« indietro «APOLLINAIRE/AVANCE, RETARDE, S’ARRÊTE PARFOIS»
Sull’ Antitradition futuriste
di Michela Landi
Pictoribus atque poetis – quidlibet audendi semper fuit aequa potestas
(Orazio, Ars poetica, vv. 9-10)[1]
Se un fenomeno così storicamente «datato» come la prima avanguardia ha a lungo scoraggiato nella critica tentativi di prospezione o retrospezione, uno sguardo obliquo potrebbe rintracciare una qualche invarianza. Giova intanto ricordare che il termine di «avant-garde», diffusosi in Francia nel XIX secolo in ambito militare, assume presto una valenza metaforica, sino a designare, per catacresi, un’arte militante. La predilezione dei francesi per le «métaphores militaires» che Baudelaire lamentava in Mon cœur mis à nu, faceva sì che si consolidasse, in territorio nazionale, una tradizione, già invisa al poeta delle Fleurs, di «poètes de combat» e di «littérateurs d’avant-garde»[2]: spiriti gregari, a suo dire. Contestualmente il gergo bellico, estendendosi ad ogni ambito culturale, veniva a contaminare, con la sua elementare logica binaria («vive»/«à bas») l’arte, che si avviava a divenire arte di massa; se ne avvide, profeticamente, lo stesso Baudelaire nel Peintre de la vie moderne, allorché lesse, nella «parure voyante» del militare, un peculiare «sens moral». Fatalmente, questi è segnato dal culto dell’esteriorità: un cinismo marziale, un «mélange singulier de placidité et d’audace» fa la grande semplicità del soldato, che, come il fanciullo, è incline ai divertimenti violenti[3]. Come M. Décaudin fa notare[4], la connotazione militare di avant-garde si perde intorno al 1910 con la nascita delle avanguardie storiche: il fenomeno di estetizzazione della politica, notoriamente studiato da Benjamin, produce, all’inizio del secolo, una curiosa contaminazione tra ideologia interventista e letteratura ludica mentre la guerra, anche nella sua metafora ideologico-culturale, si fa espressione da un lato della conservazione (o della reazione), dall’altra, del rinnovamento essa è, insieme, la tradizione e l’antitradizione, l’ordine e l’avventura. È patente d’altronde, nel concetto stesso di «avanguardia storica», una contraddizione in termini; essa è, però, come vorremmo dimostrare, solo apparente. In rapporto alla tradizione (che fu, lo vide ancora Baudelaire nel Peintre de la vie moderne, ‘avanguardia’ nel suo tempo) l’avanguardia si configura come l’ennesimo ammutinamento per proporre l’ennesima obbedienza; e incoraggia, al contempo, il consueto rifiuto e il consueto avallo di quelle magnifiche sorti e progressive che hanno costruito, fino a quel momento storico, tutto l’edificio culturale di riferimento. Il concetto è il medesimo, per il quale la contemporaneità diviene, latamente e fatalmente, modernità, e poi, tradizione; cosicché le avanguardie non fanno che proseguire e rideclinare, adattandole allo spirito dei tempi, certe idiosincrasie anticanoniche in un sempiterno procedimento a spirale. E, oltretutto, l’ammutinamento non è, rispetto ad un qualunque avamposto, una retroguardia? Apollinaire, poeta orfico, solitario, in rapporto ai poeti che vivono in gruppo – ai poeti gregari, avrebbe detto Baudelaire – viene a rappresentare questa paradossale situazione che appare, a posteriori, l’unica possibile. L’avanguardia è (come l’uomo, secondo Foucault), un’invenzione recente nella storia d’Occidente: essa nasce allorché l’arte prende coscienza di se stessa come realtà storica e diacronica[5]: difesa o rifiuto, essa fa i conti ora con il suo divenire. La teleologia progressiva, colta oramai come coazione a ripetere estenuata ed estenuante, si duplica di un atteggiamento malinconico e retrospettivo; è questa la sostanziale differenza, e qui mi avvalgo ancora delle illuminanti riflessioni di Décaudin, tra progressismo (nella sua fattispecie positivista e rivoluzionaria) e avanguardia[6]. Di qui, presumibilmente, anche la freudiana ambivalenza nei confronti dei Padri, che induce le avanguardie a compilare, e continuamente rivedere, come ben vede F. Vasarri in un recentissimo articolo[7], liste di predecessori da proscrivere o da accogliere: una vera e propria «vertigine» nomenclatoria (secondo l’altrettanto recente opera di U. Eco)[8] inchioda i chiamati alla gloria o ad una damnatio memoriae solo in apparenza definitive, e fattualmente condannate all’effimero di un capriccioso palinsesto.
