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ELOY SANTOS, donde nadie dice, Presentación de Luis Sepúlveda, Gijón, Literastur 2003, I Premio Alonso de Er cilla, pp. 54, €10,00.
 
Eloy Santos è al suo primo libro, vincitore del premio internazionale di poesia di Gijón. Nato a Salamanca, ha vissuto a lungo fuori di Spagna come Juan Vicente Piqueras, dedicatario della bellissima oda al caracol, con il quale ci sono affinità di temi e di sentire (il tempo stagnante, Roma come luogo di esilio, lo sradicamento che il mare significa, il mondo apparentemente piccolo della carta da scrivere che si rivela sterminato, la solitudine) entro un’espressione e uno stile completamente diversi. Il legame parte infatti dal dato biografico: Sepúlveda parla di una poesia che ha «perduto il suo lare» e accoglie il proprio europeismo affrontando l’incertezza oggettiva e i sentimenti contradditori che suscita. Esodo e cosmopolitismo s’incontrano di nuovo in letteratura. Il problema dell’identità culturale e del luogo di appartenza è il nucleo sviluppato con grande originalità in questa poesia, di cui è immagine il «caracol» (la chiocciola) che si affaccia cauto e timoroso a un mondo ostile dalla sua casa divenuta fragile veliero. La figura di Ulisse, cui alludono titolo e seconda epigrafe, corretta da quella del Crusoe di Valéry nella prima, è emblema di quest’odissea estranea all’altisonanza del mito: il celebre stratagemma nominale dell’eroe è assunto nella verità più inerme e umana, maestro il Vallejo de Los heraldos negros: questo nessuno con la minuscola è privato di ogni speranza di ritorno perché la vita non ha salpato e scorre alla deriva sul fiume di un altro parallelo (volver), attende piuttosto la salvezza. La pazienza è il suo carattere; il volto è quello del «niño arcano» latente nell’adulto come parte del presente e futuro che sono una pagina abbozzata fuori luogo: «estos cuadernos vagabundos narran / las playas que tardé en hablar la lengua / fértil del desconsuelo». Non parlerei di anonimato per l’identità dimessa, quanto di radicale solidarietà con il dolore, i «golpes en la vida» di cui parla Vallejo, e le sconfitte che la parola ha patito nel nostro tempo di barbarie, assunti consapevolmente in questa poesia. Non c’è mare per viaggio, impresa o avventura perché la riva è quella del tempo di silenzio e della terra desolata di un Lazzaro che nessuno chiama; le parole lì sono ferocia cieca che divora, incoercibili a esprimere un appello (si vedano la espera; botella sin mensaje; reloj de ocaso).
 nadie, poesia di apertura, propone un ossimoro di fondo che racchiude una storia della parola del sec. XXI: «nadie se oculta tras el nombre esquivo. / nadie espera respuestas. / nadie os habla»; l’enunciato duplice, letto con il senso corrente o dando al soggetto indefinito la funzione di nome proprio, si rispecchia nella poesia finale, alguien dice: «por decir, digo también que es poesía / la rítmica vigilia de las manos ciegas / y que el alba prefiere a los que callan, / los que aman sin decir, / pero no sé quién dice lo que digo». La negazione è strutturante e conclusiva, ma nell’obliquità del ‘nessuno’ che mette in relazione presente e assente, si può leggere anche il messaggio di una parola muta che pretende da chi l’alberga di farsi voce (la penumbra desde un sillón; vigía) e il penare del pensiero per trarre alla riva del giorno i frammenti di un sogno: «a veces el mistral trae voz y pájaros / de tierra firme que no veo. antes / de que se pierdan los imito aquí, / y en el perfil que implora su existencia / la noche me parece menos ardua, / y el corazón se finge faro, orfeo, / pulsa cuerdas de un arpa submarina / con mis dedos de luz hasta mañana» (esperando la ola). Poesia anche del virtuale, che sente il peso della dissolvenza e del mai attuabile, l’esilio dell’irrelato: in fondo il paradosso della condizione contemporanea in cui la velocità del tempo reale contrasta e convive con la lentezza del pensare, invece, l’esistenza. Per il resto l’ironia ha spine che non lasciano scampo alla bugia pietosa del «miracolo»: il naufragio o fallimento è sempre in atto e gli «arenati» che disertano la vita dediti invano a scrivere non chiedono tregua (aguas de bajura; aquí) perché tutto è già perduto (si ricordi lo splendido romanzo La tregua di Benedetti). Assurde allora anche la resistenza alle turbolenze e l’attesa sterile e ostinata? Se non fosse che questa è la «voce», fatta di un silenzio che cela continenti incompiuti e pagine vietate (de este lado), e questa è la «vita», una «selva innocente» in cui il male del dolore non si finisce mai di espiare (tristes trópicos). Questa voce viene infatti dalla terra dei non sopravvissuti, «carne desangelada» come i bambini morti senza grazia né tutela di nome (piazza del limbo, firenze) e, per aver condiviso la pena degli assenti, ha imparato suo malgrado a restare dove nessuno dice e sa vegliare e leggere «le parole che non ci sono».
