
M’affretto a cena: non mi fai passare.
Mi siedo a cena: mi obblighi a fuggire.
Stremato prendo sonno: mi fai alzare.
 
Il doppio chiasmo dei vv. 10-11 è fedelmente mantenuto, mentre il complesso omeoteleuto chiastico dei participi è in parte reso spostando «leggi» alla fine e all’inizio di verso; l’alternanza di infinito e triplice participio con omeoteleuto in clausola ai vv. 13-16 è resa alternando la rima dei quattro infiniti in fine di verso, in modo da conservare variatio e ritmo incalzante. In altri casi il ricorso al più breve settenario consente di sottolineare la suddivisione in emistichi e il gioco di opposizioni che le cesure conferiscono al distico elegiaco (X 8):
 
Nubere Paula cupit nobis, ego ducere Paulam
nolo: anus est.Vellem,si magis esset anus.
 
Paola vuole sposarmi,
ma io non voglio lei:
è vecchia. La vorrei,
se fosse ancor più vecchia.
 
Particolarmente felice è la traduzione di I 15, accolta anche nel volume curato da Anna Dolfi, Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Roma, Bulzoni 2004:
 
O mihi post nullos, Iuli, memorande sodales,
si quid longa fides canaque iura valent,
bis iam paene tibi consul tricensimus instat,
et numerat paucos vix tua vita dies.
Non bene distuleris videas quae posse negari,
et solum hoc ducas, quod fuit, esse tuum.
Exspectant curaeque catenatique labores,
gaudia non remanent, sed fugitiva volant.
Haec utraque manu conplexuque adsere toto:
saepe fluunt imo sic quoque lapsa sinu.
Non est, crede mihi, sapientis dicere ‘Vivam’:
sera nimis vita est crastina: vive hodie.
 
O Giulio, che a nessuno degli amici
sei secondo, se valgono qualcosa
una lunga fiducia, un patto antico,
ormai t’è presso il sessantesimo anno
e la tua vita tuttavia non conta
che pochi giorni veri. Non fai bene
a differire ciò che la fortuna
potrebbe, poi, lo vedi, rifiutarti:
stima tuo solo quello che hai goduto.
Dolori e affanni senza tregua incalzano;
le gioie non si fermano, ma passano
fuggiasche a volo. Lesto lesto afferrale
con l’una e l’altra mano, al petto stringile
con tutta la tua forza: anche così
sgusciando via leggere si sottraggono
spesso all’abbraccio più tenace. Credimi:
dire «Vivrò» non è da saggio: vivere
domani è troppo tardi: vivi oggi.
 
Notevole è la sintonia del traduttore con gli accenti personali e le modalità espressive del poeta antico: Rapezzi sa rendere il fluire dei pensieri e la rapida fuga dei gaudia con la fluidità dell’endecasillabo ricco di enjambements, ma si rivela anche fine interprete dell’ideale marzialiano della ‘vera vita’ – alla cui luce viene originalmente rivisitato il motivo del carpe diem – nel chiosare il nesso paucos… dies («pochi giorni veri») ed esplicitare tutta la pregnanza del v. 4. In questo caso l’atemporalità del soggetto, che comporta una virtuale tendenza all’identificazione e annulla la distanza tra antichi e moderni, rende forse meno arduo il compito del traduttore; ma risultati pregevoli si riscontrano anche in settori più ‘impervii’, come quello della polemica letteraria ovviamente legata al contesto culturale dell’epoca. Si veda, infatti, l’efficace resa dell’epigramma X 4, che Rapezzi intitola La poesia specchio della vita, famoso manifesto antimitologico e antiretorico in nome di una letteratura viva e naturale:
 
Tu che di Edipo leggi e di Tieste
ottenebrato, di Medee e di Scille,
che cosa leggi se non mere favole?
……. A quale scopo correre
dietro a tali fandonie? Leggi quello,
di cui la vita possa dire: «È mio».
Non Centauri, non Gorgoni, né Arpie
qui troverai: nel mio libro c’è l’uomo.
 
E dell’uomo e scrittore Marziale questo saggio di traduzione ci restituisce un quadro vivo e attuale, che tocca molte corde della sua variegata poesia; un quadro che la pubblicazione di tutti gli inediti – Rapezzi ha tradotto circa trecento epigrammi (vd. La Penna, art. cit., p. 80) – renderebbe ancor più ricco, estendendosi forse anche a tematiche qui assenti, come la poesia encomiastica o la celebrazione dell’eros nei suoi molteplici aspetti di sublimazione e degradazione. In ogni caso, le indubbie doti di gusto e sensibilità del traduttore, la sua non comune sintonia col poeta antico rendono auspicabile il proseguimento di un’operazione che partecipa significativamente del recente e vivace interesse per un autore a lungo ‘snobbato’ dalla critica e qualificato come ‘minore’, ma che il fervore di studi degli ultimi decenni sta ampiamente riscattando. Questa nuova fortuna di Marziale e della forma ‘breve’ dell’epigramma (in un’epoca che si misura quotidianamente con la ‘brevità’ degli sms) trascende evidentemente la cerchia di specialisti: lo dimostra Rapezzi, che sa rendere fruibile la complessità e ricchezza del poeta latino per un più vasto pubblico di lettori, un pubblico di ‘convitati’ e non solo di ‘cuochi-grammatici’, proprio come sarebbe piaciuto al suo autore (IX 81).
 
(Silvia Mattiacci)

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