Il travagliato rapporto tra Marinetti e Apollinaire, su cui eminenti studiosi del Futurismo hanno scritto[9], e sul quale non pretendo di aggiungere alcunché, si iscrive sotto il segno di una reciprocità politico-culturale. Apollinaire, nato a Roma da madre polacca e da un ufficiale italiano che non lo riconobbe, pubblica il suo Antitradition futuriste come volantino, il 3 agosto del 1913, in francese su «Gil Blas» e in italiano, il 15 settembre dello stesso anno su «Lacerba»; Marinetti, la cui italianità è forte della sua nascita fuori dal territorio nazionale, cerca in Francia il consenso culturale, e qui nasce come artista, pubblicando il suo Manifeste du futurisme su «Le Figaro» nel 1909. Entrambi vantano, come nota De Maria, «un amore frenetico per la terra che li accoglie»[10], ovvero per la patria «putativa»: come rinnegare i Padri senza rinnegare se stessi? Il Futurismo, che nasce in un’Italia retriva, e che, pur animato dallo spirito nazionalistico che conosciamo, si costituisce come principio di rottura con la tradizione papista e legittimista, deve molto alla patria del progresso laicista; da parte sua, Apollinaire, propugnatore di quell’«esprit nouveau» che, «moteur à toutes tendances», come scrive nell’Antitradition, si vuole aperto alle molteplici sperimentazioni dell’avanguardia, non può che nutrirsi, culturalmente, di quel Mediterraneo greco-latino che Marinetti sbeffeggia; come ben vede ancora una volta M. Décaudin a proposito del Nostro, «le ‘À bas l’histoire’ dell’Antitradition futuriste est en contradiction avec sa pensée constante et, à moins d’imaginer une aberration sans lendemain, force est de chercher une explication à cette anomalie»[11]. È noto che Apollinaire aveva attaccato il movimento; da cui le teorie di alcuni critici, secondo i quali il manifesto sarebbe stato un «canular», un falso d’autore a fini parodici. Questo pensa André Salmon, che, in coda al manifesto aggiunge, con riferimento al celebre «rose» gridato ai futuristi: «Nous garderons la rose qui nous est décernée, cher poète, mon ami, en souvenir de la plus colossale bouffonnerie du siècle!»[12]. È certo che lo spirito nazionalista che animava le «retroguardie» dell’avanguardia condizionava la ricezione internazionale del Futurismo; Marinetti, che del movimento rappresentava, congiunti, i due estremi dogmatici – di conservazione e di innovazione – non firmò questo «manifeste», pur avendolo incoraggiato; egli forse lesse, in quel prefisso maligno: «anti-», una qualche insinuazione. Se quel principio di reversibilità che abitava, come un oscuro male, il Futurismo giunto all’apice del suo empito assertivo, si coglieva tra le righe dell’Antitradition apollinairiana, esso era certo preterintenzionale; Apollinaire trascende sempre, con la sua poetica essenziale, ogni interpretazione accidentale. Se a detta di alcuni, tra cui lo stesso Salmon, egli è stato più marinettiano di Marinetti[13] per certe sue arditezze sintattiche e formali (tra cui l’abolizione della punteggiatura già reclamata dal maestro) e ciò avrebbe determinato, vo[1]lens nolens, l’estenuazione e la morte del Futurismo, l’intenzione di Apollinaire appare, ben prima che parodica (ovvero mossa da una strategia «militante»), sintetica e pacificatrice. È notoria la sua diffidenza nei confronti di ogni sistema; ogni movimento (il concetto di ‘movimento’ è appunto moderno perché asistematico) che si riduca ad una ‘scuola’ dagli intenti perentori e dogmatici, nega la sua stessa vocazione: «tout ce qui, dans le Futurisme, est manifestation de groupe suscite son ironie», ricorda ancora Décaudin[14]. Così infatti Apollinaire, in una lettera a Soffici del luglio 1913, nel vivo della querelle suscitata dal manifesto cui è costretto, suo malgrado, a prender parte:
Non seulement j’ai compris le mouvement futuriste, mais je prétends être un pionnier de l’art varié, le nom de futurisme ne fait rien à l’affaire. […] Marinetti le sait et c’est pour cela que je tente cette synthèse de tous les efforts artistiques nouveaux mais vous Italiens, ne soyez pas injustes envers les Français car ils ont inventé presque tout le modernisme intellectuel.[15]
È dunque, ben più che il singolo poeta, la Francia stessa a proporsi come paradigma di un’arte sintetica: essa raccoglie e catalizza – come Apollinaire sottolinea in una nota conferenza pubblicata sulla «Phalange nouvelle» (rivista, questa, dalla chiara etichetta belligerante) tutte le esperienze moderniste; per questo la Francia appare come il solo terreno naturale in cui possa e debba impiantarsi quell’«esprit nouveau» di cui egli si farà promotore nell’omonima conferenza del 1917.
