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JORIE GRAHAM, Overlord, New York, Ecco 2005, pp. 93, $22.95.

 Il tema della guerra ha un’illustre tradizione nella poesia statunitense e si sviluppa ininterrotto dall’età coloniale fino ad oggi - un controcanto critico alle imprese belliche americane che ha coinvolto figure maggiori di poeti, da Whitman e Melville a Jorie Graham appunto, la quale, in Overlord, affronta il rapporto fra individuo e storia ritornando con l’immaginazione allo sbarco degli Alleati in Normandia il 6 giugno del 1944. Il volume appare in un momento in cui l’attualità politica ha dato nuovo vigore alla poesia di guerra e, forse, nuova speranza a chi la scrive e a chi la pubblica che possa avere un ruolo civile e didattico come memoria e monito. O possa almeno essere una risposta alla necessità individuale di agire e creare un punto d’aggregazione contro la retorica del pretesto umanitario come casus belli. La risonanza avuta dall’inizia tiva Poetry Against the War promossa da alcuni poeti americani all’inizio del conflitto iracheno come forma non-violenta di dissenso ne è una prova, come lo sono le numerose antologie sul tema uscite in USA negli ultime due o tre anni. Ce n’è per tutti i gusti in quella ventina di volumi che appaiono interrogando amazon.com: compilazioni cronologiche della poesia di guerra americana come Old Glory: Ame rican War Poems from the Revolutionary War to the War on Terrorism (a cura di Robert Hedin, 2004), Poetry and the War (a cura del poeta J. Koethe, 2004) e American War Poetry (a cura di Lorrie Goldensohn, 2006) e raccolte che trattano di guerre specifiche. Quella civile ha avuto una rinnovata attenzione con l’antologia curata dal poeta J.D. McClatchy sui Poets of the Civil War (2005) e ‘Words for the Hour’: A New Anthology of American Civil War Poetry (a cura di Faith Barrett e Cristanne Miller, 2005). Non mancano neanche nuove compilazioni sui due conflitti mondiali (Coming Out of War: Poetry, Grieving, and the Culture of the World Wars, a cura di Janis P. Stout, 2005), su quello in Vietnam, sulla guerra fredda e sulla guerra del Golfo. Un tale profluvio di letteratura e il quotidiano bombardamento mediatico sul tema rende ancora più delicata una trattazione poetica originale dell’argomento imponendo al poeta di alzare la posta. Questo è quanto fa Graham in Overlord, il nono libro di una scrittrice da sempre impegnata a dare alla poesia una risonanza oltre il fatto letterario.
Il titolo riprende il nome in codice del D-Day, Operation Overlord, che includeva lo sbarco d’una divisione americana sulla spiaggia di Omaha dove oltre 3000 soldati persero la vita. Graham rilegge l’evento creando una rete di connessioni che, pur partendo da quell’episodio, portano a esplorare anche altre forme di autodistruzione esponendo il senso di impotenza e spaesamento dell’autobiografica narratrice. La quale procede lasciando fluire nella sua mente, e sulla pagina, un’enorme quantità di tematiche, immagini e concetti– un fiume gonfio di situazioni e suggestioni che il suo lungo monologo mette in evidenza come sotto una lente d’ingrandimento. La presa di coscienza della progressiva disintegrazione della realtà e delle identità individuali viene spesso esplicitata nell’immagine del risveglio, del ritorno alla percezione di se stessa, come accade in Dawn Day One dove è un colpo di fucile a scuoterla: «A gunshot. The second, but the first I heard. / The walls of the room, streacked with first light, shot / into place. / Then, only then, did my eyes open. We come about first, into awaking, as an us...». L’altro lato della medaglia è la scelta di non svegliarsi e non essere «altogether here» (si legge nella poesia d’apertura), vivere a intermittenza, ritrarsi dal proprio corpo, optare per l’assenza. In queste 25 poesie Graham lotta per rimanere presente, per costruire un percorso che la salvi da nichilismo e inerzia: «...there is an edifice / you can build, lev el upon level, from first principles, / using axioms, using logic. Finally you have a house / which houses you». La voce perentoria di questi testi è la stessa dei suoi precedenti volumi – quella di una figura onnipresente che appare e scompare dietro