« indietro LA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA DELL’OPERA D’ARTE FUTURISTA
UN PROBLEMA ESTETICO E POLITICO
di Caterina Toschi
Nell’autunno del 1935 Walter Benjamin completò un primo abbozzo del suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che fu pubblicato nel gennaio dell’anno successivo per l’edizione francese dello «Zeitschrift für Sozialforschung»[1]. L’autore incentra la sua analisi, come è noto, sulle conseguenze dell’avvento della fotografia nel campo dell’estetica contemporanea, riflettendo sull’incontro tra uno dei media più rappresentativi della nuova logica industriale – fondata sulla riproducibilità in serie a partire da una matrice – e il campo dell’arte, dominio dell’autenticità e dell’originalità creatrice. Le potenzialità che Benjamin vedeva racchiuse nella fotografia sono riducibili, lo ricorderemo, ad una semplice qualità, propria della natura meccanizzata del mezzo: essa ha il potere di trasformare un evento unico, hic et nunc irripetibile, in una serie di eventi sotto forma di riproduzioni fotografiche. Tale potere «metamorfico», se applicato al campo dell’arte, rivoluziona il concetto di unicità ad essa tradizionalmente connesso: l’opera d’arte, sinora visitata nei templi della cultura, poteva raggiungere, attraverso giornali e riviste, il singolo individuo nella sua quotidianità e in quel contesto essere fruita: la fotografia, insomma, si mostrava in grado di appagare, per la prima volta, il desiderio delle masse di ‘impossessarsi’ del sapere, accedendo ai suoi contenuti e alle sue forme. La democratizzazione della cultura, responsabile della perdita del sacro in ambito artistico, è dunque fatalmente legata alla meccanizzazione.
Come aveva dimostrato il più grande teorico della trasformazione sociale moderna, Karl Marx, il capitalismo d’impresa e la produzione di massa avevano ormai ridefinito il confine delle relazioni sociali in termini di capitale e forza lavoro; le merci esprimevano il declino del mondo sociale e la crescita del valore del mondo delle cose. L’arte doveva veicolare tale verità e trasformarsi in denuncia politica; l’accessibilità insita in un mezzo come la fotografia doveva quindi proporsi quale strumento educativo che innescasse nelle masse una riflessione politica, e che si traducesse poi – nella visione marxista di Benjamin – in azione politica rivoluzionaria.
Rivolgersi alle masse, significava rivolgersi ad una nuova realtà sociale sorta tra il XIX e il XX secolo. L’uomo si era «trasformato in massa» acquisendo una sorta di anima collettiva che lo portava a sentire, pensare e agire in modo del tutto diverso da come isolatamente avrebbe sentito, pensato o agito. Con la formazione della cosiddetta «psicologia della massa», il gusto e le attitudini individuali andavano disperdendosi in ciò che Benjamin descriveva come «l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico»: una sorta di conformismo del gusto artistico, in cui ogni reazione estetica andava sprofondando nell’indistinzione. Le cause – spiegava Freud[2] – erano fondamentalmente due: l’accresciuta suggestionabilità e il contagio mentale, per le quali l’identità particolare andava sfumando nell’anonimato, annullando ogni interesse personale, compreso quello dell’autoconservazione. La conseguenza più rilevante di questa trasformazione sociale era un senso generale di inibizione delle capacità intellettuali, a causa del quale le masse avevano rinunciato al ragionamento e agli argomenti logici, rifugiandosi nel mondo dell’illusione, incapaci di distinguere tra realtà e irrealtà. La risposta del mercato a tale standardizzazione del pensiero fu la nascita di un’industria culturale che offrisse piaceri alla noia delle masse urbane, alle quali però non era richiesto – come analizzato da Adorno e Horkheimer[3] – alcun impegno, né fatica intellettuale per un consumo facile e veloce dei prodotti proposti. Profetico il timore di Warburg – nella sua follia, di congedo dalla clinica psichiatrica di Kreuzlingen[4]– rivolto al pericolo di una «distruzione della distanza»: egli vedeva, nell’accelerazione del tempo e nell’annullamento delle distanze spaziali della nuova vita moderna, un rischio per la riflessione; l’uomo ha bisogno di costruirsi una zona del ragionamento, il Denkraum, che richiede un tempo per la comprensione nonché un distacco per la contemplazione. Questo era il rischio insito nell’appagamento del desiderio delle masse di impossessarsi della cultura da una distanza ravvicinata, che Benjamin interpretava come una forma di democratizzazione del sapere, ma che Warburg vedeva come un possibile inizio di degradazione del pensiero umano.