Di recente ho notato in un mio scritto[16] come le avanguardie siano caratterizzate, più che da una dialettica tra gli opposti, da una coesistenza degli eterogenei; coesistenza che mantiene in vita l’identità solo attraverso un «rincaro» ideologico, ossia, una differenza esibita come principio dogmatico e, insieme, iniziatico, segnato da proclami rigoristi di belligeranza e antitradizione. Ed è, come tentiamo di mostrare, contro questi rigorismi inclini al totalitarismo carismatico che si pone l’eclettico Apollinaire, in nome di un ecumenismo laico e pluralista. Merita allora chiedersi, a proposito dell’Antitradition futuriste, che cosa doveva intendersi per «manifeste-synthèse», secondo quanto recita il sottotitolo. Vi è, certo, una ragione formale, di ascendenza simbolista, sulla quale non possiamo qui soffermarci; diremo solo che la «tavola parolibera» che Apollinaire qui presenta, imitando i Futuristi (egli critica, tra l’altro, in una nota delle «Soirées de Paris» dal titolo «Nos amis les futuristes» le parole in libertà)[17] ha in Francia (a partire da Mallarmé) una consolidata tradizione mutuata dalla musica: l’emancipazione di quest’arte dal modello discorsivo aveva da tempo messo in crisi il principio di sequenzialità. Insomma, quello che ai Futuristi appare come un macrosegno di «rottura» tale non è da una prospettiva d’oltralpe; è, semmai, un epifenomeno. Così Apollinaire si pone preterintenzionalmente, limitandosi a sposare quella prospettiva, tra tradizione e antitradizione, tra mimesi e parodia; non diversamente farà con i più celebri Calligrammes che debitori (come il suo stesso nome, insieme anagrafico e artistico, di Apollinaris/Apollinaire), della tradizione carolingia (lo ha ricordato di recente M. Richter)[18], non minano il principio di leggibilità ma affermano semmai, in accordo con quella stessa tradizione, il principio di mimetismo globale del testo. L’intenzione che lo anima è dunque, come sembra, ricercare non solo un ordine nel tempo (una tradizione), ma anche un ordine nello spazio (una situazione). Se la «simultanéité» è, come scrive Décaudin, «un acte de possession du temps» da parte delle avanguardie che la praticano, per Apollinaire essa «tend à être une abolition du temps, une juxtaposition du passé (ou de l’avenir) ou du présent». Di qui, crediamo, il celebre verso di Cendrars, citato nel titolo di questo scritto: «Apollinaire/avance, retarde, s’arrête parfois»[19].
