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STANLEY MOSS, Songs of Imperfection, London, Anvil Press Poetry 2004, pp. 93, £7.95.

La fervida fucina della poesia statunitense contemporanea offre spesso belle sorprese per i lettori italiani abituati ad associarla solo a quei pochi nomi disponibili sugli scaffali delle librerie e al tuttora popolare, benché datato e esausto, fenomeno beat. Questo è il caso della poesia di Stanley Moss, classe 1925, autore di cinque volumi di versi pubblicati nell’arco di quarant’anni, l’ultimo dei quali, A History of Color (Seven Stories Press, New York 2003), raccoglie un’ampia scelta della sua opera e un buon numero di testi inediti. Quest’ultimi costi tuiscono il nucleo centrale di Songs of Imperfection, la più recente edizione britannica della sua poesia.
Di professione mercante d’arte di fama internazionale, Moss ha con l’Italia un rapporto lungo e personalissimo fin da quando vi era soldato nella seconda guerra mondiale e, poi, redattore di Botteghe Oscure nella Roma degli anni Cinquanta. Nell’arte rinascimentale italiana ha trovato spesso la materia prima per i suoi versi che speculano sulla storia politica e spirituale dell’individuo e delle grandi civiltà intrecciando mitologia, letteratura, fatti personali e d’attualità (il matrimonio del figlio, una malattia, l’attentato dell’11 settembre, la guerra in Iraq, il conflitto ebreo palestinese, gli amici poeti e gli autori che pubblica la sua casa editrice non-profit, Sheep Meadow Press) per discorrere della natura umana e delle sue imperfezioni, dell’eterno conflitto fra vita e morte. «What is heaven but the history of color, / dyes washed out of laundry, cloth and cloud, / Mystical rouge, lipstick, eye shadows!», risuona la sua voce in incipit a A History of Color, la poesia che apre ambedue i volumi, un inno al colore come traccia mutevole della vita umana e antidoto alla morte. «Harlot nature», invocano i versi seguenti, «explain the color of tongue, lips, nipples [...] explain why Christian gold and blue tempt the kneeling, / why Moslen green is miracolous in the desert, / why the personification of the rainbow is Iris, / the mother of Eros, why Adam in Hebrew / comes out the redness of heart...». Nel caleidoscopio di Moss i colori che s’impongono descrivono il continuo affermarsi della vita nel ciclo eterno di estinzione e rinascita. Contro la morte, si legge, hanno innalzato lo scudo lavandaie e filosofi per fissare colori che sostituissero l’impermanente sostanza del corpo: il porpora dei Fenici, colore dell’anima per Virgilio, il rosso della terracotta e il bianco del marmo dell’impero romano, il giallo della pietra greca, lo zaffiro e l’onice di Bisanzio, l’argentea presenza di Cristo, e così via, fino a includere il bianco, il verde e il rosa del campanile di Giotto quale promessa di Paradiso, i colori di Tiziano, di Leonardo, di Turner e Mark Rothko Ma questa variegata asserzione di vita nasce dalle ceneri di distruzioni e sacrifici – quello dei molluschi da cui i Fenici estraevano la porpora, delle piante e degli insetti usati per le tinte, dei vinti sui campi di battaglia dove sventolano i colori degli stendardi degli eserciti vittoriosi. Nella lotta fra il colore e la sua assenza, la morte, «tourist with too much lagguage», trionfa, compiaciuta nel vedere massacri umani che nemmeno la grande sterminatrice sa immaginare. Le poesie di Moss sono perciò ‘canti d’imperfezione’ i quali, nel celebrare la vita, prendono atto del suo principio, che è un continuo alternarsi di forme e mutamenti. La metamorfosi è infatti la cifra della sua scrittura: i colori si tramutano nelle tinte splendenti dei dipinti dei grandi maestri dell’arte o nelle iconografie religiose, i padri vivono mutati nei figli, la violenza si trasforma in bellezza, e l’io narrante assume molteplici vesti, muovendosi nello spazio e nel tempo per costruire una rete di corrispondenze fra destini simili. In The Lost Brother un vecchio albero abbattuto è l’alter ego del poeta e l’immagine del suo futuro; altrove una parola zulu che indica dignità umana diviene il suo credo; in An American Hero, la storia degli afroamericani è illustrata da un eroe che si reincarna in vari momenti della loro epopea. In altri testi il poeta assume le sembianze di un satiro di bronzo che attraversa in quella forma mitologia, storia e religione; oppure è un satiro-poeta che invoca un eroe capace di indagare oltre le apparenze di vita e arte. Anche il dio a cui sono rivolte preghiere e salmi è multiforme: ebreo, cristiano, musulmano, oppure una divinità di sua invenzione, il «God of Walls and Ditches» che Moss invoca per proteggere una bambina cinese; oppure i «God of paper and writing, God of first and last drafts, / God of dislake, God of everyday occasions» che prega di tenerlo lontano dalla morte. Ed è un inno alla sacralità della vita a chiudere il volume, a un dio che vive in ogni cosa creata: «I’d kneel before the Egyptian insect god [...] I would pray to a blue scarab inlaid in lapis lazuli / suggestive of the heavens. / The Lord is many. I sit writing at the feet of the baboon god / counterfeit to counterfeit [...] To live I’d pray to a god with the head of a crocodile / and a man’s or woman’s body ...».

 

 A. F.


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