situazioni e personaggi, attrae il lettore nella sua dimensione, lo porta a rimuginare su concetti e termini, lo coinvolge nella costruzione dei versi trascinandolo lungo le mille strade che la sua mente imbocca in un dirompente monologo ricco di riflessioni e sfide, come nel finale di Down Day One: «I’m actually staring up at / you, you know, right here, right from the pool of this page. / Don’t worry where else I am, I am here. Don’t / worry if I’m still alive, you are». In Copy, una poesia che prende spunto dalla condanna a lapidazione della nigeriana Amina Lawal, Graham vincola l’ anonimo interlocutore al suo ragionare: «Reader, listen to me. I know I am being cornered. / I hear the ironic tone I’m not dumb [...] To the question ‘Why is there something rather than / nothing,’ I still have no reply. I remember forget remember. I imagine I can posit / infinitude than it all collapses, poof, and there’s just me and you, then of / course / just me, then nothing but the writing. This is a poem about wanting to survive. / It must clearly try anything».
Il richiamo alla compartecipazione è costante, un’urgenza a vedere, oltre l’apparente normalità, la storia che un luogo o una persona si porta dietro. Sempre in Copy, Graham azzarda una terminologia vieta («We have to remember that we are human. Something / said / that. It is in me, that / something. But see how I now / want/ to place it in you. Human...»), e cerca di riscattare il significato del termine umano isolandolo, dandogli evidenza sulla pagina, quasi celebrasse un rito. Tutto il libro, mi pare, è un tentativo di ricostruire un’identità contemporanea attraverso il recupero di legami storici e elementi linguistici divenuti logori. Quanto allo sbarco degli Alleati, Graham recupera i volti e le voci dei soldati oltre la spiaggia turistica della Normandia, e dà loro la parola in Spoken from the Hedgerows (1), ad esempio, un testo in cui i morti di Omaha si presentano uno ad uno per rendere te stimonianza: «I was Floyd West (1st Division) I was born in Portia Arkansas Febr 6 / 1919 We went through Reykjavik Ice land through the North Atlantic through the / wolf packs / / That was 1942 I was Don Whitsitt I flew a B-26 medium bomb er / Number 131657 called the Mississipi Mudcut I was a member of...». Materiale d’archivio, come puntualizzano le note, viene incorporato in questi testi corali al centro del volume – una tecnica che Graham usa anche per altre poesie inserendo messaggi e-mail, citazioni letterarie, conversazioni, voci. Una serie di poesie intitolate Praying corre attraverso il libro: qui Graham ora si cala nella mente dei soldati del 1943 per restituirne paure e sentimenti, ora implora un dio in cui non crede di salvare l’umanità: «Please don’t let us destroy / Your world. No the world. I know I know nothing. I know I / can’t use you like this. It feels better if I’m on / my knees, if my eyes are pressed shut so I can see / the other things, the tinest ones. Which can still escape / us. Am I human. Please show me mercy. No please show / a way».
Graham si è esercitata sul silenzio, su gli stacchi fra parola e parola, e la sua scrittura ha un ritmo prosastico e lirico alternativamente, dove soprattutto conta la pausa, che separa i movimenti del pensiero riprodotti sulla pagina. Nell’ultimo testo, Posterity, l’onda delle parole si frena, la voce, stanca del suo ruminare, («I have talked too much. Have hurried. Have tried to cover the fear / with curiosity...») si volge verso l’esterno per incontrare l’immagine di un barbone che vive per strada, l’immagine della disintegrazione del mondo che la sua poesia ha cercato di contrastare. Il libro può certo lasciare perplessi per quella lingua fatta di termini isolati, flussi di parole, citazioni, silenzi, che passa dalla prosa alla lirica, riprende la lingua parlata e quella attualissima del computer. Ma certo si tratta di un libro appagante. Rileggerlo lo è ancora di più perché si chiariscono movimenti e percorsi, e si comprende anche l’altro significato del titolo. Chi è l’Overlord, il signore sovrano? l’individuo o le sue azioni degenera te in incontrollabili forze esterne?

Antonella Francini


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