Tali ragioni sostanziali, che riflettono il travagliato rapporto del poeta con la sua paternità, biologica e, per estensione, culturale, trascendono, si diceva, e solo momentaneamente incontrano, le accidentali rivendicazioni di poetica sue contemporanee, e conferiscono ad ogni suo tentativo di identificarvisi, ossia, ad ogni «presente», un senso di ineluttabile prospezione o retrospezione. Nell’incapacità di essere «contemporaneo» al suo presente, Apollinaire è sempre più futurista dei futuristi, più passatista dei poeti carolingi. Questa sfasatura, che contamina a diversi gradi ogni sua presa di parola e ogni suo atto di scrittura, si coglie anche in quel libello apparentemente anodino che, almeno nella sua prima intenzione, ricalca una dichiarazione di poetica oramai già «manifesta». L’antitradition futuriste è subito segnato dall’ambiguità del titolo di cui si diceva: intanto, quei due affissi che qualificano in modo così esplicito, per parasintesi, le rivendicazioni stesse delle avanguardie: anti-; -iste, sembrano essere lì per irridere chi esibisce, con folklorico candore, gli aspetti più vistosi di una ideologia; in seconda istanza, la formula del titolo dà adito a una qualche duplicità; in rapporto al determinante: «futuriste», il sostantivo «antitradition» si intende, certo, alla lettera come determinato, ma può, allusivamente porsi in antitesi alla contestazione proclamata dal movimento: un’opposizione all’opposizione. Pur nella «presunzione di ambiguità»[20] che il titolo suscita, facendo insinuare, dietro alla fedeltà mimetica e letterale, una deformazione caricaturale (una «figura», sia essa ironia o negazione), non è lecito parlare propriamente di parodia. In primo luogo, se la parodia presuppone, attraverso la sconfessione dell’auctoritas, un sentimento di superiorità da parte degli epigoni, questo sentimento non appartiene al Nostro che, di epigonale ha piuttosto, come accennato, una certa nostalgia di paternità (biologica e culturale), e il desiderio di essere accolto nell’alveo della stessa. In secondo luogo la rielaborazione parodica sarebbe, da un punto di vista strettamente testuale, impossibile da determinare, in assenza di un codice di riferimento (è questa, d’altronde, una marca che si potrebbe estendere all’intero fenomeno delle avanguardie, la cui intenzionalità oscilla sempre tra intento ludico e intento serio, tra macrofigura parodica ed autoaffermazione ideologica). Se i mostri sono, come diceva Baudelaire in De l’essence du rire, cose «pleines de sérieux»[21], malgrado il ricorrente tentativo della storia di ridurli a fenomeno da circo, potremmo forse considerare l’Antitradition come una bonaria paradossografia degli intenti futuristi, secondo la tradizione antica cara ad Apollinaire (tra cui figura, tra l’altro, certo Apollonio). Poiché ad oggi i dati extratestuali (corrispondenza, testimonianze, etc.), pur ricchi e abbondantemente interpretati, non hanno consentito di risolvere la questione dell’intenzionalità di questo manifesto, ci limiteremo a menzionare qualche elemento testuale a possibile sostegno di questa ipotesi. Prima della parte programmatica del manifesto, («Destruction» /«Construction») si espongono, in una sorta di ‘prologo’, gli intenti generali; e lo si fa attraverso un procedimento mutuato dal gergo militare allora in voga, il «Pof» (acronimo di «Parti Ouvrier Français»). Si tratta di una crittografia basata sull’uso di «vocables acrostiches», quali Apollinaire la definisce in La vie anecdotique. Il linguaggio militare e tecnocratico si avvale tanto degli acronimi quanto degli acrostici; se i primi rispondono a quel principio economico dell’azione bellica già evocato da Baudelaire, ossia conseguire con il minimo sforzo la massima efficacia, essi hanno anche, accanto gli acrostici, la funzione di trasmettere messaggi in codice. Come tali essi contaminano, come si diceva, il linguaggio modernista e macchinista, governato da quella logica binaria ed elementare che caratterizza le avanguardie. L’uso letterario dell’acrostico, con la sua apparente gratuità estetica, produce effetti secondari di provocazione ideologica; ed a maggior ragione se esso è, come nell’Antitradition, facilmente decodificabile, a prescindere dal fittizio ausilio metagrafico (l’alternanza maiuscolo/minuscolo) fornito dal suo stesso autore: «ABAS LEPominir Aliminé SSkorsusu/otalo EIScramir MEnigme»[22]. Nel secondo capitolo di un «conte retrouvé» dal titolo L’arc-en-ciel Apollinaire illustra il procedimento, già praticato dai Futuristi, definendolo, con palese ironia (ovvero tra virgolette), un gioco «intellettuale», e lo esemplifica attraverso il nome di Marinetti:
On choisit un nom propre, et, prenant les lettres qui les composent pour les initiales d’autant de mots qu’il y a de lettres dans le nom, chaque joueur compose une phrase amusante formant la dénomination d’une société bizarre ou d’une école poétique nouvelle. […] Les abréviations étant à la mode, on a pensé qu’elles pourraient servir à l’amusement. C’est ainsi qu’avec le nom de MARINETTI, on fait: Manutention astrale reconnue italienne nonobstant explications très très imbéciles.