 Che cosa ci dice questa poesia «del lado azul de la verdad» che noi ‘ipocriti lettori’ non conosciamo bene nella sua miseria di mani vuote, labbra senza parole, corpo disabitato, candide bestemmie e colpe irredimibili? Forse il nonsenso e nel suo rovescio il senso che l’attraversa sfuggente come un lampo di ferite o un brivido che annuncia terremoti (recinto de la piel; la gran explosión), ma proprio per questo indubitabile, come tutte le cose che sono sisma dell’essere, il «bambino arcano», come lo ha chiamato Eloy Santos, che ha superato in incognito l’ultima spiaggia salvato senza che si sappia come.
Il limbo che è distanza dalla vita (tema di molta poesia contemporanea, si veda A debida distancia di Álvaro Valverde), scissione fra corpo e psiche, tempo, luogo e senso è anche ciò che rende possibile l’arcano, proprio perché negato dalla memoria, inesistente, quando tornare allo spazio dell’origine rimontando la corrente era stato il primo proposito del poeta. Allora la fatica si dirige verso quanto non si può recuperare, questo presente ‘sempre ipotetico’, dove appunto «nessuno [...] rimonta quella corrente»: mettendo in ombra il soggetto è possibile sentire le parole di qualcuno attraverso il soggetto, cancellato affinché vi sia il palinsesto per la lettura e scrittura in negativo, la nascita di qual cosa che conta più della cosa, il regalo de cumpleaños para el niño arcano che, corretto fino alla fine da «se potessi», non perde nulla del pensiero. «nadie» diventa «alguien», ‘qualcuno’ con le dovute correzioni di questo caso, ancora un pronome indefinito di lettura duplice e la traduzione di una ritrosia dal soggetto forte (si veda retraso: l’arrivo in ritardo a scuola, con i compiti, restati, per sempre, da fare), che è qualcosa di più coraggioso e generoso del soggetto debole: perseveranza nel non sapere, nella vocazione di annullamento disponibile allo stupore, come di araldo rimasto di vedetta nell’oscurità il guscio della chiocciola o i «laberintos de caligrafía» – solo perché con l’alba vi si illumini la presenza dell’invisibile. I nomi qui non hanno più come per i simbolisti e i poeti puri il potere di creare, né l’io è padrone di un mondo, la poesia riflette piuttosto nella depersonalizzazione un carattere psicologico del nostro tempo. C’è però quella che con un prestito da Cesare Viviani si può chiamare «preghiera del nome» (vd. oración para mí; plegaria de las manos), l’ospitalità tutelare (accanto a madre e padre, i giocattoli per  una razza estinta), la speranza disperata di tutti i nessuno che hanno viste bruciate le loro illusioni. Non il sapersi salvare, ma essere salvati dal tavolo su cui si scrive: è emblematico che, abbandonato il navigare a vuoto del pc, la scrittura avvenga con una «estilográfica indolente», sobre la mesa che ha avuto un tempo felice di albero e ora lascia che il canto vi si annidi addormentato o vegeti di «hojas blancas». La pagina bianca non sa cercare riempitivi dove la semplice parola è stata mortificata. In fondo una ragione dell’inefficacia delle parole, le «sirene» di questo secolo segnato alla nascita dalla fine del precedente, dai suoi tragici eventi e dal carattere disumanizzante quanto inapparente: ne sono metafore il «secreto diluvio de las horas» o, altrettanto inavvertita, la glaciale inondazione metropolitana di enero 1998. Valente ha datato un punto zero con la morte di Rimbaud e Lautréamont, i poeti adolescenti, Eloy Santos ne palesa ora un altro, in cui l’infanzia della poesia è stata derelitta: forse sono segni di un’epoca invecchiata precocemente senza saggezza. Alla poesia non resta che ricominciare dalla coscienza dell’assoluta fragilità (ne è figura il «soldadito de plomo» in juguetes de antaño) sull’unica tavola di salvezza di un quaderno in bianco sulla spuma che porta l’annuncio: non del ritorno però, né della terra promessa bensì delle promesse fatte al «bambino arcano» solo a fede, con parole mai pronunciate. È la terra di nessuno divenuta di qualcuno che, perso tutto, può riconoscervisi e rendere il mistero augurale: «y en trar en el paisaje donde un hombre / esculpe su palabra más allá de la sed, / y no se pertenece, / y su pasión se parece a la vida, / y nada le avergüenza» (anuncio por palabras). Questo è anche il riscatto dell’entusiasmo infantile possibile alla poesia che oltrepassa i confini dell’io con l’amore e la generosità di dare forma ai sogni umani e con essi un metodo per ordinare l’universo e comprendersi; fare di uno scenario muto, insensibile, selvaggio (l’esistenza), un «paesaggio», ossia un luogo in cui l’uomo ha lasciato una traccia e si fa presente.
Una stremata bellezza abita la lingua insieme al tessuto intellettivo di questi versi, dall’apparenza di un parlato sospeso a mezza voce, perplesso e incolore in cui decanta la precisione meditata, la polisemia si restringe alla più rigorosa pertinenza e risuona con sorprendente purezza nella misura armonica che significa la familiarità profonda con la poesia e il dono di scoprirne la sorgente interrata.
 
[L. V.]

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