Pur sognando una politicizzazione della cultura che coinvolgesse il popolo, Benjamin era consapevole nel 1936, allorché si consacrava alla scrittura del suo saggio, degli esiti irrimediabili della massificazione: ormai tre regimi totalitari avevano conquistato il potere sfruttando la psicologia delle masse, e non certo per un dialogo politico mediato dalla cultura. L’ultimo capitolo del suo saggio è infatti notoriamente centrato sul fenomeno di «estetizzazione della politica» attuato dal Fascismo che, per il filosofo, era esemplato sul precedente modello artistico del Futurismo. Importante a questo proposito è sottolineare che l’immagine che Benjamin si fece del movimento futurista non derivò dalla grande mostra di arte italiana – L’Art italien des XIXe et XXe siècles[5]– organizzata, tra il maggio e il luglio del 1935, al Jeu de Paume a Parigi, ma più probabilmente dall’esposizione – Les futuristes italiens à Paris – allestita alla Galerie Bernheim Jeune, tra il 3 e il 27 aprile del medesimo anno. Il ritrovamento e lo studio del catalogo, da parte di chi scrive, hanno costituito il punto di partenza di una specifica indagine, dato che in precedenza la critica aveva rivolto la propria attenzione esclusivamente alla mostra L’Art italien des XIXe et XXe siècles. Tale precisazione è doverosa, dal momento che, al Jeu de Paume Antonio Maraini scelse di presentare il Futurismo solo attraverso cinque opere di Boccioni – ormai scomparso da tempo – e tre di Prampolini, nella saletta numero 14: uno spazio angusto, e tanto più se confrontato con le grandi sale dedicate agli esponenti di Novecento. Inoltre la stampa francese – e penso soprattutto agli articoli usciti sulla «Revue blanche» e su «L’Amour de l’art» di Camille Mauclair e di René Huyghe[6] – parlava del Futurismo come di un movimento di disordine anarchico, «chimerico e discorde», appartenente al passato dell’Italia, a fronte del nuovo ritorno all’ordine dell’arte di regime fascista, votata «alla volontà di unione sociale del Duce». Alla Galerie Bernheim Jeune furono invece esposte centoquaranta opere futuriste, con cinque personali – di Prampolini, Depero, Mino Rosso, Tullio d’Albisola e Fillìa. Nel catalogo Marinetti scelse di pubblicare il Manifesto di Arte Sacra futurista – già uscito a Torino, su «La Gazzetta del Popolo», il 23 giugno del 1931: scelta interessante per la nostra analisi, dato che probabilmente innescò la riflessione di Benjamin sui valori culturali di cui la figura del Duce si era autoinvestita a fini demagogici. Celant ha definito a ragione il Futurismo «the first artistic movement of mass society»[7] per il fatto di aver accolto, entro i propri confini, una nuova dimensione della cultura diffusa attraverso i giornali e le riviste: esso proponeva un accesso diretto dell’arte, sinora relegata all’elitarismo delle pubblicazioni specializzate, da parte del grande pubblico. Marinetti aveva infatti compreso le enormi potenzialità implicite nella nascente industria pubblicitaria: aveva un proprio ufficio stampa che gestiva la pubblicazione dei manifesti futuristi sulla stampa locale, nonché la corrispondenza con tutti i più importanti periodici a livello europeo; e proponeva ai suoi lettori un abbonamento, che consentisse loro di ricevere settimanalmente – sotto forma di un foglio ripiegato, stampato recto e verso – tutti gli aggiornamenti sui nuovi manifesti futuristi, inerenti gli ambiti più disparati, dallo sport, alla cucina, fino all’abbigliamento. Lavorava, cioè, anche alla sovrastruttura del movimento, mirando a diffonderne la poetica tramite il successo sociale, e organizzando vere e proprie tournées europee in molteplici gallerie sempre a scopo pubblicitario. Anche sul piano della struttura, il Futurismo può definirsi una «Mass Avant-garde», dal momento che concepì l’arte non più come espressione dell’individualismo artistico, la cui interpretazione era vincolata all’intima relazione fra l’artista e la sua opera – pensiamo agli strumenti critici necessari per poter comprendere la riflessione cubista sul concetto di spazio –, ma come una creazione che riflettesse una collettività.