À moins qu’on ne préfère lire:
Manifestation américaine, roumaine, ibérique, norvégienne, égyptienne, touranienne, turque, italienne. «Je prends – si giustifica Apollinaire – le nom de Marinetti comme un autre, et n’ai nullement l’intention de déplaire à ce poète galant homme»[23].
Ma vediamo come questi due acrostici, affatto anodini, propongano, in un altrettanto fittizio aut/aut, una invettiva diretta ed una invettiva parodica (volutamente mal celata da una bassa trasfigurazione) del capo del Futurismo, con allusione al suo risibile nazionalismo. Per tornare all’Antitradition cogliamo, nell’ordine, altri indizi di eterodossia: alla già citata dichiarazione di eclettismo («moteur à toutes tendances») segue un’enumerazione di tutte le tendenze apprezzate dai futuristi; ma almeno un elemento eteroclito, dichiaratamente passatista («impressionnisme») è sufficiente a far saltare l’intera omologia. Elementi di «rincaro» (nel senso in cui lo utilizza il Curtius)[24] sollevano ulteriori sospetti: all’iperbole scatologica dell’invettiva rivolta ai «passéistes», «Merde», che si richiama al padre patafisico Alfred Jarry, si contrappone la «rose» ch’egli lancia ai futuristi: un omaggio che ha ben poco a che vedere col mito modernista della macchina, e molto, invece, con la tradizione floreale, aulica e aulente, dei passatisti. Ci troveremmo così, a dispetto della logica binaria del militante di cui si parlava, di fronte a quell’«antilogica dell’inconscio» di cui, con Matte Blanco, parla Orlando: ovvero, ad una «reversibilità simmetrica» in cui ogni relazione è trattata come identica alla relazione inversa[25]. Tale atteggiamento rivelerebbe, come nei motti di spirito studiati da Freud, quella tendenza, continuamente censurata, al piacere ludico-regressivo verso l’ideologia superata che, sul piano letterale, si aggredisce; talché il riso che si provoca apparentemente con il «rincaro» denota, in concomitanza con la faticosa costruzione ideologica di una contro-tradizione, l’abbandono regressivo «a un pensiero arcaico, più ingenuo, meno costoso»[26]. E non è un caso che Baudelaire si riferisse, parlando del grottesco come di una cosa seria, a Pan, divinità cara al poeta «mal-aimé». Ogni velleità dialettica, per un momento rintracciabile, riannega infatti in quella vocazione istrionica, panistica e insieme malinconica che caratterizza il genio di Apollinaire; egli è, come ben scrive Margoni, «un grande attore che rianima […] il copione della Poesia»[27]. Né di tesi né di antitesi allora si tratta ma, semmai, come si accennava, e in accordo col sottotitolo programmatico del manifesto, di «sintesi». L’intento che anima il poeta è quello di costruire nella patria adottiva, col nome di «Futurismo», un grande movimento d’avanguardia internazionale caratterizzato dalla coesistenza pacifica di disparate esperienze: «art varié», «mouvement artistique moderne», «modernisme intellectuel» sono tutte formule riconducibili, come ben vede De Maria[28], ad una fucina artistica cui si pretende di attribuire, a posteriori, univocità teorica. E dunque, si potrà leggere il manifesto, da un lato, come una critica velata all’ortodossia futurista; dall’altro, come un’adesione al Futurismo stesso, che si vuole intendere, contro certo pedantismo marinettiano, come sinonimo di modernismo e di una «tendance créatrice» che si manifesta al di fuori di ogni querelle dottrinale. Quel che Apollinaire scrive nelle «Soirées de Paris» del dicembre 1913 viene a confortare questa ipotesi; a proposito del suo manifesto, egli specifica che esso
n’était pas spécialement futuriste, exaltant différentes tentatives nouvelles et, en le publiant, les futuristes ont simplement montré qu’ils tenaient à n’être pas mis à l’écart de l’effort général de modernité qui s’est manifesté dans le monde entier, mais plus particulièrement en France[29].
Se Apollinaire mostrava di voler già annettere il futurismo a quel felice laboratorio artistico che avrebbe definito «esprit nouveau» e, contestualmente collocarlo sotto la storica ègida della Francia madre delle arti, Marinetti e Boccioni, come ricorda ancora De Maria[30], si opposero, per ragioni ideologiche, al «congiungimento delle due avanguardie»; essi avvertivano che, a differenza della Francia che li inglobava nell’indifferenza dei molti, essi erano i soli, in Italia, a difendere il nuovo contro il vecchio. Così infatti Boccioni: «questo violento sforzo di rinnovamento, lo abbiamo fatto in Italia in pochi anni […]. In Francia vi hanno cooperato gli sforzi di intere generazioni!»[31]. Due diversi nazionalismi artistici si contendevano l’etichetta del futuro. L’intento era certo il medesimo: distruggere per ricostruire. Ma se questo era già stato, in Francia, l’esito della Rivoluzione, seguito dal grande disincanto napoleonico, quel che ne seguiva era solo una metafora. La grande operazione ‘igienica’ che Marinetti voleva compiere in Italia, volgendo a suo favore l’imminente evento bellico, in Apollinaire, e nelle avanguardie francesi si limitava oramai a un fatto di linguaggio. Nietzsche non era passato invano: un disincantato nominalismo si oppone a un radicale velleitarismo. Così Apollinaire, che negli anni successivi continuò a rimuginare intorno a quelle sue antiche intenzioni, scrisse in una lettera ad André Billy pochi mesi prima della morte, avvenuta, come è noto, in seguito a una ferita di guerra:
En ce qui concerne le reproche d’être un destructeur, je le repousse formellement, car je n’ai jamais détruit, mais au contraire essayé de construire. Le vers classique était battu en brèche avant moi qui m’en suis souvent servi. […] Dans les arts, je n’ai rien détruit non plus, tentant de faire vivre les écoles nouvelles, mais non au détriment des écoles passées. Je n’ai combattu ni le symbolisme, ni l’impressionnisme. […] Le Merde en musique de mon manifeste-synthèse publié par les futuristes ne s’appliquait pas à l’œuvre des anciens, mais à leur nom opposé comme barrière aux nouvelles générations […] Dieu m’est témoin que j’ai voulu seulement ajouter de nouveaux domaines aux arts et aux lettres en général, sans méconnaître aucunement les mérites des chefs-d’œuvres véritables du passé ou du présent.[32]
Ed è dunque, in definitiva, quella stessa da lui fornita la chiave di lettura del manifesto: costruire un grande presente, sintesi spaziale e temporale del passato e del futuro. Ed a fronte del rigore settario e gregario che preservava l’identità ideologica dei rispettivi gruppi, Apollinaire, poeta ecumenico – poeta orfico, poeta assassinato, poeta candido, poeta male amato – restò solo a rendere conto, come un segno dei tempi, della impasse delle avanguardie: mentre altri faticavano ad erigere baluardi per accaparrarsi l’etichetta del futuro, egli si faceva strada per scorgere meglio il suo passato. A mezzo delle sequele onomastiche di artisti e movimenti egli voleva allora, a differenza dei Futuristi (e poi dei Surrealisti) soltanto sgomberare lo spazio creativo dai «nomi» ingombranti della storia, affinché le loro opere, finalmente esautorate, potessero liberamente circolare, accolte e rivivificate dalle loro riscritture, in un inesauribile palinsesto creativo. E ci avvaliamo allora, per concludere, delle illuminanti categorie che F. Orlando formula nel suo Illuminismo, Barocco e retorica freudiana per leggere, nell’atteggiamento delle avanguardie, il riproporsi di un noto fenomeno: il «complesso degli epigoni»[33]. La