Nei quadri futuristi il soggetto moderno, legato a temi urbani e al nuovo modo di percepire la realtà in termini di frammentazione – aspetto che accomunava d’altronde tutta la realtà sociale contemporanea – risultava familiare a chiunque vi si ponesse di fronte; il linguaggio artistico futurista si fondava su un vocabolario figurativo riconoscibile, e quindi comprensibile, al grande pubblico, che cominciava a intendere l’arte come un principio di immediata identificazione. Nel Manifesto di ricostruzione futurista dell’universo di Balla e Depero, nonché in Principi di un’estetica futurista di Soffici, leggiamo come la poetica del movimento prendesse le distanze da un’estetica autoreferenziale, che negasse un contatto con la realtà del mondo e che si chiudesse nei suoi meccanismi contemplativi: «con il Futurismo, invece, l’arte diventa arte-azione, cioè volontà»[8], in cui «non solo i prodotti dello spirito sono opere d’arte, ma forse anche gli atti della semplice vita»[9]; il quotidiano – dal giocattolo, al modo in cui andava ‘futuristicamente’ ascoltata la radio – era concepito come una rappresentazione teatrale i cui attori erano persone comuni, aventi un ruolo attivo nel programma ‘politico’ futurista, che attribuiva al «banale» una responsabilità sociale. Il pensiero futurista ruppe dunque con la logica kantiana dell’arte, estendendo le relazioni dell’opera al di fuori dell’oggetto artistico ed incentrandole nella realtà tangibile della folla: invitata, questa, non più ad una passività contemplativa, ma alla condivisione di un progetto politico, di cui il manifesto assunse i caratteri di una sceneggiatura da interpretare. Stupisce leggere alcuni punti del Manifesto del partito futurista italiano – pubblicato l’11 febbraio 1918 – che, oltre a precorrere i tempi su certi temi quali la lotta contro l’analfabetismo ed il sostegno al suffragio universale, dichiara apertamente gli intenti della politica culturale del movimento, che richiede l’adesione di «tutti gli italiani, uomini e donne di ogni classe e di ogni età, anche se negati a qualsiasi concetto artistico e letterario». In tale ottica potremmo dire che gli inizi del processo sovietico – teorizzato da Benjamin – di «politicizzazione dell’arte» debbano essere rinvenuti nel Futurismo, in cui il filosofo vedeva invece l’origine del fenomeno di «estetizzazione della politica», proprio del Fascismo. Non si deve dimenticare che Marinetti era legato a Mussolini, soprattutto all’inizio della sua carriera, da una profonda amicizia: con lui aveva partecipato all’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano, il 23 marzo del 1919 – occasione in cui furono fondati i Fasci italiani di combattimento –, e all’assalto alla redazione del quotidiano «L’Avanti», il 15 aprile dello stesso anno. Ma la riflessione di Benjamin andava oltre: Marinetti, riconoscendo il gusto della massa e negando quello di élite, aveva aperto la strada al fenomeno di fascinazione collettiva per certi emblemi o idee, quali la guerra: le masse, proprio in virtù di quel fenomeno – analizzato da Freud – di alta suggestionabilità e di contagio mentale all’interno del corpo «massa», e non più del soggetto «individuo», risultavano vittime di tale meccanismo, in quanto consumavano e condividevano qualunque contenuto politico al di là di un giudizio critico. L’attribuzione di un valore cultuale all’artificialità della vita moderna, che trova la sua massima espressione nel culto della guerra, era una prerogativa del programma di intervento politico marinettiano; esso aveva affermato lo stato laico dell’arte moderna, liberandola dalle sue origini rituali e religiose, ma – come si evince dalla comparazione fra La nuova religione-morale della velocità e L’uomo moltiplicato e il Regno della macchina – aveva anche sostituito alla morale cristiana, entrata fortemente in crisi per l’incapacità di colmare il senso di solitudine delle masse urbane, una morale futurista, che proponeva alternative ai simboli sacri convenzionali. Al fedele e al suo rapporto intimo con l’istituzione-Chiesa – spazio del sacro di cui quello dell’arte non è che una proiezione – i futuristi sostituivano «l’uomo moltiplicato», educato al culto della macchina, e i nuovi «luoghi abitati dal divino», come le mitragliatrici, i