volontà di «uccidere i padri», già enumerati indirettamente nelle «pedantesche filze» di citazioni di cui parla il critico a proposito di Pascal[34], rivive in quelle «filze» onomastiche cui si alludeva sopra: e rivive parimenti, mutatis mutandis, nel «modernismo barocco» del primo Novecento, segnato da un «delirio orgoglioso d’innovazione»[35], quell’«atto edipico» compiuto da «figli diseredati e cupidi»[36] che già si era manifestato con l’illuminismo pre-rivoluzionario. L’avanguardia storica ripresenta, insomma, quella «formazione di compromesso»[37] che sempre si impone con violenza al momento in cui una generazione soppianta la precedente e, contestualmente, rende conto di un «ritorno del rimosso» collettivo che si caratterizza, come nel barocco, per una indulgenza occulta verso il passato, in una curiosa commistione tra innovazione letteraria e regressione ideologica. Il rischio di gratuità e di perdita di senso è allora rincarata dall’antonomasia ostentata[38], che minaccia e insieme stimola. Se, nella formazione di compromesso dei Futuristi dimora una «cattiva coscienza», mossa da un «sottinteso critico»[39], per Apollinaire potremmo parlare, con Orlando, di un vero e proprio «ritorno del superato». A lui ben si confà, per certi aspetti, quell’«antilogica dell’inconscio» propria del paranoico cui sopra si accennava, tale che «una varietà in sé di forme è rappresentabile come pluralità di contraddizioni di una proposizione unica»[40]: «Io/Non io > critico/non critico > la tradizione /non la tradizione»[41]. Si tratta, prosegue Orlando, di un «gioco simmetrico fine a se stesso» che si potenzia «delle credenze, dei precetti, dei discorsi arretrati e antiquati che permette di mimare»[42]. Apollinaire, che sa di dover venire a compromessi con quell’avanguardia già in sé un po’ caricaturale, oscilla tra eccesso e precauzione, tra critica della tradizione, e critica dell’anti-tradizione, intendendo per l’una e per l’altra, contestualmente, il Futurismo stesso: non era forse oramai quella la nuova cultura che la precedente veniva soppiantando? E chissà che Apollinaire non abbia visto per un momento, in Marinetti, l’immagine di quel padre italiano che, occupato a costruire il suo avvenire, non ebbe a riconoscere, tra i suoi figli, un innocente.
NOTE
[1] Si veda, a questo proposito, F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi [1982], 1997, p. 88, cui ci si richiamerà a più riprese in questo scritto. [2] Ch. Baudelaire, Mon cœur mis à nu, in Œuvres complètes, I, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1976, pp. 690-691. [3] Id., «Le militaire», in Le peintre de la vie moderne, cit., II, pp. 707-709. [4] M. Décaudin, De la difficulté d’être d’avant-garde, in Apollinaire e l’avanguardia, «Quaderni del Novecento Francese 1» diretti da P.A Jannini e S. Zoppi, Roma-Paris, Bulzoni-Nizet, 1984, p. 59. [5] M. Décaudin, De la difficulté d’être d’avant-garde, in Apollinaire e l’avanguardia, cit., p. 61. [6] Ibid. [7] F. Vasarri, I surrealisti e la ricerca degli antenati, in Tradizione e contestazione IV. Canone, anticanone e avanguardie, a cura di G. Angeli, Firenze, Alinea, 2009, pp. 113 sgg. [8] U. Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009. [9] Si vedano, tra gli altri: P. A. Jannini, La fortuna di Apollinaire in Italia, Milano, Ist. Ed. Cisalpino, 1959; Id., Le avanguardie letterarie nell’idea critica di Guillaume Apollinaire, Roma, Bulzoni, 1971; G. Lista, Futurisme, Lausanne, L’Âge d’homme, 1973. [10] L. De Maria, «Esprit nouveau» e modernolatria futurista, in Apollinaire e l’avanguardia, cit., p. 41. [11] M. Décaudin, De la difficulté d’être d’avant-garde, cit., p. 65. [12] G. Lista, Futurisme, cit., p. 125. [13] «Le futurisme a vécu! C’est M. Guillaume Apollinaire […] qui lui a porté le coup fatal […] Il fallait trouver ceci: être plus futuriste que Marinetti! M. Guillaume Apollinaire y a réussi, pour notre joie». Ibid. [14] M. Décaudin, De la difficulté d’être d’avant-garde, cit., p. 64. [15] G. Apollinaire, lettera a A. Soffici del 23 luglio 1913, in Guillaume Apollinaire/1, Corrispondenza con Marinetti, Soffici, Boccioni, Severini et a., «Quaderni del Novecento Francese», 13, a cura di S. Zoppi e L. Bonato, Roma, Bulzoni, 1992, p. 70. [16] M. Landi, Processo intellettuale del surrealismo: l’antitradizione rigorista di Caillois, in Tradizione e contestazione IV. Canone, anticanone e avanguardie, cit., pp. 131 sgg. [17] M. Décaudin, De la difficulté d’être d’avant-garde, cit., p. 66. [18] M. Richter, Apollinaire, difensore dell’ordine nell’avventura, in Tradizione e contestazione IV. Canone, anticanone e avanguardie, cit., pp. 77 sgg [19] B. Cendrars, Hamac, in Dix-neuf poèmes élastiques. Poésies complètes, Paris, Denoël, 1944, p. 114. [20] Ci riferiamo ancora ad un’espressione di F. Orlando, in Illuminismo, barocco e retorica freudiana, cit., p. 139, passim. [21] Ch. Baudelaire, De l’essence du rire, in Œuvres complètes, II, cit., p. 533. [22] Per la versione francese del manifesto si veda P. A. Jannini, Le avanguardie letterarie nell’idea critica di G. Apollinaire, cit., pp. 145-147; per la versione italiana (parziale): Id., La fortuna di Apollinaire in Italia, cit., pp. 32-33. [23] G. Apollinaire, Œuvres en prose, II, Paris, Gallimard, La Pléiade, pp. 547-548. L’intenzione viene colta da A. Billy, il quale, per tutta risposta propone un pof col nome di Apollinaire: «Garçon Ubiquiste Idiotifiant Le Lecteur Avec Un Machiavélisme Extraordinaire, Assez Peu Ogscène, Lisant l’Italien, N’Ayant Inventé Rien Encore». Ivi, p. 1407. [24] «Spesso, per ‘magnificare’ una persona o una cosa, viene asserito che essa ha maggior valore di tutte le altre persone o cose consimili e viene adoperata, in tal caso, una particolare forma di paragone che potremmo definire del ‘sopravanzamento’ [Überbietung]: viene cioè affermata, di fronte ad esempi famosi scelti dal patrimonio tradizionale, la superiorità, anzi l’unicità della persona o cosa che si vuole lodare». E.R. Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, Firenze, La Nuova Italia, [1992], 2000, pp. 182-183. [25] F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, cit., p. 115, passim. [26] Ivi, p. 136. [27] I. Margoni, ‘Pastiche’, maniera, avanguardia (su un aspetto della creazione poetica in Apollinaire), in Apollinaire e l’avanguardia, cit., p. 86. [28] L. De Maria, Esprit nouveau e modernolatria futurista, in Apollinaire e l’avanguardia, cit., p. 48. [29] Ivi, pp. 51-52. [30] Ivi, p. 50. [31] Ivi, p. 55. [32] G. Apollinaire, lettera ad A. Billy, in Œuvres complètes, IV, cit., p.778. Si veda anche P.A. Jannini, Le avanguardie letterarie nell’idea critica di G. Apollinaire, cit., p. 218. [33] Tale complesso è caratterizzato, secondo Orlando, dal fatto che «tutto sia già stato detto, rovesciata nella presunzione che tutto possa essere ridetto in forma inaudita e sorprendente». F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, cit., p.76. [34] Ivi, p. 190. [35] Ibid. [36] Ivi, p. 76. [37] Ivi, p. 167, passim. [38] Ivi, p. 7. [39] Ivi, p. 170. [40] Ivi, p. 168. [41] Ivi, p. 171. [42] Ivi, p. 137. ¬ top of page |
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