fucili, i cannoni. Una morale, cioè, che svuotava il soggetto della propria umanità «mediante l’esteriorizzazione della sua volontà», e lo omologava ad un unico corpo, ridotto allo stato di materiale e costituito da «tipi umani» come la Sentinella fascista o l’Atleta fascista, esposti da Fillìa, Oriani e Rosso alla Galerie Bernheim Jeune accanto ai molteplici quadri dedicati al «soggetto macchina». Nel Manifesto di arte sacra – scritto con Fillìa e pubblicato nel catalogo di Parigi – Marinetti spoglia l’arte sacra della sua legittimità clericale, rifondandola sui nuovi valori cultuali del futurismo, ovvero intendendola non più come veicolo di un dialogo del fedele con il divino, ma come emblema dei principi etici del nuovo «tipo non umano e meccanico», per il quale il Paradiso è paragonabile alla vittoria di Vittorio Veneto sull’esercito austro-ungarico, e l’Inferno ai bombardamenti del Carso. Una visione, quindi, che estetizzava il Fronte, e che affascinava la massa, così condotta all’autodistruzione nella prima guerra mondiale. Estetizzazione e meccanizzazione dell’immagine andavano di pari passo: l’Istituto LUCE – la migliore agenzia fotografica, nonché di attualità cinematografica, che l’Italia abbia mai avuto – fu fondato da Mussolini nel 1925, e divenne il suo strumento privilegiato per dare al popolo l’illusione di partecipare ad un progetto rivoluzionario di trasformazione sociale, semplicemente mostrandogli «il volto di sé stesso» – nei cinegiornali e nei documentari di tutta Italia – attraverso le prospettive aeree. L’archivio dell’Istituto forniva alla stampa foto di «varietà», a fronte del pagamento di un canone, mentre quelle «di propaganda politica» erano ottenibili gratuitamente; ogni foto era prima sottoposta all’ufficio stampa del capo di governo, diretto dal 1933 da Galeazzo Ciano, che, nel 1937, assunse il titolo di Ministro della Cultura Popolare. L’Istituto divenne inoltre uno strumento formativo efficace per il popolo italiano, in gran parte analfabeta, pubblicando dalla fine degli anni Venti una collana di cinquanta volumetti divulgativi intitolata L’Arte per tutti. Nei cinegiornali, invece, le potenzialità della telecamera erano rivolte a costruire valori cultuali fittizi intorno alla figura del Duce, che, attraverso il video, poteva raggiungere tutti gli Italiani, e che, allo stesso tempo, troneggiava al di sopra di essi durante le adunate in piazza. La riproducibilità tecnica, che per Benjamin era stato il mezzo di distruzione del valore cultuale dell’arte, diveniva ora lo strumento per costruire nuovi valori di culto, non più intorno ad un’opera, ma intorno ad un uomo e al suo progetto politico di dominio.
A tale proposito è utile citare il saggio Avanguardia e Kitsch – uscito tre anni dopo quello di Benjamin – in cui Clement Greenberg qualifica la nuova cultura delle masse urbane come «kitsch», prodotto della noia cittadina, che, soddisfacendo la richiesta di un sapere adatto al consumo dei molti, si propose come la prima cultura universale nella storia dell’uomo. Essa si presentò come uno strumento di «alfabetismo universale» – lontano sia dalla cultura ufficiale che da quella popolare contadina – di facile accesso per l’uomo comune: mentre un quadro di Picasso presupponeva una rielaborazione concettuale da parte del fruitore, un quadro di un qualche realista russo «raccontava una storia», i cui valori «dell’immediata riconoscibilità, del miracoloso, e del congeniale» semplificavano l’opera d’arte in favore del suo spettatore, risparmiandogli lo sforzo intellettivo dell’interpretazione. Per Greenberg, il «kitsch» era divenuto uno strumento di dominio in Germania, Italia e Russia, in cui il regime politico aveva attivato una politica culturale a fini demagogici, per ingraziarsi il popolo. Riferendosi a Hitler, Stalin e Mussolini egli afferma: «essi lusingano le masse abbassando la cultura al loro stesso livello»[10], condannando l’Avanguardia non tanto perché strumento del regime, quanto per l’impossibilità di dotarsi di efficaci contenuti propagandistici: «Il kitsch teneva il dittatore in contatto più stretto con l’anima del popolo, nell’illusione che in realtà fossero le masse a governare»[11]. In una logica di dominio, accanto allo sfruttamento dell’alfabetismo universale, va considerato – per Benjamin – il valore sacrale assunto dall’emblema del potere, incarnato dalla patria, da un partito, o da un uomo. Il dibattito proposto dal Collège de Sociologie[12] – riunitosi intorno a Bataille, per due anni, in un Caffè del Quartiere Latino di Parigi – verteva proprio su questi temi: in una conferenza del 19 maggio del 1938[13], Pierre Klossowski e Denis de Rougemont interpretavano la politica delle masse, instauratasi a partire dagli anni Venti, come la continuazione della guerra totale, i cui mezzi miravano a trasporre le passioni individuali del singolo al livello dell’essere collettivo. L’educazione totalitaria riversava sulla Nazione personificata tutto ciò che rifiutava agli individui isolati; erano solo la Nazione o il Partito ad avere delle passioni; ricordiamo che nelle opere esposte alla Galerie 54 Bernheim Jeune, accanto ai ritratti anonimi delle differenti categorie sociali fasciste, gli unici ritratti individualizzati erano quelli mussoliniani, come Il cuore del Duce di Depero. Ai legami deboli, instaurati dalla società fra i suoi membri, si sostituivano vincoli profondi proposti dai corpi costituiti, come il Partito, la cui anima era affidata ad un uomo, contemplato al pari di un emblema divino; la Chiesa, che aveva sempre accentrato attorno a sé un nucleo stabile dal carattere sacro ben definito, cedeva il posto al potere totalitario, in cui Bataille e Roger Callois[14] vedevano la riunione istituzionale di una forza religiosa e di una forza militare, una realtà seducente e temibile individualizzata in una sola persona. Il crocifisso, simbolo della morale cristiana, veniva sostituito, sulle locomotive di tutta Italia, dal fascio del littore romano.
Scriverà Hitler, negli stessi anni, in Mein Kampf: «il popolo si trova in una disposizione e in uno stato d’animo talmente femminili che le sue opinioni e i suoi atti sono determinati molto più dall’impressione prodotta sui sensi che dalla pura riflessione. La massa è poco accessibile alle idee astratte. Al contrario la si terrà in pugno più facilmente nella sfera dei sentimenti».[15]
NOTE [1] W. Benjamin, L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécanisée, trad. di Pierre Klossowski, « Zeitschrift für Sozialforschung », n. 5, 1936 (pp. 40-68). [2] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), in S. Freud, Opere, vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri 1989, pp. 261- 330. [3] Th. W. Adorno e M. Horkheimer, La dialettica dell’Illuminismo (1944). [4] A. Warburg, conferenza del 21 aprile del 1923 sul Rituale del Serpente ad Oraibi; cfr E. H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano, Feltrinelli 2003, pp.196-197. [5] L’art italien des XIXe et XXe siècles, Jeu de Paume des Tuileries, maggio-luglio 1935, a cura di Antonio Maraini e André Dezarrois. [6] C. Mauclair, «Revue Blanche», 15 giugno 1935; René Huyghe, «L’Amour de l’Art», 1935; in La mostra d’arte italiana dell’800 e ‘900 al Jeu de Paume nella stampa francese, agosto 1935, Venezia, Carla Ferrari 1935, pp. 58-61; 92-100. [7] G. Celant, Futurism as Mass Avant-garde, catalogo della mostra: Futurism and the International Avant-garde, a cura di Anne d’Harnoncourt, 28 ottobre 1980-4 gennaio 1981, Philadelphia, Museum of Fine Arts, pp. 35-42. [8] Giacomo Balla e Fortunato Depero, Il Manifesto di ricostruzione futurista dell’Universo, Milano, 11 marzo 1915. [9] Ardengo Soffici, Primi Principi di un’Estetica futurista, 1914-1917. [10] Clement Greenberg, Avant-garde and Kitsch, «Partisan Review», autunno 1939; cfr G. Di Giacomo e C. Zambianchi, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Bari, Laterza 2008, pp. 67-83. [11] Ibidem. [12] Il collegio di sociologia 1937-1939, Denis Hollier (a cura di), Torino, Bollati Boringhieri 1991. [13] Pierre Klossowski e Denis de Rougemont, La Tragedia, conferenza del 19 maggio 1938; Ivi, p. 251. [14] Roger Callois, Il Potere, conferenza tenuta poi da Bataille, in vece sua, il 19 febbraio 1938; Ivi, pp. 164-168. [15] Adolph Hitler, Mein Kampf, cit. in Pierre Klossowski e Denis de Rougemont, La tragedia, conferenza del 19 maggio 1938, in Il collegio di sociologia 1937-1939, Denis Hollier (a cura di), cit., p. 253. ¬ top of page |
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